Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
TESINA DI ERMENEUTICA FILOSOFICA
La priorità dell’Atto: legami e distanze da Platone
di Carlo Vespa
Matricola n. 10130701
Corso di Laurea in Filosofia - Anno accademico 1997-98
All’attenzione della Prof.ssa Maria Giovanna Sillitti
UN ALONE DI MISTERI
Introdurre il lettore nel mondo aristotelico della Metafisica è un compito molto arduo non solo per il complesso contenuto dell’opera in questione, ma soprattutto per quell’alone costellato da dubbi, incertezze e misteri che la avvolge da circa duemila anni.
Se si può a buon diritto ritenere che Aristotele abbia scritto alcuni appunti relativi al suo corso di lezioni nel Peripato, detti in gergo esoterici, cionondimeno non è altrettanto credibile che poi di sua mano li abbia ordinati e riuniti in un’opera compiuta e conosciuta quindi sotto il nome di Metafisica.
È l’inizio della fine; per chi si appresti a leggere, infatti, la Metafisica si presenteranno, proprio per questi motivi, delle difficoltà ancor prima di giungere ad analizzarne i contenuti.
La disposizione dei quattordici libri, il numero e poi anche il contenuto, per esempio, dovranno essere passati al vaglio con il fine di scorgerne o meno l’autenticità.
Tutto ciò che viene dopo tale operazione diventa soggettivo, personale, in altre parole critico. E proprio a causa dell’enorme incertezza che aleggia intorno a tale opera la critica si divide, sicchè alla teoria genetico evolutiva se ne oppone una dicotomica o un’altra unitaria.
Alla luce di ciò risulta quanto mai possibile poter estrapolare dalla Metafisica una o più parti per analizzarne il contenuto senza il timore di tralasciare il resto, vista la natura assai frammentaria dell’opera.
I LIBRI SULLA SOSTANZA
I libri Z, H, Q sono definiti dalla critica, più o meno concordemente, “Libri sulla sostanza”. Sono i libri centrali e occupano un posto appropriato visto il tema che trattano, tuttavia ciò non fornisce delle prove sulle intenzioni di Aristotele, se cioè li abbia concepiti dopo G ed E.
Donini[1] mostra come vi siano degli indizi all’interno di tali libri che spingano a ritenere Z e H da un lato, ed Q dall’altro, come due trattazioni distinte e separate che, in seguito poi, Aristotele avrebbe deciso di unire ed aggiungere al filone G ed E; tale visione trova riscontro nella teoria genetico evolutiva esposta dallo Jaeger e condivisa dalla maggioranza degli studiosi di Aristotele per più di vent’anni.
Sono dunque una trattazione sulla sostanza, in cui Aristotele studia i due significati più importanti di essere: l’essere per sé categoriale, in Z e H, e l’essere come potenza ed atto in Q. Tali due visioni sono tra loro sì ben distinte, ma sicuramente in intimi rapporti. Il problema di Aristotele è capire cosa nella sostanza sensibile, da noi meglio conosciuta, meriti veramente il titolo di sostanza. In sintesi lo Stagirita avvia un processo problematico e complesso con il fine di mostrare come l’ousia ,passando per il significato più importante di upokeimenon, in ultima istanza sia definibile e come materia, e come forma, e come sinolo di entrambe, col fine di decretare il primato della forma così che alla domanda: “cos’è sostanza?” solo quest’ultima potrà garantire una esauriente risposta.
Uno dei punti di approdo di Z, infatti, è che la sostanza è una “forma immanente dalla cui unione con la materia prende significato la sostanza concreta”[2], in altre parole la sostanza, in quanto forma, è un principio che struttura la cosa materiale, organizzandola.
DALLA MATERIA E FORMA ALLA POTENZA ED ATTO
Il libro H per lo più ribadisce quanto Aristotele ha esposto in Z, ma ha una pecularietà che ne esalta l’importanza; le considerazioni sulla sostanza subiscono infatti una metamorfosi di grande valore sicchè la chiave di lettura da statica diventa dinamica, con la conseguenza diretta che l’analisi, che prima verteva sul rapporto materia-forma, in H e quindi in Q ora si incentra sul rapporto potenza-atto. Il processo sotto quest’ultima ottica, allora, è chiaro: l’essere come sostanza è un che di determinato, un to de ti, un sinolo di materia e forma che, secondo un’analisi parallela, sono i corrispondenti di potenza e atto i quali, in ultima istanza, sono due modi determinati dell’essere. Riguardo a ciò è senz’altro utile trovare riscontro nell’analisi del Donini che suona così : “La correlazione che, mediante i concetti di atto e potenza Aristotele istituisce fra la materia e la forma, è tale che queste possono ora essere considerate i due aspetti di un’unica realtà, la sostanza sensibile rispettivamente vista come potenza e atto”, con la differenza che: “ Potenza e atto sono la trasposizione dinamica di materia e forma, che invece presentano un andamento statico”[3]. Prova più che soddisfacente a tal riguardo è la definizione aristotelica di potenza come “ principio di un movimento o di un cangiamento, principio che è in qualcosa di diverso dall’oggetto che si muove o cangia, oppure è nell’oggetto ma in quanto diverso”[4]. La potenza innesca dunque un movimento che però non è mai libero di spaziare ovunque, bensì è rivolto verso un punto d’arrivo ben focalizzato ovvero la nuova versione della forma che Aristotele, in H, chiama atto affermando che : “la materia esiste in potenza, soltanto perché possa pervenire alla forma; e sta nella forma soltanto quando è in atto”[5].
In questa frase possiamo fare riscontro di molti elementi attorno a cui ruota quest’indagine: il passaggio dalla materia alla potenza e dalla forma all’atto, il movimento dalla potenza all’atto e soprattutto ciò che da quest’ultimo deriva, il quale, pur risultando chiaro prima face, contiene tuttavia un inesauribile problema: il primato dell’atto sulla potenza.
LA PRIORITA’ DELL’ATTO
Il punto debole
Nel criticare Platone Aristotele afferma che “La materia prossima e la forma sono una sola cosa, l’una, però, in potenza, l’altra in atto; di conseguenza, chiedersi quale sia la causa della loro unità equivale, presso a poco, a chiedersi quale sia la causa di una cosa sola e del fatto che un’unica cosa è una: in realtà, ogni cosa particolare è una, e tanto ciò che è in potenza quanto ciò che è in atto sono, in un certo senso, una cosa sola”.[6]
Atto e potenza sono dunque una cosa sola, in un certo senso; tutto si svolge nel loro interno, così che al filosofo non rimane che il problema di giustificare il loro movimento: “di conseguenza non c’è nient’altro tranne qualcosa che provochi il passaggio dalla potenza all’atto.”[7] Problema che, suo malgrado, nell’affermazione della priorità dell’atto trova non tanto una soluzione quanto una forte controversia diretta a sfociare, tra le tante, anche nella direzione platonica.
Potenze innate e acquisite
Aristotele nel cap. 5 di Q spiega il passaggio dalla potenza all’atto mediante una distinzione tra potenze innate, come le sensazioni, e potenze acquisite per abitudine. Le prime possono produrre un solo effetto, le seconde invece una coppia di contrari; le prime sono irrazionali, le seconde razionali.
Ciò significa che la distinzione tra razionali e irrazionali consiste nella diversità relativa alla loro attualizzazione.
Ora il passaggio da potenza ad atto per le irrazionali, in quanto necessariamente obbligato dal solo effetto prodotto da quest’ultime, risulta chiaro e senza problemi; per le potenze razionali invece, poichè i contrari sono due, Aristotele trova il “fattore determinante nel desiderio o scelta”, sicchè “l’agente farà appunto quella che, fra le due cose, egli principalmente desidera.”[8]
Il desiderio e la scelta rappresentano dunque una delle poche spiegazioni effettive fornite da Aristotele sul passaggio da potenza ad atto.
La polemica con i Megarici
Le critiche operate da Aristotele nel cap. 3 di Q oltre ad essere un’ennesima prova delle grandi doti di confutazione argomentative dello Stagirita, hanno una fondamentale importanza ai fini dell’economia del tema che si tratta.
Svolgono infatti, da un lato, una chiara funzione demolitrice, mediante “un’abile mostrazione elenchica”, e al contempo costituiscono un forte contributo alla costruzione tematica di Q e con esso della Metafisica se in essa si vuole scorgere un qualche pensiero unitario.
I Megarici sostengono, in breve, che “c’è la potenza solo quando c’è l’atto e che , quando non c’è l’atto, non c’è neppure la potenza”[9], dunque non sarebbero distinguibili tra loro.
Mediante la critica a costoro Aristotele precisa invece che atto e potenza non si identificano, e tuttavia tesse su questi una sottile rete di fitti legami.
Gli esempi addotti in proposito dallo Stagirita sono più che convincenti: il costruttore, a voler ragionare secondo i Megarici, dispone di tale arte solo quando effettivamente costruisce e non più quando smette di praticare tale attività, per cui Aristotele si chiede: “Come mai egli ha un’altra volta acquistato il possesso dell’arte?”[10], quando costui ricomincia a costruire.
Il primato dell’atto
Il rapporto potenza-atto giunge al punto cruciale quando, nel capitolo ottavo di Q, Aristotele sancisce un primato fondamentale per lo svolgimento della sua “opera”: “Se teniamo presenti le varie accezioni del termine ‘anteriore’ da noi definite, ci risulta chiaro che l’atto è anteriore alla potenza” anteriorità che risulta in tre questioni, secondo cioè “la nozione […] secondo la sostanza; secondo il tempo invece l’atto è anteriore sotto un certo profilo, ma sotto un altro no”[11]
1) Secondo la nozione infatti una cosa in tanto è in potenza in quanto c’è un atto cui essa tende, ovvero “ciò che è potenziale nella sua accezione fondamentale, in tanto è potenziale in quanto è suscettibile di attuazione, […] solo chi può vedere ha la potenza di vedere e solo chi può essere visto ha la potenza di essere visto”[12].
2) In base al tempo, intendendo l’individuo come specie e non come numero, è l’individuo in atto che ne genera un altro: “ l’uomo genera uomo”, giacchè “è anteriore quell’attuale che è identico al potenziale per specie, non per numero; […] ciò che è in atto proviene sempre da ciò che è in potenza, ma per opera di qualcosa che è attualmente esistente […] essendoci sempre qualcosa che produce dapprima il movimento: e ciò che produce il movimento esiste già in atto”[13].
3) E per la sostanza su due punti:
· l’atto è principio e condizione della potenza “in primo luogo perché le cose che sono posteriori secondo la generazione sono anteriori secondo la forma e la sostanza […] e in secondo luogo perché tutto ciò che è generato procede verso il proprio principio, ossia verso il fine (giacchè la causa finale è principio, e in vista del fine si va attuando il divenire), e l’atto è un fine e in grazia di questo viene assunta la potenza”[14].
· l’atto è il modo d’essere degli enti eterni incorruttibili per cui precede la potenza che è il modo d’essere di quelli corruttibili, nella misura in cui appunto l’incorruttibile è anteriore al corruttibile.
Così, forte delle prove qui addotte sulla priorità dell’atto, Aristotele può affermare che “ la sostanza e la forma sono atto. E così, in base a questo ragionamento, risulta con chiarezza che relativamente alla sostanza, l’atto è anteriore alla potenza e un atto presuppone sempre in ordine al tempo, un altro atto, finchè non si pervenga all’atto del primo, eterno motore.”[15]
CRITICA A PLATONE
La svolta aristotelica si effettua nel momento in cui alla domanda filosofica per eccellenza: cos’è l’essere?, il filosofo risponde che esso “ è usato in molte accezioni”[16]
Al mondo platonico stabile, perfetto, immutabile, modello della sua copia imperfetta, Aristotele contrappone la molteplicità propria di un mondo che è unico e che non deve rendere più conto sempre e solo di ciò che è, vero e solo contenuto delle idee platoniche, ma che trova nella potenza (razionale) l’accettazione anche di ciò che non è, creando e garantendo così un movimento, un dinamismo che è intrinseco all’oggetto stesso e dunque non è più una pura idea astratta immobile e separata dal nostro mondo.
Con una certa frequenza ci si può imbattere in tali affermazioni riguardo ad Aristotele ed alla sua originalità, e senza dubbio in ciò difficilmente si può dissentire; tuttavia è pur sempre lecito notare, all’interno del discorso aristotelico relativo alla potenza e all’atto, là dove ve ne sono, delle incongruenze.
Al di là degli infiniti misteri, risolti in niente che non sia ancora oggi oggetto di altrettanti dubbi, è palese nella Metafisica lo scontro tra Platone e Aristotele, o come fu spesso tradotto, tra idealismo e realismo.
Se non è argomento di questa ricerca stare a verificare l’esattezza di tale paragone, è appena il caso tuttavia di notare come le varie posizioni della critica mettano in luce un dilagante scetticismo su tale questione.
Se una tradizione filosofica “secolare” infatti ha opposto i due filosofi come i più tipici esponenti rispettivamente dell’idealismo l’uno e del realismo l’altro, Giannantoni nota come in tempi più recenti la critica “è venuta sempre meglio individuando i motivi di continuità storica tra i due.”[17]
L’idea di Reale è di ritenere tale problematica tra i due come “opposta ma sul medesimo piano”[18], infatti, “la dottrina aristotelica delle forme”, è, secondo lui, “la trasformazione delle platoniche idee trascendentali in strutture ontologiche intellegibili immanenti”[19]. In più, nota ancora Giannantoni, “il persistente platonismo di Aristotele si ritrova nel problema per cui da un lato la vera realtà è data dal sinolo, dall’individuo, e dall’altro la scienza non può essere scienza del particolare, ma , platonicamente, solo dell’universale: e l’universale è appunto la forma, in quanto ‘separabile’ dalla materia e perciò conoscibile per se stesso”[20].
Una delle tante critiche a Platone suona così: “ e il motivo di questi errori sta nel fatto che quei filosofi intendono cercare una ragione che sia in grado di unificare potenza e atto, e, nello stesso tempo, di stabilirne la differenza”[21].
L’opera di Aristotele infatti è disseminata pressochè ovunque di critiche ed attacchi, vuoi spasmodici ed estenuanti, vuoi soltanto accennati, nei confronti del maestro.
E’ probabile che tale ostinazione rifletta l’esigenza dello Stagirita di distinguere almeno la sua filosofia da quella platonica; la frequenza e l’ossessione con cui poi tale questione viene affrontata, ne illumina infine l’importanza attribuitagli da quest’ultimo.
Se fossero così agli antipodi, perché mai la nuova filosofia aristotelica avrebbe un così forte bisogno di essere corredata da un apparato critico difensivo di siffatta mole?
LEGAMI CON L
I problemi accennati inizialmente sull’unità letteraria, e non solo, della Metafisica si acuiscono nel libro L, il quale, pur occupando la dodicesima posizione, ha paradossalmente di certo il solo fatto che tale posizione non corrisponda alla sua datazione, e in ciò sono d’accordo nella critica sia chi vuole L contemporaneo di A, sia chi lo considera successivo a M e N.
Tale considerazione è di una certa rilevanza soprattutto per il contenuto di tale libro; questo infatti costituisce l’esito della metafisica aristotelica trattando del primo motore immobile, dell’atto eterno.
Come vedere dunque la trattazione dell’atto nei libri sulla sostanza rispetto a ciò che dell’atto Aristotele scrive in L?
Probabilmente nei suoi pensieri rientrava l’atto sia di Z-H-Q, sia del libro dodicesimo, e tuttavia, forti delle considerazioni poc’anzi fatte, non sembra un percorso troppo azzardato quello di sottolineare una linea di confine tra L e i libri centrali e, conseguentemente, di vedere la teoria dell’atto e quella del movimento ad esso legata, pure trattati in L, entro i limiti di siffatti libri.
Così sempre il Donini costata che “un collegamento di L con il blocco dei libri centrali è davvero poco credibile”, infatti, “è arduo credere, perciò, che Aristotele possa aver pensato a L come ad una parte della stessa opera in cui avrebbero dovuto prendere posto anche i libri centrali”[22]; tesi questa confermata ed approvata già in passata dalla Jaeger che vede L se non contemporaneo di A, per lo meno molto più antico di Z-H-Q.
IL MOVIMENTO: I PROBLEMI
L’atto non è movimento
E’ doveroso per motivi di chiarezza sottolineare che tra atto e movimento c’è una distinzione; infatti “il termine ‘atto’ che viene usato in concomitanza col termine ‘entelechia’ è stato applicato anche alle altre cose, soprattutto in base ai suoi rapporti con il movimento, giacchè il movimento sembra essere l’atto per eccellenza, ragion per cui alle cose che non esistono non si suole assegnare la proprietà di muoversi”[23].
L’apparenza inganna, il movimento sembra essere l’atto per eccellenza ma poco dopo Aristotele dice che “alcuni di essi sono movimenti altri atti. In realtà ogni movimento è imperfetto” infatti l’atto si ha nel caso in cui “la medesima persona sta vedendo e nello stesso tempo ha già visto”[24].
Il movimento è si un’azione, ma imperfetta in quanto non corrisponde ad un fine, nei confronti del quale invece l’atto risulta essere immanente. Il che in altre parole suona così come nell’introduzione alla Metafisica sottolinea Rossitto : “l’atto come mutamento differisce da quello filosofico perché il primo approda a qualcosa di diverso da sé e dunque è imperfetto, mentre il secondo, non approdando ad altro, è atto perfetto”[25].
Ruolo del movimento
Con esso Aristotele fornisce la prima spiegazione sul valore di potenza e atto, spiegazione che sarà alla base anche della loro funzione ontologica.
Il movimento assume perciò un significato centrale nello studio sulla sostanza, anche perché nel teorizzarlo il discepolo di Platone trova molte difficoltà.
Ve ne sono due tipi nel corso dell’opera: uno in Z, H e Q, un altro in L; ma entrambi più che risolvere il problema, lo vanno a complicare.
Il primo è il movimento interno alla trattazione di potenza e atto; il secondo è causato dal primo motore immobile in quanto oggetto di desiderio e causa finale-efficiente.
Forse il secondo tipo è stato introdotto per colmare le lacune del primo, ma se si considera L come estraneo alla trattazione di Z H e Q lo si deve fare anche in questo caso.
Come già notato, la potenza, che è un principio di mutamento, in realtà è altro da sé, è cioè atto; sicchè il movimento da potenza ad atto, in effetti, si traduce in un passare di atto in atto, di “uomo in uomo” e la potenza viene ridotta a qualcosa che non ci sarà mai in quanto a realizzazione di sé, trasformandosi necessariamente in atto, ma che tuttavia dovrà essere sempre sottintesa per fornire dinamismo ad un mondo in cui, però, la staticità non viene definitivamente annullata; prova ne è il fatto che lo stesso movimento, che è spiegato in modo ambiguo e piuttosto nebuloso, risulta più considerato come già dato che derivato teoricamente: “in realtà tra le cose che non esistono, alcune sono in potenza, ma in realtà non esistono, perché non hanno un’esistenza in atto”.[26]
La difficoltà incontrata non va messa da parte, non ha un valore a sé stante ma nasconde dietro di sé un’enormità di problemi.
Il movimento allora è sì la chiave che permette ad Aristotele di riportare il mondo iperuranio in quello sublunare mediante lo stesso criterio con cui egli postula la potenza e l’atto, e tuttavia il rapporto potenza-atto, come accennato, non è affatto semplice e chiaro; il percorso seguito dalla potenza verso l’atto è quanto mai ambiguo; tanto la potenza si accinge ad attualizzarsi, quanto l’atto è la determinazione di quella potenza. Sicchè il movimento che ne deriva, e che dovrebbe essere lineare, da A a B, trasformandosi costantemente in un vortice di circolarità per la sua stessa natura intrinseca, sarà difficilmente soggetto a spiegazioni plausibili.
UNA POSSIBILE SPIEGAZIONE
La filosofia di Platone contempla due mondi nell’interazione dei quali trova origine la teoria della conoscenza, del movimento e in pratica tutto il suo pensiero. La filosofia aristotelica invece ne contempla uno soltanto: materia e forma fondano un to de ti; atto e potenza vanno per mano. Il mondo, unico nella sua fattispecie, non deve essere più giustificato dalla sua ombra perfetta; e tuttavia l’esito di tale visione è che l’atto ha una priorità sulla potenza, tale da rappresentare, in ultima analisi, la causa di tutto, il primo motore immobile, libero e sciolto da ogni vincolo, ivi compresa la materia se si vuole vedere un qualche legame con L.
Conclusione che sembra abbastanza repentina se commisurata alla complessità della questione sviluppatasi dentro la disputa tra potenza ed atto. La necessità di porre fine al processo di un movimento innescato tra i due spinge ora a decretarne un primum piuttosto che ad affrontare gli abissi del vasto mare e spiegarne, percorrendole, le correnti che volgono dalla potenza all’atto.
E inoltre l’opzione per la priorità si rivelava l’unica via, anche se la meno semplice, che consentisse di mettere il punto ad un “frase” che, vittima dell’eterna ed inesauribile contesa tra potenza ed atto, sarebbe risultata altrimenti incompiuta.
Certo è che il movimento che Aristotele fonda quasi a priori tra potenza e atto gli causa enormi problemi; non solo lo mette nell’impossibilità di spiegarlo effettivamente, ma, cosa ancora più grave, mette a rischio tutto il suo apparato argomentativo sulla potenza-atto, e tutto ciò che ad essi ruota attorno, rendendolo inconcludente come lo è un circolo vizioso; si tenga conto, riguardo a ciò, quanto detto nel manuale di Alberto Moravia : “Ora, Aristotele non ammette il processo all’infinito: una serie indefinita di potenze e di atti che non mettesse capo a un punto fermo farebbe cadere tutta la realtà nell’assurdo e nel caos”[27].
Così che se il filosofo di Stagira può “permettersi il lusso” di trascurare il primo problema, cioè spiegare come si articola il movimento interno all’atto ed alla potenza, che per questo risulta essere una spina nel fianco della sua filosofia, deve altresì risolvere con una certa urgenza il secondo, , deve cioè sciogliere tale circolo anche con la forza per avere qualcosa di compiuto da poter stringere nelle mani: l’atto, in virtù del quale afferma : “E’ fine l’opera, e l’atto si identifica con l’opera e perché anche il nome stesso di atto energeia deriva da opera ergon e tende verso l’atto perfetto.”[28] , ed ecco che quasi per magia la via che potenza ed atto hanno percorso, mano nella mano nei molti tracciati e sentieri della Metafisica, ora si divide bruscamente con il risultato che “E’ atto l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come diciamo che l’oggetto è in potenza […] ma in ben altro senso noi parliamo di presenza attuale!”[29]. Così il movimento dalla potenza all’atto continua a risultare nebuloso e leggendario, ma nell’ottica più ampia dell’intero apparato argomentativo dei libri centrali paradossalmente questo è il male minore; la teoria del movimento rimane sì un punto enigmatico, inserito però in un contesto depurato in extremis dal caos che avrebbe prodotto il vortice innescato dalla reciproca tensione tra potenza ed atto.
Salvo considerare la via che , dopo la sua separazione dalla potenza, l’atto va a percorrere.
E in funzione di ciò, riprendendo l’immagine poc’anzi descritta, si ha del tutto l’impressione che Aristotele per non rimanere annegato nelle acque che dalla potenza conducono all’atto, e per salvare la realtà della sua filosofia, faccia sfociare tali problemi e la loro eventuale soluzione, l’atto, proprio là da dove era partito con il chiaro intento di allontanarvisi : la filosofia del maestro Platone.
In un mondo così tratteggiato, in un problema così assillante, dove trovare la soluzione se non altrove? In L sarà, o è stato, Dio, naturalmente inteso alla greca come nuos divino; nei libri centrali in sintesi, l’atto, a noi pare, è ciò che ontologicamente parlando costituisce il primum; dunque non è propriamente un altro mondo, ma è sempre quanto basta per far andare Aristotele oltre il sunolon, e per chiedersi dove risiede allora il fondamento dell’individuo determinato, del to de ti?
BIBLIOGRAFIA
SCRITTI DELL’AUTORE
- Aristotele, Metafisica, trad. di Russo, Roma-Bari, Laterza, 1995 LETTERATURA CRITICA - Enrico Berti, Guida ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997
- Pierluigi Donini, Metafisica di Aristotele, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995
- Giovanni Reale, Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997 LETTERATURA COMPLEMENTARE - Gabriele Giannantoni, La ricerca filosofica ,(1968), Torino, Loescher, 1996, vol. I
- Sergio Moravia, Pensiero e Civiltà, (1982), Firenze, Le Monnier, 1984, vol. I.
[1] cfr. Pierluigi Donini, Metafisica di Aristotele, Roma, La nuova Italia, 1995, pp. 109-111
[2] Aristotele, Metafisica, trad. di Russo, Roma-Bari, Laterza, p. 216
[3] Donini, cit., p. 131
[4] Aristotele, cit., p. 145
[5] ivi, p.268
[6] ivi, pp. 248-249
[7] ibidem
[8] ivi, p. 259
[9] ivi, p. 255
[10] ibidem
[11] ivi, pp. 269-266
[12] ibidem
[13] ibidem
[14] ivi, p. 267
[15] ivi, p. 269
[16] ivi, p. 86
[17] Gabriele Giannantoni, La ricerca filosofica, (1968), Torino, Loescher, 1996, vol. I, p. 139
[18] Giovanni Reale, Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 173
[19] ivi, p. 176
[20] Giannantoni, cit., p.168
[21] Aristotele, cit., p. 248
[22] Donini, cit., p. 139
[23] Aristotele, cit., p. 255
[24] ivi, p. 263
[25] Enrico Berti, Guida ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 230
[26] Aristotele, cit., p. 257
[27] Sergio Moravia, Pensiero e Civiltà, (1982), Firenze, Le Monnier, 1984, vol. I, p. 132
[28]Aristotele, cit., p. 268
[29] ivi, p. 261
Libri pubblicati da Riflessioni.it
RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA 365 MOTIVI PER VIVERE |
|