Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Tra immagine e parola
Conversazione con Giosetta Fioroni
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- maggio 2005
Ho incontrato Giosetta Fioroni nel suo studio romano in Trastevere: artista, nata a Roma da una famiglia di artisti, preziosa testimone di un’epoca feconda di genialità creativa, unica donna, con Angeli, Festa, Schifano, a far parte della Scuola di Piazza del Popolo. Alla Galleria Tartaruga di Roma tiene le prime personali nel ’61 e nel ’64.
Ho voluto raccogliere la sua testimonianza sulla figura dell’amico Cesare Garboli, il critico letterario scomparso nel 2004 che, come nessun altro letterato italiano, parole di Alfonso Berardinelli, “ha esercitato nella nostra cultura un’influenza pari alla sua, altrettanto ramificata e determinante”; e su quella di Goffredo Parise, con il quale, nel ’64, nacque l’amore, che li volle insieme fino al 1986, anno in cui morì, prematuramente, il grande narratore (e inoltre giornalista, sceneggiatore e reporter).
Fioroni, da quanto tempo conosceva Cesare Garboli? Quali interessi condividevate?
Conobbi Cesare Garboli a Roma alla fine degli ’60. Ci fu inizialmente in comune la presenza di Antonio Delfini, amico e sodale di Cesare, che io avevo incontrato e vedevo insieme ad alcuni amici pittori. Per Cesare ebbi immediata curiosità e ammirazione…. fra l’altro per il suo aspetto lievemente trasandato, rapido, segnato da una speciale noncuranza. Era un unicum, era allora bellissimo, aveva riccioli e onde di capelli assai scuri, quasi blu. I gesti delle mani, assai piccole e nervose (che io ho più tardi disegnato) avevano movimenti veloci ed espressivi simili a piccole ali di rondine in volo. La mimica del volto era animata da una straordinaria qualità attoriale; mutevole, ironica... della quale si serviva per parlare, per raccontare. Raccontava aneddoti o storie varie o idee nelle quali sapeva individuare particolari significativi. Aveva istrionesca e mirabile capacità di suscitare per l’interlocutore un originale punto di vista, renderlo partecipe e… quasi sempre sedurlo. Negli anni che vennero la nostra amicizia si è arricchita per me (….e spero un po’ anche per lui…?) di molte affinità e nel ’74 scrisse un bellissimo pezzo per il catalogo di una mia mostra. E così fino ai mesi recenti nei quali Cesare era malato. L’ultima volta gli ho parlato al telefono sabato 10 aprile perché stavo preparando un piccolo catalogo per un convegno su Goffredo Parise e desideravo sapere quale dei pezzi da lui dedicati a Goffredo voleva fosse pubblicato. Cesare era ricoverato alla clinica Quisisana, era molto malato. La sua voce inizialmente sofferente nella conversazione migliorò e assunse tonalità quasi normali con chiarissima esposizione di idee. Lo lasciai piena di speranza, invece, quella notte, era Pasqua, Cesare è morto. (N.d.r. Cesare Garboli muore a Roma l'11 aprile 2004) Nel catalogo per Goffredo naturalmente c’è il testo che Cesare voleva... e che lui aveva raccontato (poi raccolto in un volume da Guida) all’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli nel 1992 in un incontro dedicato ai Sillabari. L’aveva letto in modo altamente espressivo e con cadenze piene di suspense. Ancora lo ricordo divertito e felice, in una giornata napoletana sfolgorante di luce, sottolineare le idee memorabili, e davvero lo erano, di questa sua indagine sui Sillabari. Per questo vorrei citare alcuni passi che ritengo ancora tra le cose più importanti e intuitive che siano state dette e scritte, appunto, sui Sillabari:
“Non sono racconti, non sono apologhi, non sono operette morali. Io non riesco a trovare migliore definizione che questa: sono romanzi virtuali. Intendo dire che pochi, insignificanti particolari contengono in sé virtualmente delle architetture complesse, degli intrecci, dei rapporti romanzeschi. Sono dunque cellule, cellule da cui potrebbero scaturire innumerevoli romanzi possibili. Il processo in cui si svolgono questi romanzi virtuali è doppio: perché essi nascono in primo luogo da una precisa, meticolosa, quasi crudele miniaturizzazione: tutto è portato al piccolo, tutto è ridotto in cenere, tutto è sclerotizzato, quindi un processo di morte. E nello stesso tempo, si sente sotto la miniatura - appunto perché sono romanzi virtuali - come il gorgoglio di una sorgente d’acqua - la possibilità che in queste gocce, in queste cellule, in queste miniature di vita ossificata sorga e si manifesti la vita”.
Più avanti individua un altro punto nodale e dice:
“Una delle cose che mi ha sempre meravigliato frequentando l’opera di Parise è la sua indifferenza, disappartenenza o inappartenenza - comunque insensibilità - alla grande area letteraria europea di cui noi tutti siamo figli: la indifferenza di Parise ai tre grandi modelli del Novecento: Proust, Joyce, e anche Musil si potrebbe dire, se Musil non fosse venuto tanto in ritardo da noi, perché è stato tradotto dopo la seconda guerra mondiale”.
Questi autori spiega Cesare hanno: “di fronte a sé come problema primario il bisogno di legittimare ciò che raccontano. La loro autolegittimazione è tutt’uno con la loro vocazione di narratori” e più avanti prosegue:
“Questo è del tutto estraneo a Parise. Non è uno scrittore saggista, non è uno scrittore intellettuale, non ha nessun bisogno di legittimare il proprio immaginario. Parise si fonda sull’arbitrio, non ha bisogno di legittimare nulla del suo patrimonio fantastico. Quindi il modello è un altro.
Il modello è Kafka. Che voi sapete meglio di me - è il principe dell’arbitrio!”.
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