Riflessioni dal Carcere
Detenzione e percezione della pena.
Indagine sociologica sugli effetti del trattamento penitenziario
Di Fabrizio Dentini Dicembre 2008
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- Introduzione
- 1 Perdita della libertà, relazioni affettive e produzione sociale di stigma.
- 2 Perdita della libertà, perdita di beni e servizi e solidarietà.
- 3 Perdita di libertà e sicurezza personale.
- 4 Perdita della libertà ed autonomia individuale.
- 5 Perdita della libertà e trattamento penitenziario come meccanismo di potere.
- 6 Perdita della libertà e ipotesi di reinserimento.
- Conclusioni e Bibliografia
Tanti anni ho vissuto nell’agire e colpire senza domandarmi perché, senza il minimo timore della galera, della pena, eppure innumerevoli sono state le privazioni, le limitazioni e l’isolamento.
Anni in cui la vita era ridotta a un misero epitaffio da non ricordare.
Ciò significa che inaridire e desertificare non induce a una resa imposta, non pone un freno e un susseguente blocco alla violenza, anzi, a mio avviso genera automaticamente altra degenerazione più sottile e pericolosa della precedente.
Questo lavoro si colloca nella tradizione sociologica delineata dalla ricerca qualitativa di autori come Dal Lago e Quadrelli (2003) ed ha come obiettivo e cardine direzionale la descrizione della società e delle sue caratteristiche fondanti per come si manifestano nel settore specifico dell’esecuzione penale.
In particolare l’indagine sociale effettuata in questo lavoro riferisce ed interpreta, avvalendosi dello strumento dell’intervista, narrazioni ed esperienze di persone che per parte della propria vita sono state private della libertà personale, individui che avendo vissuto a vario titolo la detenzione hanno sviluppato un’esperienza significativamente rilevante per l’analisi sociologica, esperienza il cui resoconto fornisce un punto di vista interno alle logiche istituzionali che regolano la vita nel circuito penitenziario.
L’analisi condotta in questo lavoro punta a intuire ed interpretare la reazione individuale ad un ambiente totale e totalizzante.
Le reazioni che l’individuo sviluppa di fronte ad una situazione sociale così particolare e le modalità discorsive adottate nel collocare tale esperienza all’interno di un quadro narrativo coerente di esperienze vissute, sono interessanti perché aiutano a chiarire da un lato le dinamiche proprie del comportamento individuale in situazioni percepite e descritte come di acuta difficoltà, dall’altro aspetti della pratica penitenziaria che difficilmente potrebbero essere focalizzati con un approccio meno interno alle dinamiche istituzionali. (1)
La percezione di queste pratiche da parte del soggetto ex detenuto costituisce l’oggetto di analisi di questa indagine.
Il testo integrale dell’intervista e la totalità del materiale raccolto è inserito all’interno del sito internet della Casa di reclusione di Padova: www.ristretti.it.
1 Perdita della libertà, relazioni affettive e produzione sociale di stigma.
Uno degli aspetti principali che caratterizzano la vita di un detenuto rispetto ad un normale cittadino è la totale forzata scissione dall’ambiente di provenienza e dalla comunità affettiva nella quale era incluso, la perdita della libertà significa la rinuncia involontaria ad una serie di possibilità che vengono azzerate automaticamente dal momento dell’ingresso in un istituto di detenzione.
Il detenuto è isolato dal mondo all’interno dell’istituzione, in questo luogo deve attenersi ad un regolamento che prescrive formalmente e informalmente ciò che è concesso e ciò che è vietato.
Per fornire un’idea di quanto questa perdita sia sentita come drammatica dalla popolazione detenuta, vorrei sottolineare che su venti persone alle quali è stato domandato dopo la detenzione quale fosse la cosa che a loro avviso ritenessero più importante in senso assoluto, quattordici in base alla loro esperienza hanno risposto la libertà e la famiglia, intesa come nucleo affettivo di base: la libertà si declina come valore supremo, base di ogni diritto e la famiglia e le relazioni affettive primarie alle quali da luogo, diventano il punto salvo per il quale vale la pena rischiare una condanna o tenere duro in carcere in prospettiva della futura liberazione.
Porto a confronto la testimonianza di Angela, 44 anni, detenuta nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo per 2 anni e 5 mesi e nella Casa circondariale di Pavia per 6 mesi, Angela ha scontato un totale di 1060 giorni di detenzione: “ La famiglia, tutto quello che ho fatto se sbagliato o non sbagliato l’ ho fatto per aiutare la mia famiglia”, la situazione che ha portato Angela a commettere il reato per il quale è stata reclusa è scaturita all’interno delle dinamiche familiari, A. non mette che superficialmente in discussione l’erroneità o legittimità del reato commesso, questione che assume un peso del tutto secondario in relazione all’importanza della propria famiglia come unico indice di riferimento e propulsore fondamentale delle sue azioni. A. aggiunge di seguito che durante la detenzione era importante per lei:
“poter aver contatto con i miei familiari e poter avere un lavoro remunerato per poter contribuire alle spese di casa”, dunque la famiglia rimane il nucleo principale di appoggio e preoccupazione, con i soldi guadagnati lavorando in carcere A. supplisce alla sua mancanza e alla situazione di indigenza nella quale ha lasciato la propria famiglia.
L’individuo sottratto involontariamente alla normalità dei rapporti sociali, viene inserito in un contesto onnicomprensivo e produttivo di significati morali totalizzanti, la perdita della libertà si somma alla sensazione più o meno esplicita che il proprio comportamento sia considerato moralmente inaccettabile.
Questo stigma il cui simbolo indiretto è la presenza degli agenti di custodia come gruppo superiore di riferimento costituisce un surplus punitivo significativo con il quale il detenuto deve confrontarsi lungo il percorso di detenzione e successivamente; l’immagine che di lui forniscono gli agenti di custodia, indiretti rappresentanti della società morale all’interno del sistema penitenziario, è un esempio di questo stigma come processo di condanna morale della società e dei suoi rappresentanti. Vorrei proporre in merito l’esperienza di Laura, 52 anni detenuta per 4 mesi e 15 giorni nella Casa circondariale di Vercelli e per un anno nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 500 giorni di reclusione, di Victor, 29 anni detenuto presso la Casa circondariale di Busto Arsizio per 4 mesi e nella Casa circondariale di Genova Marassi per 3 mesi e 15 giorni e di Luis, 31 anni detenuto presso la Casa circondariale di Genova Marassi per 6 anni ed un mese, un totale di 2220 giorni di detenzione; Laura: “ […] fra fuori e dentro c’è un cambiamento di trattamento profondo, sei allo zoo, ti guardano e ti trattano come un animale, il carcere è un mondo a parte […].Il mio problema era di non identificarmi a fondo in quella realtà, ci sono persone che sono succubi del carcere, che fanno parte dell’arredo. Non ti identifichi a vari livelli prima riguardo gli agenti, perché non sei un animale e poi nella figura della detenuta”, Victor aggiunge: “ per gli agenti i detenuti sono come extra terrestri, come spazzatura.” e Luis conclude: “Molta gente si sente discriminata dagli agenti che ti trattano male, ti fanno sentire una merda, in aggiunta alla libertà che ti tolgono ti trattano come se fossi senza dignità.”
All’interno del carcere avviene dunque una trasformazione: i prigionieri hanno perduto quel di più che li caratterizzava come cittadini degni di rispetto perché riconosciuti a loro volta come portatori di rispetto: questa quota di dignità perduta, nell’enfatizzare la mancanza di “rispetto” (ad es. di una norma) in cui essi sono incappati, si cristallizza per l’immagine della persona nel suo esatto contrario, nello stigma: è sotto l’ottica dello stigma che è permessa o comunque considerata irrilevante la frequente mancanza di tatto nel rapporto degli agenti con i prigionieri, ai detenuti viene proposta un’immagine, un’autorappresentazione che rasenta quella del non umano, o del sub umano; diventa davvero difficile confrontarsi costantemente con questo stereotipo senza ledere la propria concezione di sé, ed è proprio di questo stigma che parla Diana, 34 anni detenuta per 5 mesi e 18 giorni presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 168 giorni di detenzione:
“perdi la dignità nei confronti delle altre persone, e sapere questo ti fa soffrire, ti distrugge, è una morte interiore”.
Questo stigma agisce indirettamente anche nel regolare i rapporti tra gli stessi detenuti; la rappresentazione degradante fornita dal corpo di custodia influenza l’immagine dei detenuti, ognuno rispetto agli altri e spesso in un circuito di abbrutimento reciproco; se Laura afferma di non identificarsi nella realtà e nel trattamento proposti è perché non si riconosce né nell’immagine che di lei hanno le guardie né nell’immagine che di lei hanno le altre detenute.
Le autorappresentazioni di se stessi, nelle quali il crimine commesso non lede la propria immagine del sé, spesso perché percepito come unica scelta possibile, non coincidono con le rappresentazioni stigmatizzanti proposte dall’ambiente circostante, e questo sfasamento ed il suo grado di incidenza nella totalità della vita del recluso acuiscono notevolmente la sofferenza vissuta dalla comunità dei detenuti.
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1) Nota metodologica: Le testimonianze sono state raccolte nell’estate del 2006, in seguito al provvedimento di indulto emanato dal Ministero di Grazia e Giustizia.
Attraverso lo sportello informativo del Centro dei Sevizi Sociali per Adulti di Genova, ad oggi UEPE, Ufficio esecuzioni penali esterne, ente che svolge un ruolo di sostegno informativo per persone con problemi di giustizia o con alle spalle esperienze detentive, ho contattato circa 70 persone fra le quali 10 uomini e 10 donne hanno accettato di raccontare la loro esperienza.
Le interviste sono state effettuate in luoghi occasionali disposti di volta in volta in base alle esigenze degli/le intervistati/e. Sono state trascritte sul momento ed in seguito alla stesura ufficiale sono state effettuate eventuali correzioni congiuntamente agli intervistati/te; la durata media di un’ intervista è stata di un’ora e mezza.
L’intervista intensiva e trasversale (Bandini, Gatti, Marugo, Verde, 1991, pp. 38, 54) è strutturata in due parti distinte e complementari, nella prima parte dell’intervista è stato richiesto agli intervistati di fornire la storia dettagliata della loro esperienza di detenzione, un resoconto il più possibile dettagliato che descrivesse il tipo di detenzione vissuto: in quale istituto sono stati reclusi, le condizioni nelle quali la detenzione ha avuto luogo e la durata di ogni reclusione; per quanto è stato possibile sono state inoltre annotate le particolarità strutturali di ogni istituto, i ritmi giornalieri imposti dalla Direzione, le attività di trattamento riservate ai detenuti presenti, le attività formative e le attività lavorative.
Dopo la descrizione delle condizioni di detenzione è stata sviluppata una seconda parte, centrale, con lo scopo di sondare il senso che ogni intervistato/a aveva attribuito al periodo trascorso in carcere.
Ho quindi analizzato le risposte raccolte descrivendole e cercando interpretare le impressioni degli/le intervistati/e sulla loro esperienza di detenzione.
Per consentire una più agevole fruizione al lettore, nel rendere i risultati della ricerca più immediati, le interpretazioni desunte dall’analisi delle interviste sono state raggruppate intorno ad un concetto analitico primario, l’idea di perdita della libertà. Attorno a questo polo primario di riferimento l’interpretazione delle interviste è stata articolata successivamente declinandosi attraverso tracce derivate da questo concetto centrale. Le articolazioni sviluppate sono da considerarsi dunque come poli significativi secondari la cui natura empirica è attribuibile alla cristallizzazione del concetto primario, la perdita della libertà, avvenuta attraverso l’analisi delle testimonianze riscontrate sulla percezione della detenzione.
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