Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Il teatro dell’assenza
Conversazione con Bruna Dell’Agnese (poetessa e traduttrice)
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
“Non credo di avere dei temi preferiti nelle mie liriche. Ho sempre pensato che tutto ciò che appartiene all’esistenza possa diventare oggetto di poesia. (Se mi dedicassi all’epica farei un discorso diverso, ma non è così). La meditazione lirico – filosofica può partire da un punto qualunque dell’osservazione del reale e del pensiero. ‘Il poeta’ - sostiene la Dickinson – ‘è colui che sa trarre significati straordinari dalle cose più comuni’. Inoltre, poichè ho scelto di vivere in campagna è quasi ovvio che la natura sia per me un privilegiato campo di osservazione e di meditazione: in lei è leggibile un’immensa metafora della nostra stessa vita”: sono parole di Bruna Dell’Agnese, poetessa e traduttrice, la quale ha al suo attivo alcune raccolte di versi, tra cui Vuoto in giardino, Bassa marea, Correndo l’anno, Nel fruscio del quotidiano. Ha pubblicato saggi critici e recensioni su riviste e quotidiani. È presente in diverse antologie. Ha vinto, tra gli altri importanti premi di poesia, il Premio Attilio Bertolucci 2005 con la raccolta Gli improbabili confini, edito da Moretti&Vitali.
Dell’Agnese, nata a Vercelli, è originaria di Borgomanero (Piemonte), ma vive a Milano e trascorre lunghi periodi sul lago d’Orta.
“La poesia deve rifiutare i modelli” – ebbe occasione di dire Edoardo Sanguineti. Secondo lei?
Se avere dei modelli significa semplicemente imitare altri, sono d’accordo con Sanguineti; se invece vuol essere rifiuto acritico di ogni tradizione, dissento totalmente da lui.
Vuole dirmi il suo pensiero nei riguardi degli scrittori, dei poeti, che affermano la necessità inderogabile di stabilire un equilibrio fra espressione artistica e attività sociale?
Prima di esprimere un qualsiasi giudizio su questo argomento, vorrei capire che cosa significhi realmente. E poi: Necessità inderogabile? Ma non esiste la libertà di pensiero, almeno per chi si dichiara poeta?
Qual è la sua definizione di poesia? Oppure – come riteneva Ungaretti – crede che sia indefinibile?
Indubbiamente Ungaretti ha ragione se si tenta di definire che cosa sia veramente in sé la poesia, come ogni attività dello spirito, ritengo che anche questa sia in sé indefinibile. Associandola tuttavia ad un’attività di pensiero, penso che possa significare un percorso verso la conoscenza, di se stessi, innanzi tutto, quindi del mondo in cui viviamo.
La poesia ha in sé un valore rivoluzionario?
Rivoluzione è una parola grossa. Può significare inoltre concetti diversi: in natura è il ciclico percorso di un corpo celeste intorno a un altro, quindi fondamentalmente ripetitività; nella storia è l’azzeramento di ciò che c’era prima nell’insicurezza di ciò che sarà dopo. Non so pertanto se, così inteso, il valore rivoluzionario possa essere applicato alla poesia. Semmai, essa rappresenta sempre una sfida: per il nichilista nel negare; per chi ama la vita, nel volerla comunque affermare. Io non sono nichilista.
Quale dovrebbe essere lo sforzo perenne della poesia?
Se la poesia ha ancora un senso, e io credo l’abbia, dovrebbe essere quello di riconoscere in se stessi l’intera umanità, nella sua speranza e nella sua angoscia, nell’amore e nel lutto, e così via. Dovrebbe, in altre parole, saper interpretare e condividere i sentimenti propri dell’uomo di ogni tempo, nel cambiamento dei tempi e dei modi espressivi, come ogni altra forma d’arte.
Da parte di chi scrive non c’è sempre l’attitudine a rendere fruibile per tutti un testo: c’è una forte tendenza autoreferenziale. Il pubblico, del resto, è quasi sempre composto da poeti. Quindi l’autoreferenzialità è pressoché assoluta… È d’accordo?
Non sono, di conseguenza, per niente d’accordo con chi vorrebbe la poesia una forma di espressione autoreferenziale. Se è vero che solo i poeti leggono i poeti, come diceva Montale, è anche vero che, durante le letture di poesia che spesso mi occorre di fare, la partecipazione degli ascoltatori, attenti e spesso commossi, mi fa capire che, al di là della forma (per me assai importante anche se innovativa e personale), i contenuti devono poter essere compresi e parzialmente condivisi: Esiste un unico poeta, sempre! dichiarava Marina Cvetaeva. Ed è suddiviso in minutissimi frammenti nell’animo di ogni uomo, anche se a qualcuno, per un particolare talento, è dato di poterlo con maggior forza manifestare e rivelare.
Cosa suggerisce il titolo del suo ultimo libro: “Il teatro dell’assenza”, pubblicato da Moretti&Vitali?
Il mio ultimo lavoro Il teatro dell’assenza, è una raccolta di saggi, alcuni dei quali già pubblicati su quotidiani e riviste (“La Gazzetta di Parma”, “Paragone” e altri), taluni inediti. Sono ritratti “dall’interno” di figure che hanno operato soprattutto nel mondo della poesia, ma anche in altre discipline, e che hanno costituito negli anni dei validi punti di riferimento per il mio modo di essere. Benché all’inizio non me ne fossi resa conto, più tardi compresi che ad affascinarmi era stato, in questi autori, il particolare modo di porsi nell’esistenza. Lontani da ciò che chiamiamo mondo letterario, soprattutto lontani dalle mode del momento, da condizionamenti di ogni sorta, essi poterono vivere ed esprimersi con un’intensità superiore; poterono, in alternativa al mondo materiale, costruire il loro mondo più alto e più vero: quello dell’arte e dello spirito.
La sua prima raccolta di versi, “Stanza Occidentale”, fu presentata da Attilio Bertolucci… Ne approfitto per chiederle un giudizio sull’opera del poeta parmense.
Attilio Bertolucci è stato per me un indiscusso maestro durante tutto il mio percorso poetico. Ho avuto la fortuna di frequentarlo per molti anni nella sua casa di vacanze di Tellaro, presso Lerici, dove ebbi peraltro anche modo di conoscere Vittorio Sereni. Mi sono formata accanto a lui, senza che egli mai tentasse di forzare in alcun senso la mia vena più genuina. Provo nei suoi confronti un’immensa gratitudine e la sua morte ha segnato per me un lutto che si perpetua negli anni. Del suo lavoro poetico apprezzo la sincerità dei temi trattati, e la libertà della scrittura, che può sembrare troppo legata alla tradizione soltanto a chi ne fa una lettura superficiale, in effetti il suo stile del tutto particolare è assolutamente inconfondibile. Uomo di grande cultura, legatissimo agli affetti familiari, stretto da un profondo e invidiabile legame alla moglie, capace di grande fedeltà anche nell’amicizia, nella poesia non si è allontanato da se stesso e dal proprio mondo; non ha mai finto. Ha voluto nelle liriche, ma soprattutto nel poema, far continuare a vivere quello che riteneva fosse per lui il solo mondo possibile. Legato alla sua terra d’origine, ne condivideva la visione orizzontale, quella che passa attraverso il cuore degli uomini.
Quali verità le hanno rivelato Emily Dickinson, Sylvia Plath, che sono tra le sue predilezioni poetiche?
Ho amato , fra tutte le poetesse, soprattutto la Dickinson della quale ho anche tradotto una scelta di cento poesie dal titolo: Il tramonto in una tazza, (Milano 2005), e la cui poesia così inconsueta, avevo scoperto fin dalle prime edizioni italiane. Di lei ho apprezzato la grande libertà interiore e la convinzione di essere nel giusto insieme con lo scontroso distacco che la protesse dal giudizio altrui.
“Noi costruiamo templi!” rispose ad Higginson che le suggeriva di adeguarsi all’uso corrente che, per esempio, sopprimeva le rime, alle quali lei invece era rimasta fedele. Perseguì così il proprio scopo con un’invidiabile fede in se stessa.
All’estremo opposto colloco Sylvia Plath, per la quale provo un senso di dolorosa comprensione. Suggestionata dal sogno tutto americano - ed ora anche nostro – del successo ad ogni costo; innamorata dell’amore, come ogni ragazza degli anni Cinquanta e non solo; mal disposta ad accettare il lato più faticoso della femminilità; perfezionista anche nel suo ruolo di donna di casa; portata al suicidio (che tentò, come sappiamo, in varie riprese) per una forma di costante depressione, tipica di chi non vuole o non sa accettare di sentirsi sconfitto, non poté che soccombere nel triste modo in cui concluse la propria esistenza. La sua poesia, non sempre amabile anche se di grande livello, trasse spunto proprio dalla nera musa che l’accompagnò per tutta la vita.
Doriano Fasoli
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