La Critica e il Giudizio
di Cinzia Baldazzi indice articoli
Sopra la vita, dopo la morte
Novembre 2016
Ne L’artefice di Jorge Luis Borges, raccolta della maturità, sono compresi i versi di Arte poetica (1):
Sentire che la veglia è un altro sogno
Che sogna di non sognare e che la morte
Che la nostra carne teme è questa morte
Di ogni notte, che si chiama sogno.
Vedere nel giorno e nell'anno un simbolo
Dei giorni dell'uomo e dei suoi anni.
Convertire l'oltraggio degli anni
In una musica, una voce e un simbolo.
Vedere nella morte il sogno, nel tramonto
Un triste oro, tale è la poesia
immortale e povera. La poesia
ritorna come l'alba e il tramonto.
Talora nel crepuscolo un volto
Ci guarda dal fondo di uno specchio:
L'arte deve essere come questo specchio
Che ci rivela il nostro proprio volto.
«Basta rifarsi al mito classico d’Orfeo», sostiene Charles Mauron, «per vedere quali stretti legami uniscano l’idea di creazione lirica con quella di morte e resurrezione. Orfeo fu un dio totemico che i Bassaridi [uomini e donne] divorarono in una comunione rituale. Si credette avesse guarito gli uomini dall’antropofagia. Animava gli essere inanimati (pietre)»(2).
Secondo il mito, riprese Euridice dagli Inferi e, incauto, la smarrì voltandosi indietro: «lo sguardo troppo cosciente sul passato», spiega Mauron, «interrompe il processo di creazione». Orfeo, in seguito, «è fatto a pezzi ma la sua testa e la sua lira sopravvivono, galleggiando sul mare fino a un’isola. L’iniziazione ai misteri orfici libera dal ciclo delle rinascite».
L’antichissima espressione dell’esperienza poetica sottolinea «l’importanza dei meccanismi di lutto e la restaurazione di rovine o perdite interiori nella creazione estetica». Soprattutto: «La vita perduta è ritrovata (come il tempo di Proust), il caso è riordinato da un gesto psichico e da una magia musicale. Si acquista una promessa di salvezza sotto la garanzia di una bellezza».
Al momento attuale, sembra che il valore attribuito alla vita “perduta” e “ritrovata” vada oscillando, nel medesimo intervallo, molto in alto e molto in basso. Accade di frequente, quando si misurano qualità e significato delle cose, delle circostanze, dei traguardi da raggiungere. Senza dubbio, di guerre, di stermini e genocidi, la storia è stata spesso efficace testimone, benché il terrorismo dell’epoca contemporanea diffonda, in Occidente e in Oriente, un senso di precarietà della vita in particolare inquietante e tragico, poiché legato a un giudizio globale su di essa come scomparsa, o all’opposto di essa.
In un brano del Gorgia platonico leggiamo:
Al tempo di Crono e, ancora, nei primi anni del regno di Zeus, viventi giudicavano altri viventi, ed emanavano la sentenza nel giorno stesso in cui ciascuno doveva morire. Ma i giudizi non erano quali avrebbero dovuto essere (…) Disse allora Zeus: «Metterò fine a tutto questo. Oggi le cose vanno male, perché non giusti sono i giudizi, e questo peril fatto che, al momento del giudizio, chi viene giudicato è vestito, essendo giudicati mentre sono ancora vivi. Molti - proseguì - che posseggono un’anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza (…). Avviene che i giudici si lasciano impressionare da tanto apparato; non solo, ma essi stessi giudicano essendo vestiti, avendo l’anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l’insieme del corpo (…). Bisogna, in primo luogo, far sì che gli uomini non conoscano in precedenza il giorno della loro morte (…). In secondo luogo, dunque, dovranno esser giudicati da morti, nudi cioè, cioè spogli da tutti questi ostacoli. E nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice».(3)
Forse per ponderare, pronunciarsi in maniera neutrale sulla bontà della vita spezzata causandone l’annullamento, in virtù di una volontà personale o altrui, sarebbe necessario - lo suggerisce Platone - essere completamente nudi, i giudicanti e gli “abbattuti” (quindi finiti per sempre). Certo, una condizione simile è, nei fatti, assai improbabile da realizzarsi: comunque, tenerne d’occhio l’obiettivo credo possa aiutare a conciliarsi con qualche soluzione non totale, nonché sostenibile e operativa.
In che modo? Cogliendo la natura della scissione, attiva in noi, tra ciò che ci rappresentiamo, ossia quanto deduciamo dall’universo di interpretazione e raffigurazione massmediale (almeno quella percepita-ricevuta) e quanto - invece - è già trascorso nel nostro spirito, o piano di sopravvivenza ideologico e concreto. In questo caso, è chiara la posizione da me espressa di condanna tout-court a ogni genere di interruzione violenta dell’esistenza umana.
Tuttavia, se non la purifico, per un verso, dalla ragione del suo contenuto prettamente intellettuale, peculiare del mio insieme di riferimento sull’essere e sull’esserci (coincidente, cioè, con la mera riflessione che stragi o soppressioni di massa conducano all’annullamento della specie); e, inoltre, se non la stabilizzo e rendo il più possibile svincolabile da un precetto archetipo della morale onorata (il “non si deve uccidere”), non sottoponibile a verifica alcuna, ebbene, il complesso si enuclea in una disapprovazione di per sé certamente valida, condivisibile con milioni di persone prossime e lontane, ma non dialettica. In altre parole, non filtrata per mezzo di un confronto con l’opposto. Al minimo, per quanto io possa ricostruirne le istanze di base, i presupporti etnico-culturali, di sicuro assai lontani.
In sostanza, per formulare un giudizio in tale ordine di storia e fenomeni, trovo sia indispensabile tracciare una linea di confine: alimentare conflitti a oltranza, provocare interventi terroristici come risposta escatologica, legittima vendetta, fondazione di un nuovo migliore mondo, non gestisce eventualità verosimili di garantire di fatto la propria identità con successo, poiché blocca qualsiasi connessione dialettica tra possibilità e realtà tangibile nel divenire: o, meglio, elimina la distinzione tra coscienza individuale e contesto fuori di essa. È stata la decisione di contare sull’autocoscienza, a permettere di spogliarmi, tentando di essere il “giudice nudo” di Platone, addirittura “morto” al punto di isolarmi facilmente dai condizionamenti spazio-temporali e, in assoluto, avvicinandomi così ai defunti da giudicare, in veste sia di causa che di effetto.
In quali termini? Attraverso il concepire la mia libera autocoscienza, i suoi messaggi, in funzione di via d’uscita dal timore (logico ed emotivo) di criticare e deplorare lo sviluppo strutturale e sociale di quell’attualità solo in virtù di un procedimento ridondante, di un progredire etico e razionale trascinato per inerzia: un meccanismo ciclico, di conseguenza, non frutto di un giudizio sintetico aggiuntivo di informazioni in relazione ai padri, agli avi, agli antenati. Attenzione però, una pienezza di autocoscienza idonea a svolgere il suddetto compito è presente se l’Ego, non passività ineccepibile rispetto ad apriori apprezzati o imposti, si nutre anche di percezioni provenienti dagli eventi esterni: accidentalità casuali, elementari o potenti sensazioni di gioia o dolore circostanti.
Commentando l’intuizione a priori kantiana - madre del suo giudizio sintetico, anch’esso apriori - il grande Luigi Scaravelli precisava: «Il soggetto del giudizio garantisce, anzi è, l’individualità. Ed è insieme l’originalità, la novità del reale. I due concetti, quello di novità e quello di individualità, sono legati fra loro in modo così stretto da formare un unico problema».(4)
L’assassinio, l’omicidio, sono comunque applicazione distruttiva di personalità, in visione di qualsivoglia missione ultraterrena da gestirsi in carne ed ossa: è la sobrevida dei maggiori scrittori sudamericani. I defunti non hanno un post mortem che li riporti tra di noi per mezzo di quei sistemi segnici capaci di considerarli attivi e vitali. Permangono, e senza dubbio lo sono, nel ricordo, nell’aspetto iconico della memoria intessuta di un irripetibile essere stati e del cui amore, autentico e non astratto, sempre li circonderà chi li ama.
Scrive un altro illustre argentino, il poeta Juan Gelman da poco scomparso, in Il gioco in cui ci troviamo: (5)
Se mi dessero da scegliere, io sceglierei
questa salute di sapere che siamo molto malati,
questa felicità di trovarci tanto infelici.
Se mi dessero da scegliere, io sceglierei
quest'innocenza di non essere innocente,
questa purezza in cui mi trovo impuro.
Se mi dessero da scegliere, io sceglierei
questo amore con cui odio,
questa speranza che mangia pani disperati.
È qui che succede, signori,
che mi gioco la morte.
«La morte è la definitiva negatività del tempo», annota Herbert Marcuse, e «la gioia vuole l’eternità. L’atemporalità è l’ideale del piacere. Il tempo non ha potere sull’Es originario del principio del piacere».(6)
Ma quale piacere? E quando?
Cinzia Baldazzi
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NOTE
1) Jorge Luis Borges, Arte poetica, in Poeti ispanoamericani contemporanei, a cura di Marcelo Ravoni e Antonio Porta, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 87 (trad. Antonio Porta).
2) Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Introduzione alla psicocritica, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 300 (trad. Mario Picchi) (e successive citazioni).
3) Platone, Gorgia, in Opere Complete, vol. 5, Bari, Laterza, 1975, p. 249-250.
4) Luigi Scaravelli, Critica del capire, Firenze, Sansoni, 1942, p. 68.
5) Juan Gelman, Il gioco in cui ci troviamo, in Poeti ispanoamericani contemporanei, a cura di Marcelo Ravoni e Antonio Porta, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 487 (trad. Antonio Porta).
6) Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1968, p. 153 (trad. Lorenzo Bassi).
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