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Dante Alighieri
Biografia a cura di Adele Garavaglia e Giuseppe Bonghi
Di antica nobiltà sono i suoi antenati, discendenti addirittura dai Romani. Cacciaguida, suo trisavolo, a Firenze vive con le famiglie dei fratelli Moronto ed Eliseo, nella zona del Mercato Vecchio; armato cavaliere dall'imperatore Corrado III, mentre era al suo seguito durante la seconda Crociata, muore in Terrasanta. La moglie, una Alighiera forse di Ferrara, gli dà dei figli, uno dei quali si chiama come lei, Alighiero I, da cui derivano i rami dei Bellincione e dei Bello. Al primo appartiene Durante, chiamato Dante, figlio di Alighiero II e nipote di Bellincione.
Il padre di Dante vivacchia facendo il cambiavalute e forse anche l'usuraio, a giudicare da alcune voci maligne. Abita nel Sesto di Porta San Pietro, è di tradizione guelfa, ma non si getta certo nel vivo della lotte faziose; è figura scialba che il poeta passa sotto silenzio. Dante nasce in una casa posta di fronte alla Torre della Castagna, verso la fine del mese di maggio del 1265, sotto la costellazione dei Gemelli da Alighiero Alighieri di Bellincione e da donna Bella (Gabriella) di casato ignoto e battezzato in San Giovanni.
Così racconta Boccaccio:
"Del quale, come che alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo effetto seguìto, sia manifestissimo a tutti.
Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno."
La madre muore ancor giovane, lasciando il figlioletto in tenera età; subito dopo il padre Alighiero si risposa con Lapa di Chiarissimo Cialuffi che gli dà due figli; Francesco e Tana (Gaetana). Prima del 1283 Anche il padre muore, ma già dal 1277 (Dante ha 12 anni) aveva "provveduto al futuro coniugale del figlio, stipulando l'instrumentum dotis, una specie di fidanzamento ufficiale garantito con atto notarile, col quale Dante veniva promesso in matrimonio a Gemma Donati".
Poco si sa dell'infanzia del poeta; studia presso i francescani, poi ascolta le lezioni di retorica di Brunetto Latini e segue le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina all'Università di Bologna, fra l'estate del 1286 e la primavera del 1287. Nel 1274 (all'età di nove anni, come afferma nella Vita nova) conosce Beatrice, figlia di Folco Portinari, che andrà sposa a Simone Bardi, e la rivede nove anni dopo, nel 1283: è l'avvenimento amoroso decisivo della sua vita, che durerà anche dopo la morte della donna avvenuta nel 1290.
Giovanissimo, da vero autodidatta comincia a dire parole per rima, assorbendo la lezione dei numerosi poeti fiorentini, di scuola guittoniana e stilnovista. La sua curiosità e il desiderio di sperimentare tecniche diverse, lo inducono a tentare anche il genere giocoso e forme poetiche di vario genere, in componimenti raccolti nelle Rime. I suoi primi tentativi sono opere anonime come il Fiore, che ripropone in 232 sonetti l'allegoria del Roman de la Rose (dei francesi Guillaume de Lorris e Jean de Meung), completato intorno al 1280 e il Detto d'Amore, poemetto allegorico che segna il trapasso ai moduli guinizelliani. Questi due componimenti, comunque, solo da Gianfranco Contini e pochi altri, con argomenti puramente indiziari, sono attribuiti a Dante: i dubbi restano molti.
Non mancano le esperienze tipicamente giovanili, di prammatica per un nobile rampollo di un comune del Duecento; l'1 giugno del 1289 combatte nella battaglia di Campaldino‚ contro Arezzo e i ghibellini toscani, mentre nell'agosto dello stesso anno partecipa all'assedio del castello di Caprona, in Valdarno, tenuto dai ghibellini. Ma la guerra non fa per lui; meglio la letteratura e anche la politica, intesa come dovere e contributo al pubblico bene.
L'amore, come abbiamo detto, si impersona nell'austera e angelica Beatrice, moglie di Simone dei Bardi e figlia di un ricchissimo borghese che ha donato alla città l'ospedale degli Innocenti, Folco Portinari. L'ha conosciuta a nove anni, la rivede e ne riceve il saluto a diciotto; l'ama in silenzio, pago di vederla, di ricevere la salute dello spirito dal suo saluto per via, di lodarla nelle sue liriche quando lei, forse per le voci che circolano sul suo conto, gli toglie anche questo esile filo di comunicazione. Dante, infatti, per evitare i pettegolezzi, finge di corteggiare altre donne. La sua morte ha il potere di prostrare Dante sino all'abbrutimento, da cui esce con l'aiuto di amici, conoscenti, forse anche di fanciulle pietose, sogni premonitori; decide, allora, di scrivere per Beatrice qualcosa di straordinario e inedito, qualcosa che nessun altro prima d'allora, mai aveva pensato in onore di una donna. E intanto pubblica nel 1292-93 un prosimetro (insieme di poesie e prose), intitolato Vita nuova in cui ricostruisce le fasi e la storia del suo amore per la fanciulla-angelo che gli sembra essere scesa in terra a miracol mostrare, tanto intensa è la bellezza e purezza della sua immagine.
Beatrice, guida di Dante nel Paradiso e sollecitata dal Cielo a trarlo dalla vita di traviamento in cui s'è lasciato cadere dopo la sua morte, sembrerebbe l'obiettivo della Commedia; ma il poema, forse, al di là delle stesse aspettative del poeta, diventerà qualcosa di più che una semplice apologia della donna amata.
Abbandonati i divertimenti giovanili, Dante si dedica agli studi di filosofia (Boezio, Cicerone, Aristotele, Platone, San Tommaso d'Aquino) e di teologia presso i Domenicani di Santa Maria Novella e presso i Francescani di Santa Croce; fra l'estate del 1286 e l'agosto del 1287 lo troviamo a Bologna, a seguire le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina.
Intanto, probabilmente nel 1285, comunque prima del 1290, Dante si sposa con Gemma di Manetto Donati parente del fazioso Corso; dalla moglie, sulla quale non scriverà mai una riga, ha tre figli: Iacopo, Pietro e Antonia (forse la suor Beatrice del Convento di Santo Stefano degli Olivi a Ravenna) e probabilmente un Giovanni che premuore al padre, ma risulta da un atto notarile del 1308. Quale parte abbia avuto Gemma nella vita di Dante, non sappiamo. "Fu la madre de' suoi figli e la reggitrice della casa. E paga di tanto ufizio, ella, secondo ogni probabilità, più oltre non ambì. Il marito era poeta, e cercava la vita dove le consuetudini del tempo gliela facevano trovare. Perciò il matrimonio non gli impedì di continuare a cantare la donna che aveva fino allora servito... (Umberto Cosmo, Vita di Dante, La nuova Italia, Firenze 1965, III edizione).
A trent'anni, nel 1295, Dante può buttarsi in politica, dopo che sono stati parzialmente rettificati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che, in origine (1293), impedivano ai nobili di accedere alle cariche pubbliche. Ora un nobile che sia iscritto alla matricola di un'Arte, può essere eletto nel Consigli del popolo e al Priorato. Dante diviene membro dell'Arte dei Medici e Speziali, la meno lontana dalle sue attitudini di intellettuale, poeta e scienziato. Non gli è difficile venire eletto; a Firenze tutti lo conoscono come uomo accorto, colto, equilibrato. Nel semestre novembre 1295-aprile 1296 è membro del Consiglio speciale del Capitano del Popolo: 36 cittadini, sei per sestiere (i quartieri di Firenze): Dante era stato eletto con altri cinque compagni per il "sesto" di Por San Pietro; nel dicembre 1296 viene invitato, come uno de' Savi, nel Consiglio delle Capitudini a dire il suo parere sulla procedura, che si sarebbe dovuta seguire per la nomina dei nuovi Priori. "Nel Consiglio dei Capitani - quale ne fosse la ragione - non profferì verbo; in quello delle Capitudini confortò della sua autorità il parere di un altro Savio: Dantes Alaghieri consuluit. (Cosmo, cit.).
Nel maggio 1296 è nel Consiglio dei Cento, che si occupa dell'amministrazione del pubblico denaro, quattro anni, il 7 maggio, dopo viene inviato come ambasciatore a san Gimignano per rafforzare la lega Guelfa tra i comuni della Toscana e serviva a Firenze per esercitare la sua egemonia. Il 15 giugno, come continuatore della politica di resistenza del Comune contro le ingerenze e le sopraffazioni del Pontefice, proprio mentre si trovava in città il Cardinale d'Acquasparta mandatovi in apparenza come paciere fra le opposte fazioni, è chiamato a far parte della Signoria: è il momento della massima considerazione goduta il patria. Ma ovunque volge lo sguardo vede violenza e cupidigia che generano scontri violenti di fazioni, la voglia del Papa Bonifacio VIII di piegare Firenze alla sua egemonia politica. Il 1300 è un anno cruciale per la città. A Calendimaggio nella piazza di Santa Trinità scoppia una zuffa tra giovani esponenti della fazione dei Guelfi neri (capeggiata da Corso Donati, violento e fazioso, e dei Guelfi bianchi (guidata da Vieri dei Cerchi, commercianti inurbatisi da poco).
La tensione tra e Bonifacio VIII è altissima e negli ultimi tempi si era acuita per la condanna di tre cittadini fiorentini, Guelfi Neri e banchieri della Corte di Roma, per macchinazioni contro la libertà di Firenze e della Toscana. Il Papa si sente colpito dalla condanna ed esige che vengano annullati processo e condanna: ma la Signoria resiste imperterrita, firma la sentenza di condanna dei cospiratori, impedisce con una provvisione dei Consigli ogni intromissione pontificia nell'esercizio della giurisdizione cittadina e frena le facoltà stesse dell'inquisitore romano. Il 15 giugno entra in carica la nuova Signoria e il Notaio della Camera del Comuni presenta nelle mani dei Nuovi Priori la condanna inflitta ai tre cittadini fiorentini residenti presso la corte di Roma. Comincia così il primo giorno del Priorato di Dante, eletto Priore per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300, proprio quando più insistenti si fanno i tentativi di papa Bonifacio VIII di mettere le mani su Firenze, attraverso gli intrallazzi del suo legato, cardinal Matteo d'Acquasparta, apparentemente incaricato di pacificare le fazioni in lotta.
Il 23 giugno una nuova zuffa, ai danni dei consoli delle Arti, che, come era usanza, andavano in processione a San Giovanni, insanguina le vie della città. I priori decidono, pare proprio per suggerimento di Dante, di espellere i capi più sediziosi delle due parti. In esilio andrà pure Guido Cavalcanti, il migliore amico di Dante.
Finito il suo priorato, Dante non rinuncia a dar battaglia a Bonifacio VIII, mandando a monte alcune sue iniziative egemoniche. Nel 1302, per evitare una rottura con il pontefice, Firenze invia alla Corte romana tre ambasciatori: Dante, Maso Minerbetti che aveva buone conoscenze presso la Curia romana, e Guido Ubaldini degli Aldobrandi detto il Corazza, uomo 'guelfissimo', che era stato Gonfaloniere della Signoria, principale autore del processo contro i tre fiorentini di cui abbiamo detto.
L'ambasceria si presentava in atto di sottomissione, confidando in un atto di resipiscenza del Papa, di "quel peccatore di grande animo. In Laterano il Pontefice accolse l'ambasceria: "così Dante si trovò finalmente di fronte all'uomo che in nome del Dio ond'era sacerdote si proclamava padrone del mondo: un uomo dal corpo disfatto, cui non rimanevano più che lingua e occhi; l'impressione che da quel colloquio il poeta ritrasse di quell'uomo, ironico, sarcastico, satanicamente tentatore, è rimasta in alcuni atteggiamenti di una scena famosa del canto XXVII dell'Inferno." (Cosmo, cit.). Il Papa chiede agli ambasciatori di umiliarsi e sottomettersi a lui e afferma che le sue azioni erano dirette solo al bene della città; rimanda indietro gli altri due e trattiene Dante.
La situazione è grave; sta scendendo in Italia, con cinquecento cavalieri, il fratello del re di Francia, Carlo di Valois, che entra in Firenze il 1 novembre, con il pretesto di pacificarla. In realtà i Neri approfittano del cambiamento di regime, intrallazzando con Carlo. Corso Donati e i fuorusciti fanno ritorno, vendicandosi crudelmente sui beni e sui familiari, oltre che sulle persone dei nemici. La casa di Dante viene saccheggiata, mentre il nuovo podestà, favorevole ormai ai Neri, bandisce i più importanti esponenti dei Bianchi dalla città. Dante, che si è sottratto in tutta fretta dall'assillante protezione di Bonifacio VIII, viene raggiunto a Siena dalla condanna all'esilio per due anni, il 27 gennaio 1302. È stato accusato di baratteria, con l'ammenda di 5.000 fiorini. La pena viene trasformato in condanna al rogo il 1° marzo successivo, poiché il poeta non si è presentato a discolparsi, per timore della cattura.
Uno dei massimi dantisti italiani, Michele Barbi (Dante, Vita opere e fortuna, Firenze, Sansoni, 1952), nota che l'esilio fa di Dante un uomo sopra le parti, lo spoglia del suo municipalismo, per renderlo cittadino d'Italia. Il Foscolo nell'Ottocento, sposa la tesi di un ghibellinismo del poeta che, allontanato dalla patria, si accosta al partito avverso e rivaluta il ruolo dell'imperatore. In effetti l'esilio muta radicalmente la vita del poeta; l'inizio è durissimo, come egli stesso confessa nel Canto XVII del Paradiso. Si tratta di lasciare le persone care, i luoghi sicuri, i beni che danno sostentamento. Si trova in balìa della sorte e con la pessima etichetta di bandito dalla patria, come funzionario corrotto e ladro del pubblico denaro (in questo consiste l'accusa di baratteria con cui a Firenze i Neri giustificano il bando del poeta).
Nei primi tempi egli si unisce ai fuorusciti bianchi per tentare di rientrare in città con la forza: è presente a Gorgonza‚ e a San Godenzo, dove l'8 giugno 1302 i guelfi Bianchi e i Ghibellini stringono un'alleanza e si accordano con gli Ubaldini di Mugello contro i Guelfi neri. Ma l'impresa fallisce. La necessità di sopravvivere trasforma Dante in uomo di corte; lo troviamo come poeta, segretario, ambasciatore, delegato dei maggiori signori dell'Italia settentrionale che gli offrono ospitalità, accettata con buona grazia, ma vissuta come una durissima umiliazione.
Nel 1303 è segretario presso il signore di Forlì Scarpetta Ordelaffi, poi si sposta a Verona, presso Bartolommeo della Scala. L'anno successivo partecipa alla delegazione di Parte Bianca che tratta la pace con i Neri di Firenze, attraverso la mediazione del legato pontificio Niccolò da Prato. Intanto Bonifacio VIII è morto e gli è succeduto Benedetto XI. La trattativa non va in porto, i Bianchi organizzano una sortita violenta che si risolverà nella sanguinosa e drammatica battaglia della Lastra (1304). Tra polemiche, accuse ingiuste, sospetti, Dante si toglie dal gruppo e preferisce lottare da solo per la propria vita, aspettando una congiuntura politica più favorevole per il ritorno in città. Già da un anno la condanna comminatagli dai magistrati fiorentini è stata estesa ai suoi figli, quando raggiungeranno l'età di quattordici anni; è giunto il momento di rafforzare la sua posizione, e, benché esule, acquisire fama, prestigio, dignità che gli consentano di vivere alla meno peggio lontano dalla patria. Il problema maggiore è la questione economica che il fratello cerca di alleggerire con prestiti. Per guadagnarsi buona fama, Dante inizia la stesura di trattati e opere letterarie, che rappresentino una sorta di biglietto da visita per i suoi futuri ospiti.
Nel 1304 inizia il Convivio, un banchetto di sapere che rimane incompiuto e che, steso in volgare, si indirizza ai nobili che vogliano approfondire la propria cultura. Rimane incompiuto al quarto libro: dopo il trattato iniziale, gli altri chiosano tre canzoni che saranno citate nella Commedia; Voi che 'intendendo il terzo ciel movete (sulle gerarchie angeliche), Amor che nella mente mi ragiona sulla scienza e la filosofia), Le dolci rime d'amor ch''i solìa (sulla nobiltà come conquista morale e intellettuale).
Negli stessi anni (1304-1309), mentre stende l'Inferno, progetta un'altra opera di argomento linguistico, il De vulgari eloquentia in latino, in difesa del volgare. Interrotto a metà del secondo libro, esamina le origini del linguaggio, i vari dialetti italiani e definisce le caratteristiche di un volgare privilegiato che dovrebbe essere preso a modello degli intellettuali, come lingua comune italiana. Sono anni molto tristi; il poeta si sposta dalla corte di Gherardo da Camino‚ signore di Treviso, alla casa degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani. A Bologna conosce Cino da Pistoia, giurista e poeta stilnovista, poi si ferma in Lunigiana, presso Moroello Malaspina‚ e a Lucca. Pare che tra il 1308 e il 1310 sia in Francia per frequentare la facoltà di teologia a Parigi. Sicuramente, se la notizia è vera, ascolta, in vico degli strami le lezioni di filosofia di Sigieri di Brabante. Con l'elezione di Arrigo VII di Lussemburgo a imperatore, Dante spera vivamente che la pace e la giustizia tornino a regnare in Italia.
Il 10 0ttobre 1310 invia una Epistola ai Signori e Comuni e Popoli d'Italia affinché accolgano con obbedienza e umiltà le disposizioni dell'imperatore che sta scendendo in Italia per l'incoronazione. Papa Clemente V ha invitato le città italiane a porsi a sua disposizione, ma ben presto si palesa il suo voltafaccia. Firenze per prima si oppone all'imperatore seguita da altre città timorose di perdere la propria autonomia. L'imperatore mette Firenze al bando dell'impero e l'assedia, ma invano.
Le speranze di Dante svaniscono; non tornerà più in patria in un clima di giustizia. Arrigo VII viene incoronato a Roma nel giugno 1312, ma il Papa lo invita a tornare in Germania, su istigazione degli Angioini e del re di Francia; Dante sente questo come un tradimento. Sta scrivendo un trattato in latino, De Monarchia in tre libri, in cui rivaluta il ruolo dell'impero, dichiara il potere imperiale e quello pontificio indipendenti e sostiene che entrambi derivano dalla volontà di Dio, che vuole garantire agli uomini due mezzi per ottenere la salvezza.
Il 24 agosto 1313 Arrigo VII muore a Buonconvento, presso Siena, di febbri malariche. Dante ha terminato la stesura dell'Inferno e del Purgatorio.
Scrive Boccaccio nel Trattatello in onore di Dante: "Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni."
Dante ha perso definitivamente la speranza di tornare a Firenze. Nel 1311, infatti, a Firenze Baldo d'Aguglione ha varato una riforma che consente il ritorno di molti esuli, ma Dante ne è stato escluso; troverà ospitalità presso Cangrande della Scala, succeduto al fratello Bartolommeo nella signoria su Verona. Presso di lui Dante si ferma sino al 1318-19.
Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approva un'amnistia a tutti gli esiliati, e questa volta senza limitazioni (dalla precedente, infatti, Dante era stato volutamente e dichiaratamente escluso); il 24 di giugno, in occasione della festa del Patrono della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che partendo dal carcere, avrebbero dovuto percorrere il tragitto in processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco, con una mitra di carta con sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un cero acceso in una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al "bel San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati nei loro beni e in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti politici che, al momento del provvedimento non erano in carcere, l'oblatio consisteva nel toccare simbolicamente col piede la soglia del carcere e quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della mitra né altre condizioni degradanti.
Con sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai avrebbe accettato di stare a fianco di malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato nel 1291, era stato poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra gli esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo d'Aguglione del settembre 1311.
All'amico (anonimo, ma dalla lettera si ricava che era un religioso, parente di Dante col quale aveva in comune "un nipote", forse Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma) risponde con questa lettera, dichiarandosi pronto a rientrare, ma con tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza conclamata e a tutti manifesta e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il pane e può continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità (Epistola XII):
[I] Per mezzo delle vostre lettere ricevute e con la debita riverenza e affetto, ho con animo grato e diligente attenzione appreso, quanto vi stia a a cuore e quanta cura abbiate per il mio rimpatrio; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. Per questo, anche se non sarà quale la pusillanimità di alcuni desidererebbe, vi chiedo affettuosamente che la risposta al loro contenuto, prima di essere giudicata, sia ponderata all'esame della vostra saggezza.
[II] Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato riguardo al decreto da poco emanato in Firenze sul proscioglimento dei banditi che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi patire l'onta dell'offerta, potrei sia essere assolto che ritornare subito. Ma ci sono, o padre, due cose degne di riso e oggetto di cattivo consiglio nelle lettere di quelli che mi hanno comunicato tali cose; le vostre lettere, infatti, formulate con maggiore discrezione e saggezza, non contenevano nulla di ciò.
[III] È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero!
[IV] Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.
Negli anni del soggiorno veronese scrive la famosa Epistola a Cangrande in cui gli dedica il Paradiso. Nel 1319 Dante si trasferisce presso Guido Novello da Polenta con i figli. Mentre compone il Paradiso risponde con due Ecloghe a Giovanni del Virgilio che vorrebbe rielaborasse la Commedia in latino. Poi scrive il trattatello scientifico Quaestio de aqua et terra che presenta a Verona in una dissertazione del 20 gennaio 1320.
Muore di ritorno da un'ambasceria a Venezia per conto del signore di Ravenna, dopo aver contratto le febbri malariche; il 22 agosto vennero firmati i patti dell'alleanza tra Forlì e Venezia e Dante chiese di poter tornare a Ravenna. "L'uomo era stanco, malazzato. Probabilmente chiese e ottenne licenza per il ritorno. Mai, in tanto peregrinare fece viaggio più triste. Attraverso la laguna, lungo il cordone litorale: le terre deserte... La sera del secondo giorno sostò secondo il costume, a Pomposa... Arrivò a Ravenna per riposare sul letto di morte. Il corpo bruciante per febbre, lo spirito immerso in Dio. Intorno i figli piangenti, gli amici, il Signore stesso nelle ore che consentiva l'aggravarsi della situazione politica. ... Il mondo veniva dinanzi a lui: tra lui e Dio non c'era più alcuno. E sentì che Egli giungeva. Era la notte fra il 14 e il 15 settembre 1321. Mentre il grande mistero si compiva, Beatrice, levata con le sorelle per il mattutino, pregava nella piccola cappella dell'Uliva. Il cielo incominciava a imbianchire, e Beatrice sollevò gli occhi umidi di pianto verso quella luce: pareva il cielo si aprisse ad accogliere il padre suo." (Bosco, cit., pag. 261-2).
Secondo l'Altomonte "È una notte di settembre, tra il 13 e il 14, quando entra nel suo «maggior sonno», dopo che il medico Fiducio de' Milotti aveva usato tutta la sua scienza per salvarlo. "Guido Novello aveva predisposto una cerimonia pubblica. Subito dopo il cadavere veniva «seppellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosofo». Lo annotava un cronista, confermato poi da Boccaccio, il quale aggiungeva che Guido aveva «adornare il morto corpo di ornamenti poetici sopra un funebre letto». La chiesa della tumulazione - «in un'arca lapidea» - era quella di San Pietro Maggiore. Usciti dalla chiesa, quanto avevano partecipato al rito tornarono alla casa in cui Dante aveva abitato. Guido vi tenne «uno ornato e lungo sermone»."
In quella casa erano conservati gli ultimi 13 canti del Paradiso; li troverà il figlio Jacopo, dopo un sogno nel quale il padre gli era apparso indicandogli il luogo nel quale aveva nascosto la parte conclusiva del suo lavoro. Intanto la figlia Antonia entrava in convento (o forse vi era già) assumendo il nome di Beatrice.
Adele Garavaglia e Giuseppe Bonghi
fonte: www.classicitaliani.it
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