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Capire fino in fondo la Wilderness per una nuova etica ambientale
di Massimo Zaratin - Delegato regionale del Veneto della Wilderness Italia - Dicembre 2010
“La cultura rurale deve riappropriarsi degli spazi perduti.
Consiglierei di leggere i Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli.
E’ la cultura urbana che recide l’anima con i suoi riti pieni dell’ovvio”.
Antonio Pinotti
Dove sta andando la filosofia ambientale dell’”homo urbanis”?
A seguito dell’articolo “Wilderness: Thoreau, Leopold e la caccia” a cura del prof. Paolo Scroccaro pubblicato il mese scorso in alcuni siti di filosofia in cui si critica, seppur costruttivamente, la posizione non contraria all’attività venatoria da me sostenuta durante una recente trasmissione televisiva, ritengo doverose alcune precisazioni nel tentativo di fare chiarezza sia sul concetto di filosofia Wilderness, sia sulla caccia in Italia e più in generale sulle “attività rurali” dell’uomo.
Il concetto espresso dalla Wilderness, inteso quale salvaguardia ambientale, conservazione del territorio e come filosofia di vita per l’uomo è chiaro in molte parti del mondo, specialmente in America ove questa filosofia è nata e si è sviluppata; Purtroppo tarda ad essere pienamente concepito, e pertanto accettato, laddove c’è una predominanza culturale tendenzialmente “urbana” che continua a voler negare alcuni aspetti della natura che risultano invece senz’altro più chiari a chi vive un rapporto diretto con il territorio ed in esso vi pratica le più strette ed “intime” attività. Se è perfettamente lecito avere un’opinione negativa dell’attività venatoria, avversione che il più delle volte deriva da una scarsa se non nulla conoscenza sia tecnica che “psicologica” della materia così come ampiamente dimostrato anche da un recente sondaggio (1), più attenzione dobbiamo porre alle questioni puramente filosofiche espresse dai paladini della Wilderness perché altrimenti si rischia, come nel caso dell’articolo ripreso, di trarre affrettate speculazioni atte solo a rafforzare le proprie personalissime convinzioni ma che certamente non aiutano il lettore a capire il significato più profondo dei concetti espressi da questa filosofia ambientale. Non è la prima volta, in particolare in Italia, che quando si parla di Wilderness e quindi del suo creatore Aldo Leopold (1887-1948) e del suo ispiratore Henry David Thoreau (1817-1862), si dipinge il primo come un cacciatore più o meno pentito ed il secondo come fosse l’antesignano del vegetarianesimo moderno, cultore di una natura da vivere in un puro stato contemplativo. Non è così!
E’ necessario analizzare in maniera più approfondita quali reali cambiamenti siano subentrati nella mentalità di Leopold nel corso della sua vita, tenendo però conto del contesto storico-ambientale dell’epoca e quale praticità ha invece trovato il “Thoreau vegetariano” nel momento in cui si è scontrato con la realtà di una natura da lui pienamente vissuta e non solo idealizzata.
Partiamo da Leopold: la visione ambientalista dell’epoca era estremamente antropocentrica. Le grandi problematiche ambientaliste si svilupparono solo successivamente sulla spinta del devastante effetto dell’inquinamento dovuto all’industrializzazione e della deforestazione per lasciare spazio ai pascoli.
Questi problemi furono il motore propulsore che sviluppò una diversa coscienza umana cui guardare ad un nuovo rapporto uomo-natura, comprese appunto le tematiche relative alla gestione faunistica. Prima degli anni sessanta nessuno si poneva il problema se uccidere tutti i predatori significasse uno squilibrio naturale. Il programma conservazionistico di Gifford Pinchot che influenzò Leopold anche per quanto concerne la razionalizzazione delle risorse in senso faunistico, sentiva quindi ancora della forte visione antropocentrica dell’epoca. Per Pinchot infatti si doveva guardare “all’uso delle foreste innanzitutto per il maggior bene della generazione attuale, e poi per il maggior bene delle generazioni successive nel lungo futuro della nazione” (2).
In Leopold, la sua continua osservazione della natura, l’amore che nutriva per essa, spirituale in un certo senso ma assolutamente scientifico nel modo cui trattare i problemi conservazionistici, maturò il pensiero che lo spinse appunto a “pensare come una montagna” (3). Questa intuizione, e conseguentemente la maniera cui trattare i problemi ambientali, fu illuminante per l’epoca in quanto pose le basi della moderna biologia di conservazione dando così inizio a ciò che possiamo definire l’ambientalismo scientifico.
Questa fase della suo pensiero viene veicolata dagli “anticaccia” come un messaggio dell’autore di voler bandire la caccia.
Ovviamente è un’interpretazione assolutamente errata e riduttiva della reale concezione di Leopold. Egli, ricordiamolo bene, non smise mai di andare a caccia ed i suoi studi, affiancati a questa passione, gettarono le basi dell’attuale modello di gestione faunistica il cui relativo approccio alle varie tematiche è impostato su canoni rigorosamente scientifici.
Le biblioteche sono piene zeppe di trattati, libri, manuali di gestione faunistica scritti da scienziati, esperti, soprattutto cacciatori ed amanti della natura come Leopold. La letteratura sulla gestione faunistica si perfeziona anno dopo anno sulla base dei dati acquisiti, attraverso puntuali e rigorosi censimenti della fauna selvatica, pianificandone il prelievo e soprattutto imparando dagli errori del passato (4).
Questo modello di gestione faunistica risponde perfettamente al Leopold del secondo periodo della sua vita in quanto segue appieno il condensato della sua miglior filosofia: “La conservazione è uno stato di armonia fra gli uomini e le terre” (5); concetto, questo, che nella sua essenza non tende ad escludere l’uomo dalla terra bensì renderlo parte integrante ed armonica del tutto.
Ignorare questi aspetti, l’approccio rigorosamente scientifico cui è sottoposta la caccia moderna, trarre banali quanto ipersemplicistiche conclusioni sul “cacciatore sparatutto”, sull’animale indifeso, sui fantomatici massacri di biodiversità causati dalla caccia, oltre a dimostrare una completa disinformazione sulla materia ed un approccio assolutamente ideologico alla questione, non risponde a quell’effettivo stato di “armonia fra gli uomini e la natura” cui tendeva la filosofia di Leopold; ed è proprio sulla differente visione del significato che diamo al termine “armonia” che sembrano scontrarsi sempre più nel mondo, ed in particolare in Italia, due diverse culture che spesse volte non riescono a dialogare tra loro. Quella a cui tendeva Leopold, e lo stesso Thoreau, sembra infatti completamente diversa dall’accezione quasi idilliaca e solamente teorizzata formulata da qualche improvvisato “neoruralista” del momento la cui estrazione sociale è quella delle città e pertanto priva di qualsiasi contatto con la terra, se non quello puramente contemplativo. Un aspetto questo riscontrato anche dallo stesso Leopold il quale pensava che il problema dell’”educazione a conservare” fosse proprio quello di riuscire ad inculcare una tensione all’armonia con la terra in persone che hanno dimenticato che esiste qualcosa che si chiama terra e per le quali istruzione e cultura sono diventati sinonimo di abbandono della stessa.
Un uomo così avulso dalla natura, quello moderno e dipendente dalla tecnologia, che difficilmente potrà mai comprendere appieno la filosofia Wilderness proprio perché mancante dell’esperienza diretta con la natura, dentro ad essa, nei suoi cicli e nei suoi ritmi come quella vissuta dal cacciatore conservazionista e dal filosofo solitario sulle sponde del lago Walden. Quanti di noi, o meglio quali figure o categorie, saprebbero oggi apprezzare fino in fondo una delle citazioni di Leopold che trovo tra le più belle e significanti?:
“la possibilità di vedere delle oche è più importante della televisione e l’eventualità di trovare un anemone costituisce un diritto inalienabile quanto la libertà di parola” (6).
Per entrare nei concetti della filosofia Wilderness dobbiamo renderci umili e semplici, abbandonare gli estremismi della cultura animalista, il biocentrismo individualista, l’utilitarismo di Peter Singer ed il giusnaturalismo di Tom Regan ed approdare all’”etica delle virtù”; quella ad esempio descritta dal filosofo Venturi Ferriolo che vede il “buon giardiniere” ed il “buon agricoltore” quali figure paradigmatiche capaci di insegnarci un nuovo ideale per una vita semplice e buona. Perché allora, rispondendo ai canoni di un ambientalismo ragionevole e responsabile, non includere accanto alla figura del “buon giardiniere” e del “buon agricoltore” anche quella del “buon pescatore”, del “buon cacciatore” o del “buon allevatore” se le rispettive attività vengono svolte secondo rigide regole scientifiche, in piena concezione Leopoldiana?
Le troppe questioni teoriche, frutto di una civiltà fortemente urbanizzata e lontanissima dai “problemi pratici” della natura stanno inesorabilmente inquinando quel rapporto diretto con la natura che un tempo accettava serenamente l’uomo all’interno del suo cerchio; ora, questo tipo di uomo, sembra non volerlo più. La “questione animale” e più in generale l’intera filosofia animalista è per esempio il classico caso di estremo “distacco dalla natura”; essa isola completamente l’uomo dalla sua realtà ed arrivando il più delle volte a risultati paradossali “dissolve l’etica in una rete a maglie fittissime di relazioni morali dove è difficile stabilire chi è soggetto morale e chi no, in che punto finisce la “comunità biotica” e in che punto comincia la “comunità morale” (7).
I modelli di riferimento della nostra civiltà, orientati al benessere tecnologico e all’apparire piuttosto che all’essere, hanno prodotto risultati devastanti per l’ambiente. Si è perso il modo di “Vivere la natura” così come inteso da Leopold e Thoreau; anche e soprattutto perché questi modelli hanno sfornato, e continuano a sfornare, uomini che neanche lontanamente possono immaginare cosa significhi. All’uomo d’oggi, più che un modello che ripensi al rapporto con la natura serve un modello per ritrovare se stesso. Personalmente paragono moltissime delle disquisizioni filosofiche attuali sviluppate troppo spesso da uomini che non hanno mai avuto contatti diretti con la natura, come la morte della vera filosofia, in questo caso ambientale, ipotizzata da Thoreau che affermava “al giorno d'oggi vi sono professori di filosofia ma non filosofi. E tuttavia insegnare è ammirevole quanto, un tempo, fu ammirevole vivere. Essere filosofi non significa avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. Risolvere i problemi della vita non solo teoricamente ma praticamente” (8); L’uomo, per Thoreau, è dipendente dal “mostro sociale” avendo perso egli la capacità di costruirsi un rifugio da solo e di procacciarsi il cibo indipendentemente “uscendo” dalla catena industriale. Questa praticità del vivere a contatto con la natura, in un luogo freddo come quello di Walden, creò infatti non pochi problemi conflittuali al filosofo ambientalista che ideologizzava una dieta vegetariana, mai perseguita però fino in fondo durante la sua permanenza in quei luoghi solitari. Una “piccola” contraddizione, questa del filosofo, anche teorica in quanto Thoreau ereditò la concezione di natura trascendentale da Emerson che nel saggio “Nature”, in uno degli otto punti essenziale della sua filosofia, affermava che “tutto in natura ha un utilizzo” esattamente come pensa il contadino che vive immerso nella natura e ne conosce i segreti; figura questa che Thoreau trovava interessante in proporzione alla sua povertà nonché valido sostituito del saggio e del filosofo.
Nella concezione di “uomo inserito nella natura”, nel rispetto dei suoi cicli e dei suoi ritmi così come predicato da Leopold e filosofeggiato da Thoreau, la figura dell’uomo cacciatore, del “buon cacciatore” intendo, entra quale comparsa fondamentale ed inalienabile nella scena la cui protagonista è la natura. Si potrà disquisire sui metodi e sui tempi della caccia (e solo dal punto di vista scientifico) ma non sulla figura dell’uomo cacciatore quale parte integrante ed armonica del territorio che sta vivendo. Accanto alle figure paradigmatiche del “buon giardiniere” ed il “buon agricoltore” decantate dal filosofo Venturi Ferraiolo, si inserisce perfettamente anche la figura del “buon cacciatore” così come, per sentimenti, emozioni e rapporti profondi stabiliti con la natura, le figure del “buon pescatore”, del “buon allevatore”, del “buon raccoglitore” e del “buon escursionista”. Chi non dovrebbe starci in quella scena perché stride notevolmente con i concetti di “natura selvaggia e uomo in essa inserito” è proprio la figura del filosofo appartenente alle “categorie superiori” criticata da Thoreau e da lui sostituta appunto con quella del contadino povero, l’animalista-chic dell’ambientalismo moderno e salottiero, l’asfalto ed il cemento dell’”uomo urbano”, il turismo di massa, le visite guidate nei parchi con tanto di biglietteria all’ingresso. Ovviamente, anche la caccia, come la pesca, l’agricoltura e le altre attività svolte in natura non sono affatto indenni dagli effetti di quel “mostro sociale” cui Thoreau pensava dipendesse l’uomo moderno. Le attività dell’uomo in natura diventano soprattutto un problema nel momento in cui si trasformano in professioni e quindi fonte di guadagni che alimentano quel “mostro”. Io, con l’aggettivo “buono” intendo proprio colui che vivendo nella natura ha sviluppato sentimenti e rapporti tali da farlo “pensare come una montagna”. Chi quella montagna la vive direttamente è avvantaggiato a sviluppare questo sentimento, sia da un punto di vista spirituale, cosa questa che ritengo fondamentale per meritarsi l’appellativo di “buono”, sia da un punto di vista pratico in quanto la conosce profondamente nel suo insieme.
Colui che nel dibattito in questione disquisisce ad esempio se sia giusto o meno eliminare dalle nostre acque la presenza dei gamberi della Luoisiana che fanno razzia delle uova di tutti gli altri pesci sta forse pensando come il fiume? Chi, se non il pescatore, può pensare come il fiume? Chi si oppone agli “abbattimenti scientifici” dei troppi ungulati o si interroga se sia giusto o meno che l’uomo li “uccida” sta forse pensando come una montagna? Chi se non il cacciatore, l’agricoltore, chi abita e vive quel territorio può pensare come una montagna? Chi meglio del “buon giardiniere” può curare il “bello” del suo luogo?
Le risposte a queste domande sono chiare nella filosofia Wilderness ma diventano sempre più incomprensibili ad un uomo che, passo dopo passo, si allontana sempre più dalla natura; questo è il problema cui dovrebbe tendere l’attuale dibattito filosofico, ovverosia come ristabilire l’interesse per la terra in uomini che vivono attorniati dal cemento e dall’asfalto affinché ritrovino non un nuovo modello cui “pensare” il rapporto con la natura ma per ritrovare se stessi all’interno di essa; il “fare” al posto del “pensare”. Ardua sarà quest’impresa fintantoché non cambieranno i modelli di riferimento del “mostro sociale” ed il tentativo non può che avvenire partendo da una filosofia improntata all’”etica delle virtù” e che si interroghi nuovamente sul mito del “buon selvaggio” o sul “ritorno allo stato di natura” di J.J. Rousseau piuttosto che inserire quale perno centrale del dibattito teorie di emozione e non di ragione come quella sui “diritti degli animali”; continuando di questo passo non vorrei trovarmi un giorno a difendere i concetti espressi dal cacciatore mai pentito Aldo Leopold da chi, stravolgendone il pensiero, lo vede come un fervente animalista in una natura “monumentale” da non toccare e da vivere solamente in senso turistico alla domenica.
Massimo Zaratin
Delegato regionale del Veneto della Wilderness Italia - 1° dicembre 2010
NOTE
1) Sondaggio maggio 2010 di AstraRicerche per il Comitato Nazionale Caccia e Natura www.cncn.it
2) Pinchot, G. “The training of a Forester” cit. pag. 152; citato da B. Schroeder, S. Benso, Pensare ambientalista. Tra filosofie e ecologia, Paravia – Torino - 2000.
Vedi anche “La lezione di Aldo Leopold e le prospettive in Italia dell’etica ambientale” – Silvae, anno II, n.6 che offre un’ottima analisi sulla questione.
3) Leopold, A. “Almanacco di un mondo semplice” - Arca G. - Maglietti M. - 1997
4) La letteratura sulla gestione faunistica è vastissima ed ha contribuito agli ottimi risultati raggiunti negli ultimi anni. Il territorio italiano può contare sugli apporti di tecnici del calibro di Franco Perco o Fulvio Ponti.
Per sfatare invece i soliti luoghi comuni sulla caccia alla “piccola migratoria” e per comprendere quali strumenti scientifici siano stati messi a disposizione per ottenere i numeri per un prelievo sostenibile consultare il testo della delibera ed i relativi allegati all’indirizzo web: www.associazionecacciatoriveneti.it
di cui all’oggetto: applicazione del regime di deroga previsto dall’art 9, comma 1 lettera c) della Direttiva 2009/147/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009 concernente la conservazione degli uccelli selvatici. Approvazione ai sensi dell’art. 2, comma 1 della Legge regionale 12 agosto 2005, n. 13.
5) The Aldo Leopold Foundation, sito web: www.aldoleopold.org
6) Leopold, A. “almanacco di un mondo semplice”
7) Bartolommei, S. “Etica e ambiente” Guerini e Associati - 1989
8) Thoreau, H.D. “Walden”, B.U.R., 1993
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