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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

L'utopia di André Gorz

Per una rilettura complessiva del suo pensiero
di Graziella Rizzi - Aprile 2015

e Postilla a Lettera a. D. -  L'ultimo atto di André Gorz

di Roberto Taioli

 

 

L'utopia di André Gorz

Per una rilettura complessiva del suo pensiero
di Graziella Rizzi

 

In un’intervista a cura di Marc Robert del 2005 dal titolo  L’ecologie politique, une étique de la liberation(1), Gorz sintetizza il suo itinerario di uomo, di pensatore, di studioso dei cambiamenti delle società postindustriali, dalla pubblicazione del romanzo autobiografico Il Traditore (1958) all’ecologia politica, fino alla riflessione sulla “società dell’intelligenza” e sul lavoro immateriale nel suo ultimo saggio L’immateriale (2003).

Si è trattato di un itinerario in cui ci sono stati grandi incontri e influenze importanti, senza dubbio quella di Sartre per vent’anni a partire dal 1943.

Nell’intervista Gorz riconosce che senza Sartre non avrebbe trovato gli strumenti per superare il suo complesso di disadattamento dal mondo, giacché, avendo fatto esperienza fin dall’infanzia degli “esistenziali”, l’angoscia,  la noia, soprattutto la certezza di non corrispondere a quello che gli altri si aspettavano da lui, la lettura  dell’opera di Sartre L’essere e il nulla  gli aveva fatto percepire che la condizione ontologica dell’uomo corrispondeva alla sua esperienza personale di solitudine soggettiva.

E’ inevitabile pertanto il rimando al tormentato travaglio individuale per il ritrovamento della propria identità emerso dalle pagine del romanzo Il Traditore .

Nel romanzo autobiografico Gorz doveva fare il punto sulla propria vita, rimettere in questione tutto ciò che aveva fatto ed era stato fatto di lui, per ritrovarsi come soggetto autentico, come Io non più estraneo a se stesso, riconquistando il diritto a parlare in prima persona.

L’analisi regressiva e psicoanalitica lo aiuterà ad individuare la causa del suo complesso di “nullità”  e di “tradimento” nell’ambiente familiare che aveva deciso per lui , ancora prima della sua nascita, quel personaggio che egli subirà come un imperativo troppo arduo e che lo farà sentire nullo e colpevole. Emergerà in primo piano la figura della madre che aveva sposato un commerciante ebreo, al quale doveva una certa  agiatezza, ma al quale non perdonava di essere ebreo e che, di conseguenza, aveva stabilito per il figlio un avvenire di ariano virile e aristocratico, tale da consentirle quel riscatto e quell’autoaffermazione che ardentemente desiderava.

“La coercizione smisurata” cui è sottoposto, diventa la chiave per comprendere il suo complesso di tradimento, ossia “il desiderio di sfuggire tutte le collettività, di cui subiva la coercizione, a cominciare dal genere umano”.(2) Inizierà così la serie delle sue fughe dalla realtà, coniandosi una regola, un universale astratto che gli permetterà di essere superiore al mondo che lo negava e che, oltretutto, lo esilierà realmente  per motivi storico-oggettivi.(3)

Sarà questo il senso delle sue conversioni al misticismo, al rigore scientifico, al gusto dello scrivere. Gorz scriverà per diventare Altro, per sbarazzarsi della sua esistenza e recuperarla trasformata in materia letteraria. Come scrittore e filosofo negherà il mondo, opponendogli dei valori suoi, a causa della sua impossibilità di recitare tutti i giorni una parte inautentica, vivendo la sua esperienza di  nullità come un ribelle della società, perlomeno sul piano del tradimento individuale.

In questa operazione di negazione del mondo, per dimostrare l’assurdità di tutto, dovrà interessarsi di tutto e riallacciarsi inconsapevolmente al reale, alle cose, agli altri, riconoscendo di aver tramutato la sua esistenza in speculazioni intellettuali. A indirizzarlo sulla via che conduce verso gli altri sarà l’incontro con Sartre che nel romanzo figura con il nome di Morel, in Svizzera nel 1946 .

Sartre metterà in crisi la sua filosofia della nullità, facendo un’analisi immediata del suo male di realtà: “ho l’impressione che lei disprezzi un poco il concreto…. E lei è anche un po’ essenzialista”(4)
Quest’analisi senza mezzi termini  riuscirà a strapparlo dalla sua solitudine, dal suo esistere come se non esistesse, senza un impegno, una posizione precisa nel mondo.

Sarà poi il legame amoroso con Kay(5) a dissolvere definitivamente l’alone di incomunicabilità che lo staccava dalla realtà: diventerà un uomo come tutti che deve lavorare per rendere accettabile la vita a un’altra persona e a se stesso.
Tramite l’ingresso  nel giornalismo e l’esperienza del lavoro scoprirà la società come veramente è, con tutte le sue contraddizioni e si avvierà verso il momento della identificazione e verso il passaggio dall’universale astratto all’universale concreto.
Pensando all’evoluzione del suo pensiero e alla sua vasta produzione saggistica segnata da fasi diverse corrispondenti ai diversi e rapidi cambiamenti avvenuti nelle società attraverso gli sviluppi della tecnologia e dell’informatica, si potrebbe affermare che in contesti diversi Gorz, continuando ad essere “uno che non sta al gioco”, anche se in una dimensione non più solamente individualistica, non abbia mai smesso da questo momento di cercare alternative, sistemi e modelli di vita che permettessero di ricostruire totalmente l’uomo. Il romanzo autobiografico termina con queste parole: “ciò che conta per me, è la mia realtà, agli occhi di coloro che sono dalla mia stessa parte”(6).
Dal finale del romanzo  si evince che lo sviluppo del pensiero dell’autore doveva tradursi in un preciso impegno politico e conseguentemente nell’elaborazione di strumenti e metodi di lotta per il rinnovamento radicale della società. In questa prospettiva c’è da chiedersi quale sia stata la funzione di un’opera come  La Morale della Storia (1959), dove i problemi della società contemporanea e della possibilità di mutamento di essa, sono posti in termini ancora filosofici, soprattutto per quanto riguarda la trattazione della teoria dell’alienazione. Anzi si potrebbe affermare che sarà l’analisi delle modalità tramite le quali viene affrontato il problema dell’alienazione e della possibilità di disalienazione a stabilire il significato dell’opera del 1959.
Gorz, definendo l’alienazione come “oggettivazione oggettivata in modo tale che essa si trova negata nella sua finalità, a profitto di una finalità estranea”(7), rifiuta la coincidenza hegeliana di alienazione ed oggettivazione e aderisce al concetto di alienazione-estraneazione di Marx, sostenendo che se giudichiamo l’attività umana tanto dai fini  che persegue, quanto dai risultati che essa produce, è facile accorgersi che può venire sviata verso risultati che non sono quelli da noi prefigurati, ma che hanno realizzato il piano di un altro.
Vengono pertanto riprese le considerazioni dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 sulle quattro forme di estraneazione, ma Gorz arriva alla conclusione che lo scacco cui l’uomo è soggetto in particolari situazioni storiche e che si manifesta nell’estraneazione dall’attività lavorativa, dal prodotto del lavoro, dall’altro uomo, non è comprensibile che a partire dalla perdita del proprio essere autentico, generico.
Se in Marx l’estraneazione dall’essenza generica è una delle forme un cui si realizza l’alienazione tipica della società capitalistica, in Gorz essa ne diviene la condizione preliminare, tanto da affermare :”l’idea di alienazione implica dunque necessariamente una comprensione dell’essere generico dell’uomo, oppure, come diremmo oggi, di ciò che l’uomo può e non può essere autenticamente”(8). L’insistere sul rischio in cui viene a trovarsi la vita generica dell’uomo, qualora gli sia sottratto l’oggetto della sua produzione, dimostra come la presa di contatto con il testo marxiano, sia avvenuta  sotto l’influenza della problematica sartriana.
Sicuramente quando Gorz scrive La morale della Storia ha ben presente Questioni di metodo (1957) in cui Sartre ha già rivisto la sua posizione esistenzialista in un’ottica marxista e ha affrontato il problema del condizionamento storico-materiale, tanto da proseguire  le sue analisi su una linea parallela a Sartre.
L’alienazione prospettata da Gorz come malefizio della materia contro di noi, con effetti controfinalizzanti, come la nostra stessa attività che diviene il suo inverso e smarrisce lo scopo originario, una volta che cade e si sedimenta nell’inerzia delle cose, richiama infatti, nella sostanza, l’alienazione come “furto dello scopo”, problema che era già presente nel saggio del 1957 e che Sartre approfondirà nella prima parte della Critica della ragione dialettica (1960)(9), opera in cui voleva contestare un marxismo che si era dogmatizzato e aveva perso di vista l’uomo, fondando il materialismo dialettico e fornendo gli strumenti per l’interpretazione dialettica della storia
Gorz, riferendosi a Marx stesso ( Ideologia tedesca) vede la  causa dell’alienazione sociale nella separazione e molecolarizzazione degli individui divenuti estranei a un mondo che essi stessi producono, auspica una società  che sorga da una vera “collaborazione volontaria”, in cui gli individui prendano coscienza del proprio essere autentico, della propria libera prassi creatrice, riproducendo la propria vita secondo scopi e bisogni stabiliti in comune.
Nella convinzione che la società è alienata, perché è una potenza autonoma che funziona secondo proprie rigorose leggi, affiora la nozione sartriana di “pratico-inerte” come materia che ha assorbito lavoro e che può esercitare su di noi  un’azione di risucchio con i suoi meccanismi di fissità.
Gorz si pone nel concreto della Storia ed esemplifica le contraddizioni, gli effetti controfinalizzanti e serializzanti della società,(10) con lo scopo morale di trovare delle reali soluzioni per ricreare un mondo in cui poter vivere umanamente.
Solo, del resto, considerando l’opera del 1959 entro quest’ottica è possibile trovare una linea di continuità con gli scritti successivi di Gorz, in quanto è evidente che lo scopo morale, per concretizzarsi, doveva diventare politico.
Nella seconda parte di La Morale della Storia emergono indicazioni sulle condizioni alle quali è possibile che gli uomini “si uniscano” per sollevarsi contro la società che li aliena.
Il fatto che l’autore abbia tanto insistito sulla descrizione di un mondo che non parla che dell’impossibilità dell’uomo e traduce la prassi umana in inerzia ed imperativi inumani assume significato per l’indicazione che ne emerge sul processo di disalienazione che doveva incarnare le esigenze del proletariato, cioè del soggetto storico che rappresentava “l’uomo nella sua interezza, perché essendone la “perdita totale”, lo doveva totalmente recuperare.
La nozione di “proletariato” subirà modifiche, fino a scomparire completamente, ma ciò che conta sottolineare è che Gorz individua in una rifondazione umana imprescindibile la direttiva che non perderà mai di vista, anche quando la sua riflessione si evolverà con il mutamento delle condizioni storico-sociali o sotto l’influenza di grandi incontri.
In La Morale della Storia la necessità del socialismo diventava per il proletariato necessità della libertà”, in quanto poteva essere attuata soltanto da una libera presa di coscienza della sua azione.
La possibilità di disalienazione voleva allora dire per il proletariato farsi necessariamente “prassi attiva e sovrana”.(11) Questo determinante rilievo dato alla prassi-soggetto è stato interpretato  come un unilaterale insistere sul fattore coscienziale soggettivo nel processo rivoluzionario disalienante.(12)
Per Gorz il tema della prassi sovrana implicava invece, insieme alla presa di coscienza dell’alienazione, la messa in discussione di un modello di civiltà, di un modo di vivere che reprimeva i bisogni autentici degli individui, negando l’esigenza di un libero sviluppo creatore che avrebbe determinato anche un rivoluzionamento dei rapporti di lavoro e di produzione.
Gli scritti successivi degli anni sessanta,  Stratégie ouvrière et néocapitalisme (1964),  Il socialismo difficile (1967) e gli articoli sulla rivista Les Temps modernes, terranno conto del mutamento avvenuto all’interno del proletariato, in conseguenza dello sviluppo della società consumistica.
La miseria non poteva più servire come fondamento della lotta per il socialismo, in quanto il capitalismo, avendo bisogno di consumatori per i suoi prodotti, metteva tutti nella condizione di consumare(13). Per Gorz solo la rivendicazione di qualità umane e bisogni nuovi poteva portare ad una critica radicale del capitalismo e della società capitalistico-industriale caratterizzata dal prevalere del superfluo sul necessario. Il progresso tecnico si concentra essenzialmente sulla produttività ed è per questo che “in tutte le società capitalistiche sviluppate, degli sperperi giganteschi coesistono con dei bisogni fondamentali largamente insoddisfatti, bisogni di alloggi, di ospedali, di scuole, di igiene”(14), quei servizi collettivi, insomma, che il capitalismo monopolistico aveva tutto l’interesse a trascurare.
In Stratègie ouvriére et néocapitalisme Gorz sostiene che, nonostante la meccanizzazione e l’automazione del lavoro facciano perdere senso alla nozione di rendimento individuale e di tempo di lavoro, alla divisione tra lavoro manuale e intellettuale, il sistema continui ad affermare i valori supremi della civilizzazione capitalista, efficienza, produzione, rendimento, rivelandosi come “una religione dello  sperpero e dell’opulenza fittizia”(15).
Sulle tematiche della produzione del superfluo e del consumismo, nel primo saggio de Il socialismo difficile, Gorz rimanda ad un confronto con le analisi di Herbert Marcuse in  L’uomo a una dimensione (1964) e “al celebre ragionamento con cui Marx prevede l’automazione e dimostra che il capitalismo è incapace di trarne vantaggio”(16)
Si tratta di un passo tratto dal Quaderno VII dei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica) dove Marx analizza i cambiamenti determinati dalla scienza e dal progresso della tecnologia applicata alla produzione che dovrebbero portare ad una diminuzione del tempo di lavoro e ad una riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo per far subentrare il libero sviluppo delle individualità, la formazione e lo sviluppo scientifico degli individui.
Ma c’è una contraddizione interna al capitalismo che porta Marx ad affermare: “Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro ad un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma  del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo, facendo quindi del tempo di lavoro superfluo, la condizione di quello necessario”.(17)

Il riferimento ai Grundrisse  che sono citati anche in Stratègie ouvrière et néocapitalisme, viene ad esser una conferma di quanto Gorz ha detto nell’intervista del 2005, dove ha sentito la necessità di riconoscere come fondamentale l’incontro con Jean-Marie Vincent, ricercatore universitario e direttore della Rivista Futur antérieur, che lo ha iniziato fin dal 1959 alla lettura di questa opera di Marx.

Le analisi di Marcuse sembrano invece discutibili a Gorz, laddove il filosofo americano asserisce  che un capitalismo sviluppato, riesce a reprimere, a mistificare l’esigenza di liberazione, attraverso il condizionamento sistematico degli individui nel loro animo, nei loro bisogni e nei loro pensieri.

In  Marcuse  la liberazione dell’uomo sembrerebbe quasi impossibile per la sua incapacità di divenire cosciente delle contraddizioni tra l’apparente benessere da una parte e la reale povertà nel senso dei valori umani, dall’altra.

Gorz supera il pessimismo di Marcuse, ponendo in posizione privilegiata il soggetto umano, tanto da sostenere : “quando l’individuo si scopre come prassi-soggetto nel suo lavoro, non è più possibile fargli consumare e distruggere del superfluo al prezzo dell’essenziale: il godimento di se stesso”(18).

Questa impostazione soggettivistica gli è sempre costata la critica di “sconfinamento nell’utopia”(19).

La dimensione utopica sarà presente fino alla fine nelle opere di Gorz e, se vogliamo, nella sua stessa vita, ma, nonostante ciò, non può non essere considerato positivamente il suo progetto di alternativa globale che negli anni sessanta si veniva configurando come riformismo rivoluzionario, tramite l’elaborazione della teoria delle “riforme di struttura”.
Il progetto di alternativa globale verrà riformulato, più avanti negli anni, in una personale interpretazione dell’ecologia politica. Gorz ha spiegato la differenza tra una riforma riformista e una riforma di struttura “rivendicata non in funzione di ciò che è possibile nel quadro di un sistema e di una gestione dati, ma di ciò che deve esser reso possibile in funzione di bisogni ed esigenze umane”(20).

Le riforme di struttura, tendendo alla creazione di centri di potere autonomi, erano da intendersi non come fini, ma come mezzi per determinate conquiste economiche e sociali. Il problema dell’alternativa globale positiva impostato in questi termini, apriva la discussione sul ruolo del sindacato e del partito di massa come autodeterminazioni dal basso, ma anche sul socialismo come nuovo modello di vita e di cultura, vale a dire sulla prefigurazione di una società diversa.

Occorre anche considerare che l’elaborazione di un programma di trasformazione radicale della società e delle istituzioni è del resto una conseguenza della interpretazione data da Gorz al marxismo e ben presente già in La Morale della Storia.

Secondo Gorz, la filosofia marxista “si dà un doppio fondamento. Rifiuta di criticare sterilmente lo stato reale in nome di uno stato ideale; intende solo formulare una critica già contenuta nella realtà costituita, sotto forma di prassi negativa, di rifiuto agente di tale realtà”.(21) Per “rifiuto agente di tale realtà”, intendeva la rivendicazione di quelle qualità e bisogni umani che il capitalismo, con i suoi interessi materiali, negava. E’ in questo senso che Gorz prospettava il marxismo come un umanesimo, avente le sue basi su “un’esigenza umana irriducibile”.

Nell’intervista del 2005, a proposito degli incontri e delle influenze importanti, Gorz cita Ivan Illich che  a partire dal 1971, lo ha fatto riflettere per cinque anni .

Nel suo ultimo scritto Lettera a D, è lui stesso a ricordare che Jean Daniel, direttore della rivista settimanale Le Nouvel Observateur  a cui collaborava, gli aveva chiesto di riassumere per il giornale il testo preparatorio per un seminario a Cuernavaca in Messico.

Il testo era di Ivan  Illich e aveva il titolo provvisorio di  Retooling Society: Illich aveva redatto nel 1971 per la prima volta un’analisi del sovrasviluppo industriale come documento di lavoro per un convegno latino-americano che sarebbe stato tenuto al Centro Intercultural de Documentation (cidoc) nel gennaio 1972.(22)

In questo testo dove si affermava che l’inseguimento della crescita economica avrebbe provocato catastrofi, Gorz ritrovava le idee di  Gunther Anders sulla società trasformata in una gigantesca macchina, la megamacchina, che restringe  lo spazio di autonomia degli uomini, mettendoli al servizio della produzione.(23)

Illich metteva in primo piano l’urgenza della “tecnocritica” e della ricerca di uno stile di vita che permettesse di autodeterminare i propri bisogni, rompendo la dipendenza dalla professionalizzazione dei servizi di ogni genere.(24)

E’ l’inizio per Gorz di un passaggio importante che lo condurrà “nell’era di quella che sarebbe diventata l’ecologia politica”.(25)

Il breve testo del 1977  Ecologie et liberté affronta queste tematiche e, per la sua essenzialità, può essere considerato un manifesto dell’ecologia politica, nel senso di una critica  al capitalismo della crescita .

Con realismo ecologico, Gorz prende atto dello sperpero delle risorse che ha determinato gravi danni alle nostre vite e alla terra, riconoscendo che il capitalismo è in crisi non solamente perché è capitalista, ma perché è della crescita. Egli afferma che l’economia politica non ha una morale e non può occuparsi di ciò che gli individui desiderano per vivere meglio, in quanto non può applicarsi a piccole comunità basate su  comuni accordi, essendo fondata  su una divisione sociale del lavoro regolata da meccanismi di Mercato o da piani di Stato e quindi dal criterio del massimo profitto.

D’altra parte l’ecologia si determina come disciplina  autonoma, quando l’attività economica distrugge durevolmente l’ambiente, compromettendo il proseguimento della sua stessa attività, ma non ha una razionalità superiore a quella economica. Detiene una  razionalità differente e nonostante denunci i danni insormontabili della produzione economica, non ferma la risposta del sistema economico che contrappone sforzi supplementari di produzione, causando delle contro- produttività, sotto forma di aggravamento dell’inquinamento, della salute, del traffico.

E’ necessario rompere la razionalità economica, ma, secondo Gorz ,è anche vero che, se l’ecologia ha rivelato che non si possa più fare a meno di una limitazione della produzione materiale, non è però anche essa in grado di far nascere da se stessa una morale.

L’alternativa è quella prospettata da Ivan Illich, nel saggio La Convivialità: o l’opzione conviviale(26) ci permette di unirci e di imporre dei limiti alla produzione e alle tecnologie, salvaguardando la sovranità degli individui, oppure “ i limiti necessari alla preservazione della vita saranno calcolati e pianificati da ingegneri ecologisti e la produzione programmata di un modo di vita ottimale sarà affidata a istituzioni centralizzate e a tecnologie pesanti. E’ l’opzione tecno- fascista, sulla via della quale noi siamo già più che  impegnati”(27)

Gorz si rifà all’idea di Illich che sosteneva la necessità di un’inversione politica per fermare l’apocalissi predetta da molti ecologi: la gestione burocratica della sopravvivenza umana, fissando dei limiti allo sviluppo, al di qua della soglia dell’autodistruzione, non servirebbe a nulla, anzi farebbe vivere l’uomo in una specie di bolla protettiva ma sull’orlo di un precipizio.

Al fascismo tecno-burocratico Illich aveva opposto la possibilità di avviare un processo politico che permettesse agli individui di stabilire il massimo che ciascuno può esigere in un mondo dalle risorse limitate, per poter fare sempre di più con meno.

Negli anni successivi le analisi di Gorz diventeranno politiche, sociologiche e filosofiche insieme. Passeranno attraverso confronti con altri pensatori e movimenti di idee, in una attività incessante di giornalista e scrittore.

Anche quando nel 1983 si trasferirà a vivere nella campagna vicino a Parigi, insieme alla moglie, continuerà a scrivere saggi sulle società postindustriali e a cercarne alternative.

Per seguire lo svolgimento del suo pensiero, una tappa da tenere in considerazione è il testo del 1988  Metamorfosi del lavoro. Molto interessanti sono i capitoli in cui viene presa in considerazione l’integrazione funzionale dei lavoratori: rimandano ad un  precedente saggio di Gorz del 1982 Addio al proletariato.

Man mano che gli apparati complessi dell’economia, dell’amministrazione, dello Stato si evolvono, il loro sviluppo richiede una suddivisione delle competenze, una organizzazione differenziata di funzioni specializzate.

Gorz definisce funzionale una condotta che si adatta razionalmente ad uno scopo, indipendentemente dall’intenzione a perseguirlo. “La funzionalità è una razionalità che viene dall’esterno a una condotta predeterminata e prescritta all’attore dall’organizzazione che lo ingloba. Questa condotta è la funzione che deve adempiere e di cui non deve mettere in discussione lo scopo. Quanto più essa si sviluppa, tanto più l’organizzazione tende a funzionare come una macchina”(28).

Gli individui funzionano come ingranaggi di una grande macchina, determinando la sfera dell’eteronomia o eteroregolazione che è per Gorz  l’insieme delle attività che devono essere svolte come funzioni coordinate dall’esterno, senza possibilità di accordare la propria attività attraverso procedure di autogestione.(29) Si tratta di un’integrazione funzionale sistemica che rimanda ad Habermas in Teoria dell’agire comunicativo, ma anche a quanto descriveva Sartre come forma di totalizzazione in esteriorità delle azioni di individui serializzati.

All’interno di una razionalità economica che ha creato installazioni tecniche gigantesche e tentacolari, gli uomini funzionano come organi di una macchina in vista di fini che non conoscono e che sono diversi da quelli che vengono proposti loro individualmente, ad esempio il denaro, il prestigio o il potere connessi alle funzioni.

Si crea una società sempre più manipolata e funzionalizzata che porta anche ad una dissociazione  tra la vita professionale degli individui e la vita privata dominata da norme diverse: lo spirito di competizione, l’opportunismo e la compiacenza nei confronti dei superiori viene ricompensato nella vita privata da un sistema di vita confortevole,  ricco ed edonista.

Gorz individua una tendenza del sistema ad attuare una regolazione incentivante attraverso il consumismo. L’integrazione funzionale è però instabile e determina la disintegrazione sociale: il sistema è costretto a offrire compensazioni monetarie crescenti, provocando un mutamento culturale.

Il denaro guadagnato permette una forma di soddisfazione più importante della perdita di libertà insita nel lavoro funzionale, soppiantando gli altri valori e diventando l’unica misura del valore. I consumi compensatori spingono l’individuo a ritirarsi nella sfera privata, disgregando la coesione sociale e familiare alla ricerca unicamente del proprio vantaggio personale.

Ma le azioni di individui che perseguono il proprio vantaggio diretto nell’ambiente della scarsità finiscono per ritorcersi come controfinalità contro gli scopi individuali (le“controfinalità” sartriane).

Ed ecco allora che dietro la regolazione incentivante riemerge la necessità della regolazione prescrittiva, ad esempio la regolamentazione della circolazione, le norme antinquinamento, i piani di utilizzazione dei suoli  che sono  modi in cui lo Stato “si fa carico della dimensione collettiva degli scopi individuali per restringerne le controfinalità, per impedire  che portino alla rovina di tutti”(30). Ciò significa che l’integrazione funzionale può diventate effettiva solo quando lo Stato protettore  è in grado di offrire al lavoratore- consumatore funzionale alcune compensazioni sociali sotto forma di prestazioni e servizi, in cambio della perdita di autonomia . Secondo Gorz si avvera la profezia di Max Weber(31) che paragonava la macchina industriale-burocratica a “una gabbia di acciaio” in grado di assicurarci protezione contro l’insicurezza, a prezzo di una disumanizzante perdita della libertà. Ma i grandi mutamenti tecnologici a partire dalla metà degli anni sessanta hanno provocato crisi economiche con conseguente rapida crescita della disoccupazione, producendo una segmentazione e disintegrazione della classe operaia e dei lavoratori in generale divisi in lavoratori stabili e qualificati, ma disposti alla mobilità e all’ampliamento delle competenze e in lavoratori fissi, ma senza qualifica o assunti a tempo parziale se non provvisorio. Si sono create anche figure di lavoratori esterni, tra cui da una parte professionisti molto qualificati e dall’altra persone prive di particolare qualificazione addette ai servizi di pulizia, trasporto, ristoro, cura alla persona (i cosiddetti “servitori”), insieme ad una manodopera fluttuante di subappaltatori.

In una situazione in cui non ci sono abbastanza posti di lavoro stabili per tutti, emerge una èlite iperattiva  con occupazioni ben remunerate e stabili che in nome delle superiori capacità si allea contro i “fannulloni”.

La scissione o dualizzazione della società determina addirittura lo sviluppo di un sottosistema all’interno del quale l’élite economica fa lavorare altri per il proprio vantaggio personale. In questo modo il lavoro dei “servitori personali” libera tempo  all’èlite, rendendole la vita più piacevole e il tempo libero delle élite crea posti di lavoro precari e malpagati fuori dalla sfera dell’economia.

Gorz accusa una parte della sinistra di aver aderito a questa ideologia che può a lungo andare portare all’ ”africanizzazione” di una buona parte della società e comincia ad abbozzare la sua teoria della riduzione del tempo di lavoro .

I valori di solidarietà ed equità di cui il movimento operaio si faceva portatore, si devono trasformare in una richiesta di equa ripartizione dei posti di lavoro e della ricchezza prodotta, al  superamento della dualizzazione della società, tramite una “politica di riduzione metodica, programmata , massiccia della durata del lavoro”(32).

Si tratta, secondo Gorz, di sostituire all’utopia di un lavoro appassionante e a tempo pieno per tutti, un’utopia che preveda sistemi di redistribuzione del lavoro tali da ridurne la durata per tutti, senza dequalificazione e parcellizzazione.

Gorz analizza anche la figura dell’operaio “di processo” che svolge un’attività robotizzata, non eseguendo una mansione, ma un processo di lavoro completo in cui non si identifica in rapporto al prodotto o al materiale da trasformare che  non manipola più, bensì in rapporto ai sistemi di tecnologia secondaria applicati alla produzione. L’operaio di processo è polivalente, cioè è proprietario di un mestiere che può trasferire altrove (ad esempio, da un’ industria automobilistica ad una alimentare) ,però , a differenza di un maestro artigianale non svolge una mansione poietica ma funzionale e quindi non fonte di realizzazione personale.

Gorz appare critico nei confronti della rivoluzione tecnica che acquista senso solo se , economizzando il tempo di lavoro, allarga il campo delle attività non professionali nelle quali gli uomini possano arricchire la parte di umanità che non trova realizzazione nel lavoro tecnicizzato.

Nella seconda parte di Metamorfosi del lavoro, Gorz torna alle radici della razionalità economica che è iniziata quando le attività umane sono state sottoposte al calcolo nel passaggio da una società tradizionale allo sviluppo del capitalismo mercantile, finanziario e industriale. Con la razionalità economica che non è applicabile quando l’individuo è libero di determinare il livello dei suoi bisogni e quindi di limitarli, si è passati dalla categoria “del sufficiente”(dell’abbastanza) alla categoria “ del di più, vale di più”.

Il capitalismo ha spezzato il rapporto tra lavoro e bisogni e ha trasformato l’efficacia del lavoro da una questione di valutazione personale e di qualità della vita alla misurazione della quantità di denaro guadagnata, facendo diventare misurabile la capacità di un individuo, secondo il criterio del “ chi guadagna di più vale di più di chi guadagna di meno”(33).

Ma la misura quantitativa non ammette nessun principio di autolimitazione, né per quanto riguarda l’aumento della produzione e dei profitti, né per la crescita dei bisogni di consumo.

Gorz fa riferimento al concetto “della modernizzazione della povertà” espresso da Ivan Illich in Convivialità, come tendenza, orchestrata dalla pubblicità commerciale, a creare desideri non  necessari e quindi bisogni superflui attraverso l’innovazione e l’obsolescenza dei prodotti, spingendo ad avere di più e di meglio e anche  a lavorare di più per avere di più, con la complicità persino dei sindacati. L’accrescimento del tempo libero poteva far scoprire  che non necessariamente il di più vale di più, perché c’è una sfera di valori non quantificabili come il tempo della vita  e della sovranità esistenziale.

La misura quantitativa imposta dalla razionalità economica e dalla ragione strumentale funzionale arriva ad offrire certezza morale , facendo diventare il Bene misurabile e calcolabile. E’ virtuoso, ad esempio, chi guadagna di più. I rapporti vissuti con il mondo circostante vengono matematizzati e la tecnicizzazione spinge gli uomini a pensare come le macchine, perdendo l’intenzionalità e la possibilità del soggetto di un ritorno riflessivo su di sé.

La cultura tecnica diventa “incultura del vivere” e impedisce di trovare un senso ai rapporti non strumentali con l’ambiente circostante e con gli altri. E’ così che nasce una civiltà fredda, dominata da rapporti calcolati, formalizzati che rendono gli individui estranei al mondo reificato che ha perso spessore sensibile e che essi stessi hanno prodotto, “una civiltà in cui una formidabile inventiva tecnica va di pari passo con la degradazione dell’arte di vivere, della comunicatività, della spontaneità”(34).

Gorz individua come una tendenza negativa delle società tecnicizzate, la riduzione del “ lavoro per sé”, cioè di quell’ attività non mercificata  che riguarda le mansioni della sfera privata. Ciò avviene quando si crea una ineguaglianza sociale crescente in cui una parte della popolazione si accaparra le attività ben pagate e costringe gli altri al ruolo di” servitori”.

Il “lavoro per sé”, limitato ormai ad alcune poche attività di automanutenzione (lavarsi, vestirsi..) è invece fondamentale, perché riguarda il prendersi cura di noi stessi e della  nostra stessa esistenza corporea, dei nostri oggetti e della loro organizzazione, di tutto ciò che costituisce la nostra sfera privata all’interno del mondo sensibile.

Altrettanto fondamentali quanto il “lavoro per sé ”, sono le attività autonome fini a se stesse che espandono  la sfera dell’autonomia e presuppongono la scelta di far rientrare nella sfera domestica o microsociale attività che per “mancanza di tempo” erano state cedute a servizi esterni ( come  cuocere il pane, lavorare a maglia…  ).

Dunque per Gorz è necessario un passaggio da una società produttivistica ad una società del “tempo liberato” in cui il culturale e il sociale prevalgano sull’economico.

L’orientamento per il futuro che viene prospettato, è una riduzione del tempo di lavoro possibile solo a condizione che tutti lavorino meno per realizzare fuori del lavoro potenzialità personali e che una parte più numerosa della popolazione possa accedere  ad attività di maggiore qualificazione e responsabilità.

Nonostante cominci a delinearsi con chiarezza la teoria “del tempo liberato” che verrà ripresa e sviluppata  anche negli scritti successivi, in Metamorfosi del lavoro, Gorz è ancora convinto che il lavoro, seppure ridotto o intermittente, permetta all’individuo di avere un’identità sociale .

In questa fase  è contrario al “ reddito minimo garantito” e alla  concezione dello Stato provvidenza,  per non rafforzare l’ideologia dello sforzo e del merito individuale che permettono ad alcuni privilegiati di ascendere a ruoli élitari nella società in contrapposizione ad oziosi e incapaci che hanno la pretesa di vivere del lavoro altrui, grazie alle provvidenze sociali.

Il ruolo della sinistra, nel saggio del 1988, doveva essere quello di realizzare un’emancipazione degli individui dai vincoli della razionalità economica, non sopprimendo il capitale e le attività mercantili, ma dando loro una funzione limitata e subalterna nello sviluppo della società, a vantaggio dell’espansione di attività autodeterminate ed autorganizzate.

Le analisi di Gorz  sono sempre state critiche nei confronti dei poteri di apparato tanto degli Stati capitalisti quanto di quelli comunisti e alla fine degli anni ottanta, dopo il crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e in U.R.S.S, la sua teoria “del tempo liberato” che  aveva messo in discussione i principi della razionalità economica. gli consente di proseguire sulla strada dell’ecologia politica   che si delinea come un’alternativa , consapevole di quanto già aveva affermato in Ecologia e libertà  a proposito della perdita del valore profetico da parte del marxismo,   rimasto solamente efficace strumento di analisi.

Nel saggio  Capitalismo Socialismo Ecologia  comprendente testi scritti tra il 1989 e il 1991 e presentati in diverse conferenze, affronta i problemi  dei disorientamenti e orientamenti dopo il crollo dei sistemi del “socialismo reale”.

Gorz contesta l’utopia deindustrialista dei Verdi radicali che in mancanza di altri progetti, ipotizzano un crollo del capitalismo in versione ecologica, senza la necessità di una classe rivoluzionaria e senza prevedere la nascita di una società postindustriale che nasca da uno sviluppo attraverso cui il capitalismo superi se stesso .

Secondo Gorz invece è necessaria una riflessione sulle capacità delle società moderne di superare se stesse verso un altro modo di sviluppo, orientando l’economia, la tecnica e il modello di consumo non nel senso della massimizzazione dei rendimenti, ma di una qualità della vita ottimale.

Egli riprende le idee di Habermas, ma si rifà anche alle tesi di modernizzazione riflessiva dell’economia di Ulrich Beck(35) secondo le quali l’autonomizzazione del capitale rispetto ai bisogni è la condizione principale della dinamica dello sviluppo economico, poiché, senza autonomizzazione, la produzione non avrebbe potuto oltrepassare  ciò che è ritenuto come sufficiente.

Posto in questi termini, il problema di una concezione attualizzata del socialismo si pone come modalità di orientamento sociale ed ecologico dello sviluppo dell’economia.

La macchina sociale autonomizzata deve essere  messa al servizio degli interessi dei cittadini, ponendosi come obiettivi  la razionalità eco-sociale incompatibile con il paradigma capitalista della massimizzazione di rendimento e profitto, la ristrutturazione ecologica da non intendersi come conseguenza di un dirigismo tecnocratico e autoritario,  ma originata dalla autolimitazione dei bisogni, una concezione del tempo di lavoro sempre più ridotto e flessibile.

Gorz, a proposito del tempo liberato, osserva che sulla base di dati statistici nei paesi europei  la produzione della ricchezza richiede una quantità di lavoro molto più esigua .

Sta scomparendo la società di produttori e stiamo uscendo dalla società del lavoro, “ma ne stiamo uscendo a marcia indietro e sempre a marcia indietro entriamo in una civiltà del tempo liberato, incapaci di vederla e di volerla, incapaci quindi di rendere civile il tempo liberato che ci tocca in sorte”.(36)

Questa incapacità di capire un mutamento, impedisce di eliminare la preoccupazione dell’efficienza, del rendimento e della prestazione massimale, anzi contribuisce alla esaltazione del lavoro dei nuovi professionisti dell’industria che devono essere individui competitivi, dotati di capacità di iniziativa, di comunicazione, senza rendere evidente che l’impiego stabile a tempo pieno è il privilegio di una minoranza.

Gorz riprende il discorso della società duale che crea posti di lavoro subalterni da servitori non dalla sfera dell’attività economica , ma da quella dell’antieconomia. I lavoratori privilegiati pagano i servizi e i servitori, ma in questo modo trasformano in impiego monetarizzato le attività di autoproduzione e autoservizio.

Gorz percepisce una pericolosa tendenza a mercificare noi stessi , a monetarizzare cose e servizi che produciamo, a trattare la vita come un mezzo, tanto da arrivare ad affermare: “Quanto tempo potranno resistere i fragilissimi sbarramenti che impediscono ancora la professionalizzazione della maternità e della paternità, la procreazione commerciale, la vendita di bambini, il commercio d’organi?” (37)

Secondo Gorz allora il compito di una nuova sinistra è quello di trasformare la liberazione di tempo in una nuova libertà e in nuovi diritti, permettendo di lavorare in modo discontinuo senza perdere il reddito e aprendo nuovi spazi alle attività senza scopo economico.

Soprattutto il reddito dovrà essere considerato indipendente dal tempo di lavoro per sostenere le esigenze del proletariato postindustriale nei periodi in cui l’economia non ha bisogno di loro.

Ecco che l’imperativo ecologico si viene a legare alla politica del tempo, in quanto solo la riduzione del tempo di lavoro può rendere possibile l’autolimitazione del reddito e del consumo di merci, secondo  i bisogni e i desideri realmente sentiti di ognuno.

Si tratta di realizzare un decremento dell’economia che Gorz sintetizza nello slogan meno, ma meglio e che dovrà caratterizzarsi nel senso di una ristrutturazione economica ecologica in cui i fini della società abbiano la priorità rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale e in cui ci sia una concezione dei prodotti più durevoli e facili da riparare, con qualche rinuncia , ma non necessariamente dei sacrifici.(38)

Gorz chiarisce che l’approccio ecologista è comunque completamente diverso dall’approccio ambientalista che può comportare da parte del capitalismo lo sviluppo di un ecobusiness molto redditizio, perché ubbidisce agli stessi imperativi del massimo rendimento, ad esempio l’adozione di tecnologie diverse con maggiore impiego di capitale in risposta a norme sull’inquinamento.

La presa in conto dei vincoli ecologici da parte degli Stati si può tradurre in divieti, tassazioni, sovvenzioni, rafforzando l’eteroregolazione del funzionamento della società.

Gorz ravvisa addirittura un’ambiguità nell’imperativo ecologico, in quanto ” a partire dal momento in cui è assunto dagli apparati di potere, serve a rafforzare il loro dominio sulla vita quotidiana e l’ambiente sociale ed entra in conflitto con le aspirazioni originarie del movimento ecologista quale movimento politico-culturale”(39).

Quello che importa è intendere la difesa della natura come una più ampia difesa del mondo vissuto, tenendo conto che il movimento ecologista è nato prima che l’inquinamento ambientale minasse la sopravvivenza dell’umanità, da una protesta spontanea contro la distruzione, da parte degli apparati del potere economico e amministrativo, della cultura del quotidiano, cioé delle pratiche vernacolari come le chiama Ivan Illich, intendendo tutte quelle abitudini  e condotte spontanee tramite le quali gli uomini si inseriscono nel mondo che li circonda.

La megamacchina sociale richiede individui funzionalmente specializzati che vengono privati delle risorse culturali per orientarsi nel mondo.

Non a caso le prime manifestazioni ecologiste sono nate nel Nord America e successivamente in Europa, quando l’ambiente ha cominciato ad essere colonizzato, cementificato, sconvolto da apparati tecnici che violavano il diritto degli uomini a decidere come vivere.

Ne è un esempio significativo la costruzione delle centrali elettronucleari che si basava su scelte politico- economiche mascherate da scelte tecnicamente razionali e necessarie.

Del resto il movimento ecologista  ha avuto all’origine componenti specifiche come movimenti in favore di medicine alternative o della morte con dignità, in difesa della lingue e della culture, da intendersi come resistenza alla distruzione della capacità di farsi carico di se stessi, in conseguenza alla creazione delle  professioni mutilanti (o casta di super esperti) tutelate nell’interesse delle industrie a maggiore concentrazione capitalistica, come Ivan Illich ha denunciato nel saggio  del 1976  Nemesi medica.

Se  il movimento ecologista è partito come movimento culturale(40) in difesa del mondo vissuto, a Gorz interessa anche sottolineare che l’ecologia politica  con la critica dei bisogni superflui e la necessità dell’autolimitazione è una dimensione essenziale  di una critica radicale al capitalismo che deve condurre ad una ristrutturazione ecocompatibile della produzione.

Pertanto il senso di una politica eco-sociale deve andare verso la garanzia di un reddito sufficiente indipendentemente  dalla durata del lavoro destinato a diminuire e verso la ridistribuzione del lavoro socialmente necessario per far lavorare tutti meno e meglio.

In Miserie del presente, ricchezza del possibile, saggio del 1997, constata che la diminuzione del lavoro, sta determinando un’uscita dalla società del lavoro, senza la consapevolezza di come sostituirla .Affronta uno dei problemi emblematici della nostra epoca che è quello dei lavoratori precari. Il precario che ora lavora, ora no, non si identifica in nessuna professione, ma è diventato una figura centrale di ciò che è oggi il  mondo del lavoro e proprio per questo, secondo Gorz, andrebbe civilizzata, cioè riconosciuta come condizione non subita che presupponga il diritto per tutti di scegliere la discontinuità del lavoro, senza subire la discontinuità del reddito.

Bisognerebbe arrivare ad una società, ”nella quale ognuno può misurarsi con gli altri, guadagnare la loro stima, dimostrare il suo valore, non più principalmente con il denaro guadagnato, ma con una moltitudine di attività dispiegate nello spazio pubblico”(41).

Ci sarebbe più spazio per attività non strumentali socialmente utili o culturali in cui realizzarsi, rifiutando un’etica del lavoro e del sacrificio che costringa a “rimandare la vita a più tardi”.

Per l’uscita dalla società salariale , Gorz arriva a prospettare politiche specifiche che aprano ad una società della multiattività e della cultura : le paragona alle riforme rivoluzionarie di cui parlava negli anni sessanta e le sintetizza in tre punti,  garantire a tutti un reddito sufficiente, redistribuire il lavoro, privilegiando la sovranità individuale e collettiva del tempo,  favorire nuovi modi di cooperazione e di scambio, per creare legami sociali non legati al salario.

Gorz che era contrario ad un reddito sociale che permettesse di vivere senza lavorare, si mette nell’ottica euristica di cercare una modalità per garantire un assegno universale incondizionato e sufficiente, rivendicazione ovviamente non realizzabile immediatamente.

Analizza infatti esperienze olandesi e danesi di lavoro intermittente e vita multiattiva nella quale lavoro professionale e attività non remunerate si alternino e si completino.

In particolare è interessato ad una legge del 1993 della Danimarca, in base alla quale ogni salariato può prendere un congedo di un anno, frazionandolo a suo modo e dando la possibilità ad un disoccupato di prendere il suo posto. La legge danese stabilisce le percentuali di pagamento e riconosce il diritto di lavorare in modo discontinuo e nello stesso  tempo il diritto ad un reddito continuo. Le diverse formule lavorative sperimentate “ mostrano che la discontinuità del lavoro non implica necessariamente la precarietà dell’impiego. Al contrario, più il lavoro è discontinuo, meglio può essere garantita la sicurezza del posto di lavoro”(42). Un lavoro discontinuo può in ultima analisi permettere la ripartizione dell’impiego tra un numero maggiore di persone.

Per quanto riguarda la cooperazione e lo scambio prospetta la possibilità di utilizzare il tempo liberato dal lavoro per attività scelte dagli individui, compresa l’autoproduzione di beni e di servizi, in modo da ridurre la dipendenza dal mercato o dalle cariche professionali per “ ricostituire un tessuto di solidarietà e di socialità vissute, fatto di reti di mutuo aiuto, di scambio di servizi, di cooperative informali”.(43)

L’orientamento proposto da Gorz assume la connotazione di progetto utopico, ma positivo nel senso di una grande speranza, di un sogno in avanti, come lo intendeva Ernst Bloch, per inseguire quell’esigenza umana irriducibile che si è sempre manifestata come fine ultimo del suo pensiero.

Qualche anno dopo, quando Gorz ha già affrontato una riflessione sulla società della conoscenza o società immateriale, è lui stesso ad  usare il termine utopia in un articolo del 2007 (44) dove, parlando della decrescita e dell’economia della gratuità, cita il filosofo dell’Università del Michigan, Frithiof Bergmann che da diversi anni sostiene la possibilità di poter produrre i prodotti corrispondenti ai bisogni più comuni con strumenti e competenze alla portata di tutti, utilizzando l’artigianato high-tech che nato dal capitalismo , ne determinerebbe invece la sua estinzione. Si tratta dei digital fabricators (rapid prototyping o fabbers) che con un basso consumo di risorse naturali permetterebbero a persone inattive o sottoimpiegate di raggrupparsi per produrre in officine comunitarie tutto ciò di cui hanno bisogno, interconnettendosi con il mondo intero e trattando i software come un bene comune dell’umanità, per realizzare un’economia al di là del lavoro impiego, del denaro, della merce, fondata sulla messa in comune dei risultati di un’attività intesa come comune.

Ciò  non significherebbe la fine del lavoro, ma la fine della tirannide esercitata dai rapporti mercificati sul lavoro, la fine del mito economicistico del più vale di più.

Gorz sa che si tratta di un’utopia, ma concreta : “certo, l’utopia che da lungo tempo condivido con Bergmann, quella dell’autoproduzione comunitaria cooperativa, non è immediatamente realizzabile su larga scala. Ma a essa avrà, dalla sua applicazione in qualche posto del globo, il valore di una sperimentazione esemplare: ci proporrà un fine partendo non da miserabili rattoppi immediatamente realizzabili, ma dalla possibilità di un mondo radicalmente differente che noi possiamo ormai realmente volere”(46).

Il progetto di un modo di vivere alternativo dovrebbe prevedere anche una modifica strutturale  delle città, dell’architettura, delle infrastrutture e dei servizi pubblici in modo da favorire attività e scambi comunitari e autorganizzati. La garanzia del reddito sociale di base e l’estensione del tempo disponibile funzionerebbero non come riduttori, ma come moltiplicatori delle attività, “attività artistiche, politiche, scientifiche, ecosofiche, sportive, artigianali, relazionali; lavori di autoproduzione, di restauro del patrimonio naturale e culturale, di sistemazione del quadro di vita, di economia, di energia; botteghe di bambini, botteghe di salute, reti di scambi di servizi, di aiuto reciproco e di mutua assistenza”(47). In questo modo ogni persona sarebbe inserita per tutta la vita in una rete di scambi sociali, con altre monete  che non il denaro, con “unità contabili più concrete e conviviali”.

L’ambiente della vita vissuta, nell’ottica di una società comunitaria, verrebbe strappato al dominio dell’economia, per sviluppare in contrapposizione quelle attività che non si sottopongono alla razionalità economica, perché valgono per se stesse.

Come lo stesso Gorz afferma nell’intervista del 2005, in Miserie del presente, ricchezza del possibile, la critica del lavoro è ancora centrale, anche se nel saggio ci sono già analisi sulle mutazioni  che determineranno  la smaterializzazione del lavoro.

Viene preso in considerazione l’esodo dei capitali dagli inizi degli anni settanta con lo sviluppo prima delle multinazionali e successivamente delle transnazionali che , seguendo l’imperativo categorico della competitività, ha condotto alla mondializzazione dell’economia  e alla fine del nazionalismo economico. Le transnazionali hanno imposto al mondo la loro dittatura, determinando l’autonomizzazione del potere finanziario (i Mercati) rispetto alle società e all’economia reale .

In questo contesto le imprese dovevano cercare di conquistare fette di mercato supplementari anche nei paesi emergenti, rompendo il modello fordista della produzione in serie che da quantitativa e materiale doveva diventare qualitativa e immateriale.

Il  fenomeno che Gorz interpreta come ultime peripezie del lavoro, ha determinato la nascita di un modello di lavoro produttivo che richiede un livello generale di conoscenze ( knowledge) e viene ad essere la risultante, ovvero l’applicazione materiale di un lavoro immateriale, intellettuale.

Il capitale per sopravvivere subisce una mutazione tecnoscientifica, smaterializza le principali forze produttive, rendendo il sapere immagazzinato, divenuto rapidamente disponibile grazie alle tecnologie informatiche, la forma più importante del capitale fisso e contemporaneamente rendendo l’intelletto umano la forma più importante della forza lavoro.

Nella sua ultima opera  del 2003 L’immateriale, Gorz approfondisce la mutazione che sta portandoci verso una società della conoscenza che preferisce  chiamare   società dell’intelligenza, poiché l’intelligenza, l’immaginazione e il sapere costituiscono il capitale umano.

Il sapere  è fatto di esperienze e pratiche  vissute, diventate evidenze intuitive e in quanto tale è diverso da una conoscenza formale, l’intelligenza copre tutto il ventaglio delle capacità umane.

Non a caso Gorz cita alcuni passi di una comunicazione di Norbert Bensel, direttore delle risorse umane di Daimler Chrysler dove viene sottolineato che ciò che conta nei collaboratori di un’impresa sono gli obiettivi raggiunti tramite qualità espressive, comunicative e immaginative che denotano un coinvolgimento personale nei compiti da svolgere.

Per il raggiungimento degli obiettivi, non più valutabile in base al numero di ore di presenza, i lavoratori postfordisti devono essere in grado di far fronte all’imprevisto, di saper individuare e risolvere problemi, “ devono entrare nel processo di produzione con tutto il bagaglio culturale che hanno acquisito con i giochi, gli sport di squadra, le lotte, le dispute, le attività musicali, teatrali ecc. E’ in queste attività extralavorative che si sono sviluppate la loro vivacità, la capacità d’improvvisazione, di cooperazione.”(48)

Il lavoratore immateriale diventa  imprenditore di se stesso e continuamente riproduce e valorizza il suo personale capitale fisso, tramite una formazione continua  in stage, tanto che la figura del salariato tende ad essere sostituita nelle aziende ad alto livello da quella del collaboratore esterno, nella mansione di professionista di alto livello.

L’imprenditoria di se stessi diventa un business, e il lavoro immateriale può persino essere confuso con un lavoro di produzione di sé ( lavoro per sé), ma il rischio è di far diventare merce misurabile in denaro anche la vendita di sé e di tutti gli aspetti della vita.

Nell’ottica dell’imprenditoria di se stessi, si vuole inoltre ignorare il pericolo della precarietà e della discontinuità che minaccia anche il lavoro indipendente e si vuol far passare l’idea che “ se esistono ancora disoccupati, ciò sarà soltanto il segno che la loro occupabilità è insufficiente. A loro ripristinarla”(49).

L’aspetto più significativo del saggio è aver messo in evidenza la contraddizione tra la novità rivoluzionaria della conoscenza separata dai prodotti materiali in cui sarà inserita, utilizzata sotto forma di software a basso costo per andare verso un’economia della gratuità e della cooperazione  e d’altro canto la trasformazione e valorizzazione della conoscenza in capitale immateriale mediante la costruzione  di posizioni di monopolio.

Gorz considera utile lo studio di Jeremy Rifkin in L’era dell’accesso(50) sulla nuova concezione di ciò che fa acquistare valore ai prodotti, rendendoli vendibili con un massimo di profitto.

Secondo Rifkin la maggior parte degli utili si realizza grazie alla dimensione immateriale delle merci: “ la novità per Rifkin, può riassumersi così: la dimensione immateriale dei prodotti prevale sulla loro realtà materiale; il loro valore simbolico, estetico o sociale sul loro valore d’uso pratico e, beninteso, sul loro valore di scambio che cancella”.(51)

Infatti una percentuale crescente di ditte sceglie di prendere in affitto il capitale fisso materiale, cioè gli edifici, gli impianti, le macchine, piuttosto che esserne proprietaria. Viene fatto l’esempio della Nike che limita  la sua attività alla concezione e al design e affida a subappaltatori la fabbricazione, la distribuzione, il marketing e la pubblicità.

La conseguenza è che le Borse svalutano il lavoro e il capitale fisso materiale e privilegiano gli attivi immateriali, i cosiddetti intangibili, trasformando l’economia reale in un’economia immateriale e fittizia, dominata dal potere finanziario che manipola forme diverse  di denaro con operazioni sempre più azzardate, non controllabili e creazione di pericolose bolle speculative.

L’immaterialità del capitale intellettuale funziona come promessa di mercati futuri illimitati, a condizione che il capitale sia una proprietà protetta, cioè un monopolio.

Rifkin nel suo saggio, secondo Gorz, ha risposto al problema di come sia possibile che l’immateriale funzioni come capitale e diventi la principale fonte di valore, mostrando che i prodotti materiali e una porzione crescente dei servizi sono travestiti in vettori di conoscenze brevettate.

Si tratta della creazione di monopoli simbolici e di rendite di monopolio, create dall’autonomizzazione di una produzione e locazione di saper fare, collegati ad un’immagine di marca specifica. Una di queste rendite di monopolio e il franchising che altro non è se non la privatizzazione di un saper fare brevettato sotto un nome di marca, il cui uso è dato in locazione a imprese che lo mettono in opera, ma sulle quali la ditta madre si riserva dei diritti , cioè delle rendite di monopolio che vanno a costituire e la totalità dei suoi profitti.

Un’altra  tendenza  dell’industria a non vendere più i suoi prodotti, ma a darli in locazione alla clientela è il leasing che trasforma gli acquirenti in utenti e la ditta da fabbricante a fornitrice di servizi , in un rapporto di continuità permanente con i clienti.

Gorz va oltre queste analisi che condivide con Rifkin quando parla di conoscenze che hanno valori intrinseci, spiegando che l’economia capitalistica non è comunque in grado di decidere quale sia il valore delle conoscenze che sono prodotte quando gli uomini interagiscono, sperimentano, apprendono e non possono essere scomposte in unità di prodotto. Le conoscenze allora hanno un valore intrinseco specifico, diverso da quello delle merci, paragonabile solo a quello delle opere d’arte.

Approfondendo ancora meglio questo concetto, Gorz  sostiene che “ la conoscenza, inseparabile dalla capacità di conoscere del soggetto conoscente, è prima di tutto una ricchezza in sé, anche se può diventare strumentale e suscettibile di essere capitalizzata, “ è un valore verità, prima di essere un mezzo di produzione”(52).

Quando si capisce  che le conoscenze, in quanto risorse dell’intelligenza collettiva sono non misurabili e di conseguenza non scambiabili sul mercato, si arriva ad un’altra concezione della ricchezza e degli scopi dell’attività umana.
Si potrebbe allora abbozzare la nascita di una società dell’intelligenza, secondo il modello inseguito dai promotori delle reti e dei software liberi, in cui il pieno fiorire delle capacità di ciascuno sia il fine di tutti.

La knowledge class rappresenta ormai il 20% della popolazione attiva, ma c’è una grande parte di neoproletariato postindustriale, costituito da giovani che hanno dovuto accettare lavori squalificati E’ anche vero però che una buona parte degli informatici ad alto livello comincia a rifiutare una cultura del  sempre più in fretta, contro la minaccia  del burn out, cioè della stanchezza mentale che brucia la loro creatività e crea senso di vuoto, unendosi al sottoproletariato squalificato nella richiesta di trasformare l’occupazione a tempo pieno  in occupazione a tempo parziale.

Si è  sviluppato il movimento del software libero da cui sono partite contestazioni radicali del capitalismo mondializzato e finanziarizzato: “la comunità virtuale, virtualmente universale degli utenti-produttori di software  e di reti liberi instaura rapporti sociali che abbozzano una negazione pratica dei rapporti sociali capitalistici”(53).

E’ l’etica della cooperazione volontaria degli hacker, nella quale ciascuno si misura con gli altri tramite la qualità e il valore di uso del suo apporto. Non a caso Gorz, nell’intervista del 2005, considera un incontro importante della sua vita ,quello con l’hacker Stefen Meretz, cofondatore insieme a Stefen Merten citato nell’Immateriale, di Oekonux(54), il progetto che studia come estendere i principi dei software liberi all’economia. Meretz gli è parso una persona “che esplora con ammirevole onestà le difficoltà di uscire dal capitalismo attraverso la pratica , i modi di vivere, di desiderare, di pensare”(55).

Il software libero permette l’appropriazione collettiva  dei mezzi di produzione e di scambio e la loro messa in comune e a disposizione di tutti.
Ma l’anarco-comunismo delle reti libere può fare intravedere un altro mondo possibile, solo se si diffonde nel corpo sociale e contribuisce alla sua ricomposizione.

Anche nell’Immateriale, Gorz,nella prospettiva di un altro mondo possibile, riprende l’idea del reddito sociale garantito che dia sicurezza nei momenti di tempo liberato.

La garanzia del reddito può far passare ad un’altra economia creatrice di ricchezze che non siano né misurabili, né scambiabili, perché basata su una rottura tra la creazione di ricchezza e la creazione di valori.

Abbiamo tutti diritto a un’esistenza sociale che non si esaurisce nel rapporto salariale, perché contribuiamo tutti alla produttività dell’economia in modo indiretto e invisibile, anche con le interruzioni del lavoro: ”la ricchezza sociale prodotta è un bene collettivo nella creazione del quale il contributo di ciascuno non è mai stato ed è oggi meno che mai misurabile e il diritto a un reddito sufficiente, incondizionato e universale equivale, in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, consapevolmente o no”(56).

Il pagamento del tempo liberato è in fondo il pagamento di un investimento  nella formazione del capitale fisso umano,  vale a dire di quello sviluppo e produzione di sé che non ha valore in senso economico, ma va nel senso  di un’attività tramite cui gli individui creano i propri mezzi di lavoro, secondo i loro bisogni e desideri.

Nell’ultimo capitolo dell’Immateriale, Gorz che ha inseguito per tutta la vita l’utopia di una società a misura d’uomo, considerando positivamente anche  il web e le reti libere in quanto di creativo  possano offrire come prodotto dell’intelligenza umana, si occupa dei progressi della scienza relativamente alla creazione dell’intelligenza e della vita artificiale, vale a dire di quelle invenzioni che, se non controllate, potrebbero condurre ad una civiltà postumana.

Gorz si rifà alle osservazioni husserliane, secondo le quali il nostro rapporto originario con il mondo è il sapere intuitivo, precognitivo, cioè noi apprendiamo il mondo mediante l’esperienza sensibile e gli diamo forma tramite le nostre facoltà sensoriali, vale a dire con il nostro corpo.

Poiché la qualità di una cultura e di una civiltà dipende  dall’equilibrio tra i saperi intuitivi del mondo vissuto e lo sviluppo delle conoscenze, la domanda che si pone Gorz è se le conoscenze  scientifiche che vanno oltre le nostre intuizioni originarie, permettano di completare i saperi vissuti  e siano orientate dai bisogni, dai desideri che provengono dal mondo vissuto.

Questa domanda è del resto il fondamento della critica che è stata alla base del movimento ecologista, nato all’inizio non tanto da un’esigenza di difendere la natura, quanto  da una resistenza contro la distruzione del mondo vissuto.

La risposta non è positiva nei confronti delle conoscenze scientifiche e degli apparati megatecnologici che hanno accentuato il divario tra conoscenze e saperi vissuti, abolendo la natura per dominarla e costringendo l’umanità a mettersi al servizio di questo dominio.

Ne è nata una squalificazione dei saperi intuitivi a vantaggio di conoscenze professionali che siarrogano il diritto ad avere il monopolio della conoscenza vera (è il concetto espresso da Illich delle “professioni incapacitanti” che ben rappresentavano l’incapacità degli individui a essere responsabili in un mondo che non erano più in grado di comprendere).

Gorz rimanda ancora ad Husserl che nella Crisi della scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936) già intravedeva la causa della separazione tra conoscenza e sapere, tra scienza e mondo vissuto, nella matematizzazione della natura. “La matematizzazione, meglio di ogni altra tecnica, permette l’autonomizzazione più radicale della conoscenza rispetto all’esperienza del mondo sensibile. Con essa l’intelletto si dà i mezzi di astrarsi dalle evidenze della esperienza vissuta”(57).

Si attua in questo modo una separazione tra l’intelletto funzionante secondo le leggi del calcolo e il corpo. Già Keplero, Galileo, Leibnitz, Cartesio avevano scoperto che le leggi dell’intelletto liberato dal corpo, sono le stesse che regolano l’universo: era aperta una strada che poteva portare  George Boole a metà del 1800 a concepire l’idea che il pensiero matematico potesse materializzarsi in macchine pensanti e un secolo dopo a creare un computer in grado di dimostrare teoremi matematici, rendendo evidente che l’uomo è in grado di fabbricare macchine funzionanti come la sua mente.(58)

Si è aperta l’Era delle macchine spirituali, di cui parla Raynold Kurzweil, in grado di realizzare quanto c’èdi divino nell’uomo separato dalla pesantezza del corpo. Ma Gorz si domanda se il rischio non sia che il pensiero matematizzante, invece di generare macchine spirituali,  generi  il trionfo delle macchine sulla mente funzionante come una macchina. Per non parlare addirittura dell’idea fantasmatica di transplantare la mente, collegando dei fasci neurali del cervello ai cavi di un computer.(59) Ma l’intelligenza artificiale si basa sul principio di definire lo spirito umano come una macchina con programma, come il computer.

Nel rifiuto di questo principio Gorz ritorna ad essere il filosofo esistenziale: l’intelligenza non può essere un programma già scritto, perché rimanda ad un soggetto cosciente che persegue degli scopi, che prova desideri , perché è un essere di bisogni e a causa del suo senso di mancanza  è sempre al di là di se stesso. Il farsi mancanza dell’intelligenza umana “è alla base della capacità di creare, di immaginare, di  dubitare, in breve di autodeterminarsi, non è programmabile in un software. Non è programmabile perché il cervello non è un insieme  di programmi scritti e trascrivibili: è l’organo vivente di un corpo vivente, un organo che non cessa di programmarsi e riprogrammarsi da solo”(60).

L’intelligenza, per esistere, ha bisogno di un corpo vivente e quindi per creare l’intelligenza artificiale bisogna creare la vita artificiale. E’ in questo senso che sono andate le ricerche di Moravec e di Kurzweil, verso la robotica.

Secondo Kurzweil  la nanotecnologia permetterà di creare dei nanobot molecolari che entreranno nel cervello attraverso il flusso sanguigno, copiandone tutte le sue sinapsi, per creare copie di cervello umano, ma potenziate con neuroni artificiali. Si potrà procedere al miglioramento della specie umana in una nuova interpretazione dell’eugenismo che non risponderà ad un bisogno umano, ma al bisogno delle macchine.

Il trasferimento di informazioni da un software  a un cervello consentirà di leggere un libro in pochi secondi, di imparare in un istante una lingua straniera, facendoci evolvere verso una civiltà di mostri, di cyborg nei quali la produzione di sé lascerà il posto all’acquisto di protesi tramite cui accrescere le proprie capacità.

La via alle mostruosità è tracciata, anche se c’è da augurarsi che molto rimanga a livello di fantasmi infantili.

Senza spingersi ai limiti iper-reali dei cyborg, Gorz manifesta la sua preoccupazione per quanto riguarda l’ingegneria genetica che presenta un grave pericolo, sia se sarà lasciata alla scelta dei genitori su un mercato di profili genetici, dove funzionerà come macchina di selezione, sia se sarà socializzata per normalizzare e standardizzare.

Si cadrebbe in una trappola senza speranza di uscita: saremmo predeterminati da terzi e nessuno si apparterrebbe più, né sarebbe il risultato del proprio lavoro di produzione di sé.

Mancando il  riferimento agli antenati e alle generazioni passate, verrebbe meno la società e la costruzione di un processo di umanizzazione.

L’esigenza morale è del resto sempre stata il fondamento del pensiero di Gorz e la riflessione filosofica  ha finito per essere prevalente, anche quando si è occupato di analisi socio-economiche e le pagine dei suoi testi si sono riempite di  dati statistici, persino quando ha parlato delle teorie postumane nelle ultime pagine dell’Immateriale. Il ruolo del soggetto che per vivere si deve togliere di dosso il condizionamento degli altri ed essere libero nelle sue scelte è rimasto il suo punto di partenza e di arrivo.

Come uomo ha recuperato pienamente la sua soggettività nel rapporto d’amore con la moglie Dorine che è stata nella sua vita, dal 1949, l’influenza più forte e costante :“Dorine senza la quale nulla sarebbe, che mi ha rivelato che non era impossibile amare, essere amato, sentire , vivere, avere fiducia in se stessi”(61).

Per la moglie Dorine  scrive, nel 2006, l’ultimo suo libro  Lettera a D. Storia di un amore, esattamente un anno prima di decidere di togliersi la vita insieme a lei. E’ il suo libro più bello, letterariamente parlando, insieme al romanzo autobiografico.

Gorz sente il bisogno di ricostituire la storia del loro amore, per capire il senso di una vita insieme e del reciproco dono di sé che gli sembrava sminuito nel romanzo Il Traditore, in cui Dorine non appariva nel valore fondamentale che aveva avuto nella sua vita.

Emerge la storia di due persone che erano destinate ad un legame eterno, lui per l’essersi sentito escluso dal mondo, senza un’identità, anzi cercando di sovrapporne altre alla sua , senza riconoscersi in nessuna, lei per aver vissuto, a causa dei genitori, un’infanzia difficile che l’aveva costretta, per difendersi dagli adulti di cui non aveva più fiducia, a nascondere la sua fragilità sotto la forza.

“Avevamo bisogno di creare insieme, l’uno attraverso l’altra, il posto nel mondo che ci era stato negato in origine. Ma per questo, bisognava che il nostro amore fosse anche un patto per la vita”(62).

Gorz riconosce la forza di Dorine  nell’avergli fatto capire che non è possibile cercare di non esistere, rifiutando persino la realtà del matrimonio, per continuare a vedere nella donna di cui si era innamorato la possibilità di evasione da se stesso.

Il senso del loro matrimonio non  era stato quell’ atto di legalizzazione di un unione che gli faceva paura e che considerava troppo borghese, ma l’ accettazione del patto per la vita che significava stare insieme sul serio per rafforzare e trasformare nel tempo un progetto comune, fatto di lealtà, devozione, tenerezza.

Dorine è stata per lui essenziale, non solo per aver affrontato con coraggio gli inizi di una vita in comune disagiata economicamente, ma per averlo amato in tutta la sua interezza, incoraggiandolo a scrivere, capendo che non poteva vivere senza scrivere, anzi, aiutandolo a diventare da scrivente che si assentava  dal mondo per le sue elaborazioni letterarie, scrittore, cioè  soggetto che realizza il suo bisogno di scrivere in un progetto traducibile in opere pubblicate e condivise.

Dorine gli è stata accanto come compagna di  scelte di vita,  in tutti gli anni che lo hanno visto affermarsi come giornalista e  scrittore, rimanendo il filtro attraverso cui passava il suo rapporto con il reale.

Quando la malattia degenerativa della moglie(63) si è aggravata, Gorz  ha maturato l’idea che non avrebbe potuto continuare ad esistere senza di lei. La scelta finale e decisiva, ci svela l’uomo Gorz che è stato tutt’uno con il suo pensiero e con la sua esigenza umana irriducibile, vale a dire non altrimenti con il bisogno fondamentale  di ogni individuo di essere riconosciuto per quello che è, di avere desideri, sentimenti, passioni: se ne è andato deliberatamente, quando ha percepito che il suo sogno in avanti, l’utopia di una  vita doveva proseguire insieme a Dorine per sempre.(64)

Ha scelto di essere libero anche nella morte, contro la morte stessa che, se gli avesse portato via la donna che amava, gli avrebbe imposto un’esistenza di solitudine insopportabile.

 

 

Postilla a Lettera a. D.
L'ultimo atto di André Gorz

di Roberto Taioli

 

Lettera a D. Storia d’amore(65) di André Gorz rappresenta in un certo senso la continuazione e la estrema conclusione del romanzo autobiografico Il traditore(66) scritto nel 1958. Ciò non perché l’autore voglia dare compimento letterario a quest’opera (in sé conclusa), ma in quanto di fatto ne attua una parte mancante, ne colma una lacuna. Il testo è infatti l’estremo congedo dalla vita di Gorz che muore suicida nel 2007 assieme alla moglie Dorine colpita dal un male incurabile. Ma il testo continua nella vita di Gorz e riemerge sotterraneo ed insidioso negli ultimi anni della sua vita. Ciò significa che non era concluso davvero e che mancavano altre pagine, altri passaggi.

Scandagliando il testo del romanzo del 1958, tracce consistenti del rapporto di Gorz con l’amata  Dorine, si trovano nella terza parte dell’opera, titolata tu (dialettica della ricomprensione), messa in atto dall’autore alla ricerca della propria identità, ove l’autore s’incaglia nell’asprezza di un rapporto concreto, non più mediato dalla filosofia, espresso  figura della moglie.

Se vogliamo infatti veramente capire le pagine estreme  di Gorz, non possiamo non riandare a quella relazione di intersoggettività che pure,  nella scrittura autobiografica del Traditore, per stessa ammissione dell’autore, non hanno dato piena riconoscibilità alla figura di Dorine, occultandone in parte la complessità. Anzi, arrecandole un torto.

Così esordisce infatti Gorz nell’incipit della lettera:

 

Ho bisogno di ridirti semplicemente queste cose semplici prima di affrontare le domande che da un po’ mi tormentano. Perché sei così poco presente in quello che ho scritto mentre la nostra unione è stata ciò che vi è di più importante nella mia vita? Perché nel Il Traditore ho dato di te un’immagine falsa e che  ti sfigura?(67)

 

Nel Complement (2008) in una nuova edizione de Le traître,  così Gorz ripensa cinquant’anni dopo a quelle pagine:

 

Au cours de l’hiver 2005/2006, j’ai relu ces pages pour la première fois depuis cinquante ans. Je m’en veux terriblement de leur  avoir écrites. Je comprend purquoi on dit “mourir de honte”. Ce fat vulgaire et suffisante qui à écrit sur Kay treize lignes ignobles, c’est donc moi. Cette femme belle comme un  reve, souveraiment sure d’elle meme. La seule que j’aie jamais aimée d’amour, c’est moi qui l’ai redoute en son contraire.(68)

 

Il senso di colpa, che sempre ha inseguito Gorz nella sua vita e che credeva di aver smaltito e metabolizzato nella pratica euristica della scrittura autobiografica, riaffiora come un demone non spento nell’esperienza della vecchiaia, assumendo i  contorni di un corpo a corpo, questa volta definitivo, con le proprie fragilità traslate e rispecchiate nell’immagine dolente della donna amata, destinataria storica di un torto, di una dolorosa omissione.

La pietas, categoria morale e filosofica finora non saggiata da Gorz  nel suo itinerario filosofico, ove si è confrontato con la praxis, l’alienazione, la categoria del lavoro, irrompe all’interno del pensatore, come un fiume carsico rimasto a lungo sotto traccia, sepolto.

L’uomo Gorz, lungi dal ricomporsi per  una delle sintesi dialettiche della sua filosofia, si sfrangia, si decompone, appare desolato come nella Waste land di Eliot. La città, cui Gorz nella sua forma biopolitica, ha dedicato non poche analisi come luogo della aggregazione, si rimpicciolisce nel rappoorto io-tu, anzi nell’io stesso, come senza più sponde.

La Lettera a D. non è un vizio devastante e narcisistico dell’autore che torna a parlare di sé come nauseato dall’esterno in cui si è versato finora e per un lungo  periodo della sua esistenza; è semmai  il ripensamento della stessa  nell’incontro con l’irrompere del male nell’icona della moglie.  La vita si  reinstalla nella morte, e Goz  si imbatte nelle sofferenze e nelle difficolta di attraversare quest soglia, di dirla e pronunciarla,  nel tentativo di esprimere l’indicibile e l’ineffabile, come ha ben sottolineato Vladimir Jankélévitch(69) sul tema radicalmente  anomalo e impensabile  del rapporto del morire...

La pietas di ascendenza virgiliana, che si dà non come idea astratta, ma nelle forme tremendamente concrete del nesso con l’altro, irrompe nella vita di Gorz col volto beffardo e crudo della malattia della donna amata, di cui non  riesce tuttavia del tutto a strapparne e il fascino, quasi essa venisse investita di una nuova ondata di seduzione:

 

Hai appeno compiuto ottantadue anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Recentemente mi sono innamorato di te un’altra volta e porto di nuovo in me  un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie. La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in paesaggio deserto, cammina dietro in un carro funebre.  Quest’uomo  sono io. Sei tu che il carro funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione, non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri. Sei tu che il carro funebre trasporta. (70)

 

Si costituisce nel rapporto io-tu una nuova modalità di riconoscimento che tuttavia trascina con sé le forme dell’antico rapporto  esacerbato dalla presenza del male.  Gorz si fa ancor più prossimo non solo a se stesso ma anche all’altra figura che lo accompagna e di cui si sente parte, consistenza, spessore. In questo compenetrarsi, quasi a  fondere le due identità,  vanno lette le pagine ed alcuni passaggi in particolare della Lettera a D. che richiamano sullo sfondo le analisi di Merleau-Ponty sul corpo e il tema della intersoggettività nella Quinta meditazione cartesiana di Husserl.

Posso mai separarmi dal mio corpo, posso negare il legame avvolgente che mi  fa oggetto ed al contempo soggetto di me stesso? Posso scorporare una parte di me senza non scorporare ed intaccare il tutto che mi incarna? La mia incarnazione come carne del mondo può mai essere solo un fatto individuale, tagliato e parcellizzato con le cesoie dell’intelletto analitico?  In quale avvolgimento e profondità insondata ed insondabile si radica in me la presenza dell’altro? Posso mai rimuoverla, obliarla, ricoprirla, soffocarla se non mettendo a rischio e repentaglio la mia stessa rimozione? In quale stanza segreta del mio io avviene l’irruzione dell’altro come abitante non più straniero di me? Come cum-viviamo non più nel fronteggiarci come polarità distinte, ma comune stoffa senziente e percipiente? Siano davvero in quella totalizzazione di avviluppo di cui scrive Sartre nel Tomo II della Critica della ragione dialettica?(71) Sartre stesso parlava in quel contesto di una sorta di incarnazione.

Gorz, che ha nel corso della sua vita ha  indagato questi interrogativi soprattutto nella più intensa stagione di impegno filosofico assieme a Sartre, confluita nel volume La morale della storia(72), rinviene  ora la materialità della storia  riassunta, ricapitolata e precipitata  nell’ultima fase della sua esistenza. Il dolore e la sofferenza non sono più  ambiti collettivi di una storia universale, ma si danno come sporgenze non eludibili e non più scavalcabili, vivi e palpitanti nel corpo vivo del  principium individuationis. Questa scoperta fenomenologica  del Leib, del corpo-proprio vissuto, riconduce la filosofia al mondo-della-vita e al sentire originario svelato e scoperto dell’essere grezzo, senza la mediazione di una ideologia. L’ideologia è Ideenkleid, “vestito di idee”, ricoprimento di una vita viva.

La vita è più urgente della vita ideologica e pulsa con un tempo qualitativo che non è omogeneo ma discreto, sfaccettato, interrotto, rinviato. E’ ripresa nel senso kierkegaardiano, ma non ripetizione. Non ammette repliche in base al principio di irreversibilità, ma semmai ripresentificazione. Consente riparazione, come atto estremo di humanitas, ma non recupero del consumo. In tal senso è istante, irripetibile, unico e perciò assoluto.

Ogni riparazione sul tempo è quindi nel presente e o nel futuro, ma non modifica il passato che è sfuggito per sempre dalla nostra presa ed è scivolato sullo sfondo, nel mondo della sedimentazione. Questo dramma di avvertire il passato come concluso, ma al contempo anche mancanza, tempo inadempiuto, spreco e colpa,  non si placa e non si medica con miti sociali del progresso, del divenire.

L’ultimo Gorz  pare accorgersi  di questa strettotia nella quale si è infilato nel tratto conclusivo del suo cammino. Il tempo non  è più dettato da un âge sociale,  ma  si riaffaccia come âge naturel, bruto atto biologico, gesto della natura nella sua forma selvaggia, non mediata.

Nell’antico saggio Le vieillissement(73) (1962) Gorz rovesciava al  di fuori di sé  lo svolgersi del tempo e della sua identità, come  un involucro fatto da altri e che io riconosco in quanto legittimato esteriormente da una serie di connotazioni sociali. Il tempo biologico era tempo sociale:

 

Ce que j’entends montrer, c’est que l’âge – tant le nombre d’années que l’idée de maturation, de viellisessement, de vie et de mort san laquelle le décompte du nombre d’années n’aurait pas de sens – nous vient originellement des autres, que nous n’avons pas d’âge pur nous-mêmes tant qu’Autres, par rèférence tant à longévité moyenne des individus de notre societé (j’y reviendrai) qu’aux étapes et passages initiatiques à un statut nouveau que la societé  institue sur la base de cette longévité moyenne.(74)

 

Gli Altri, come costituzione in esteriorità, non sono più il punto di riferimento. Nasce la necessità di un nuovo scavo, di una archeologia del tempo individuale come tessuto cogente, non dialettizzabile.

Ora, negli anni estremi e tormentati dell’esistenza di Gorz, il tempo biologico si riappropria della scena nelle forme dell’invecchiamento della coppia e della devastante malattia di Dorine. E’ il tempo che precipita e si accorcia nel segmento della vita propria.

Il tempo sociale scivola sullo sfondo, non estromesso ma oscurato. Si instaura una nuova dialettica, o forse una figura chiasmatica tra il sociale e il biologico, tra la storia che è sempre collettiva e plurale e la vita che è sempre singolare. In questo agone Gorz si dibatte o forse alla fine si piega alla cieca volontà della vita biologica,  al suo corso che neppure la più sofisticata e invasiva strumentazione della tecnomedicina può interrompere.

Sodale di Ivan Illich(75) e della sua denuncia del disumano che si cela nella medicina nell’età della tecnica, Gorz  intacca con il suo gesto estremo anche questo idolo. Fa vivere la vita nella morte seguendo Dorine, in un altro misterioso cammino. In questa estrema prossimità s’attua la forma più alta dell’intersoggettività corporea e spirituale alla quale Gorz aveva sempre anelato. Forse nel non concedere alla morte l’ultima parola sulla sua vita con Dorine, ma nel seguirla, in questo risarcimento e condivisione, va ritrovato il più intenso e pieno humus, il suo ultimo capitolo del libro.

 

NOTE

 

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