Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
La musica in cento parole
Conversazione con Arrigo Quattrocchi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
luglio 2005
"È uno spazio affascinante" - mi disse Arrigo Quattrocchi, a proposito dell'allora nuovo Auditorium romano - "che, quando sarà pronto, potrà essere una straordinaria opportunità di sviluppo per la vita musicale della città. Moltissimi artisti saranno lieti di lavorare spesso a Roma. C'è, tuttavia, l'incognita dei costi di gestione, che per essere coperti richiedono di far lavorare a pieno regime le tre sale. Il pericolo è di accettare qualsiasi manifestazione, pur di avere la sala piena. Per cogliere le opportunità dell'Auditorium, invece, ci vorrebbe un vero progetto di direzione artistica, una funzione questa che sembra sempre più sbiadita nelle istituzioni di oggi".
Nato a Roma, dove vive e lavora, Quattrocchi scrive come critico musicale sul quotidiano "Il manifesto" e collabora con Rai-Radiotre, prevalentemente per trasmissioni sui materiali d'archivio. Come musicologo ha pubblicato un volume sulla storia dell'Accademia Filarmonica Romana (di cui è membro), un altro intitolato La musica in cento parole. Un piccolo lessico (Carocci, 2003), saggi e articoli su Beethoven, Rossini, Verdi, Dallapiccola, ed ha inoltre curato la revisione sull'autografo della "Jérusalem" di Verdi. È impegnato nel campo della vita indipendente delle persone con disabilità. Ha per hobby la comunicazione elettronica interattiva.
Quattrocchi, qual è stata la sua formazione?
Ho studiato pianoforte al conservatorio di Roma, con Maria Elisa Tozzi, composizione privatamente, con Alfredo De Ninno, e storia della musica all'università, con Pierluigi Petrobelli, personalità verso le quali ho grandi debiti. Ma credo di avere imparato molto anche dai pochi contatti con Fedele d'Amico, figura a mio avviso insuperata di critico-musicologo.
Quando ha cominciato l'attività di critico musicale?
A sedici anni mi capitò di recensire alcuni concerti per una rivista, in effetti già allora l'attività di critica mi affascinava. Poi ho iniziato a scrivere professionalmente verso i 24 anni, sia testi di divulgazione che articoli di carattere critico, sulla rivista Musica e Dossier. A ventotto anni iniziai la collaborazione con "il Manifesto", che tuttora prosegue.
Come interpreta il ruolo di critico musicale?
Come quello di un mediatore, fra artista e pubblico, che non deve essere invadente. La recensione di un concerto, uno spettacolo, e anche un disco, deve innanzitutto spiegare al lettore in cosa consistevano i fatti musicali e spettacolari di cui si parla; in secondo luogo arriva il giudizio, che è comunque irrinunciabile, ma deve chiarire quali sono i presupposti su cui si fonda. Per la musica colta, uno dei parametri è il rapporto dell'esecuzione con il testo scritto, che il critico dovrebbe conoscere dalla partitura, e con le sue problematiche; un altro il rapporto con la tradizione interpretativa. Le emozioni dell'ascolto, che pure ci sono, appartengono a tutti, non hanno bisogno del critico per essere descritte.
Che difficoltà incontra nel giudicare una esecuzione?
La difficoltà è riuscire ad essere insieme rispettosi verso gli artisti e sinceri verso i lettori. Ad ogni modo credo sia importante anche spiegare la realtà produttiva in cui si inserisce il fatto artistico. Una delle funzioni della critica dovrebbe essere infatti quella di valutare che tipo di politica culturale fanno istituzioni che spesso, nel caso della musica classica, sono lautamente finanziate da denaro pubblico.
E lo stato di salute della critica musicale qual è?
Direi molto cattivo, in generale. Sempre più la critica, che presuppone il giudizio, si trasforma in cronaca, da cui il giudizio è assente. E lo spazio dedicato alla recensione si assottiglia, o scompare. Dunque si parla diffusamente solo di pochi eventi, e lo si fa celebrandoli, prescindendo dalla loro analisi. Questa degenerazione della funzione della critica avviene per un gravissimo errore delle strategie editoriali, che puntano a creare consenso su iniziative eclatanti, piuttosto che a offrire un servizio al lettore. Una parte di colpa la hanno però gli stessi ambienti della critica musicale, a cui manca spesso preparazione, e talvolta una qualità irrinunciabile per l'esercizio della professione, l'etica.
Parlava del rispetto verso l'artista. Ha conosciuto personalmente alcuni artisti?
In linea di massima cerco di evitare stretti rapporti personali con gli artisti, perché questo può compromettere la serenità del giudizio. Le eccezioni, a partire dai compagni di studi, sono inevitabili, e in qualche caso molto proficue. Sono molto felice, ad esempio, di avere avuto un rapporto personale di stima credo reciproca con Giuseppe Sinopoli, il cui radicalismo oggi mi manca moltissimo.
Com'è lo stato di salute della musica contemporanea?
Sofferente. Non manca certo la creatività, ma spesso fatica a farsi strada attraverso dei meccanismi produttivi asfissianti, o legati a circoli chiusi, o alle regole del consumo. Questo è il riflesso della difficoltà di trovare una mediazione fra due necessità che oggi sembrano molto distanti: da una parte accettare una funzione sociale della musica, per cui il creatore non scrive solo per sé ma per il pubblico; dall'altra concepire la musica come veicolo di idee e non solo come intrattenimento.
A proposito del rapporto con il pubblico, oggi molti spettatori che frequentano le sale della musica colta sembrano poco interessati alle novità. Il compositore deve andare incontro al pubblico o perseguire una sua strada di ricerca?
Dipende cosa vuol dire andare incontro al pubblico. Se l'obiettivo è quello di non risultare sgraditi alla fascia di pubblico più conservatrice, quella che vorrebbe sentire solo Beethoven e Brahms, direi che è un obiettivo sbagliato; e spesso i risultati sono di una povertà concettuale desolante. Ma non credo che ci sia necessariamente un conflitto fra la ricerca e la comunicazione; quando la musica possiede una forza di pensiero, al pubblico arriva sempre.
Spesso la musica colta contemporanea è incentivata da apposite leggi, e le istituzioni che la ospitano ricevono appositi finanziamenti. È giusto questo mecenatismo di stato o rischia di favorire una produzione sterile?
Il mecenatismo di stato è giusto, nonostante i pericoli che implica. D'altronde tutta la musica colta oggi vive grazie a finanziamenti pubblici; anche nei paesi in cui i finanziamenti sono privati, vige la regola della detassazione, per cui lo stato non finanzia direttamente le istituzioni, ma crea le condizioni per le quali siano i privati a finanziare; i casi di mecenatismo privato del tutto disinteressati sono assai rari.
Il teatro del passato esprimeva la propria comunicatività col raccontare storie. Oggi invece spesso la narrazione aristotelica manca dal teatro moderno, sostituita da piani di narrazione complessi, da impostazioni metateatrali, senza storie vere e proprie. È possibile parlare ancora di opera lirica?
La morte dell'opera è stata cantata da molti decenni, eppure i palcoscenici dei teatri lirici continuano ad ospitare novità. In Italia, in particolare, è la stessa situazione produttiva, con dodici grandi teatri, che spinge gli autori a scrivere opere. Forse per alcune produzioni sarebbe più giusto parlare di teatro musicale in generale, ma è il contenitore che definisce il genere.
Si è mai avvicinato al jazz?
Come ascoltatore sì, come critico no, perché rispetto le competenze specifiche e non credo si debba scrivere di tutto. Sono felice comunque che certe barriere culturali, che un tempo facevano guardare al jazz come un genere minore, oggi non esistano più.
Ha qualche bestia nera in musica?
Fra gli interpreti, uno stimato direttore di routine. Fra i compositori, mi risulta difficile rimanere interessato dalla musica di Bruckner, pur amando molto, ad esempio, Brahms e Mahler. Ma questo dipende da una mia incapacità a sintonizzarmi sul mondo emotivo di Bruckner. È un mio limite, e non il più grave.
Doriano Fasoli
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