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Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Nozioni di filologia araba
di Marco Calzoli - Febbraio 2025
L’italiano deriva dal latino, che è una lingua indoeuropea, invece l’arabo è una lingua semitica. Pur essendo lingue indoeuropee e lingue semitiche entrambe flessive, costituiscono sistemi profondamente differenti. Il principio del trilitterismo determina che sono soltanto le radici triconsonantiche a dare il significato fondamentale della parola (perché, ma solo per i verbi, significati derivati sono ottenuti attraverso sistemi vocalici e suffissali: ad es. il verbo ebraico ha forma base + altre sei forme; l’arabo forma base + otto forme derivate), mentre le vocali (che non sono espresse dalla scrittura) servono ad esprimere le varie relazioni grammaticali.
Il cosiddetto “proto-semitico“ aveva tre casi (nominativo, accusativo e genitivo), ora conservati solo nell’arabo coranico e letterario in genere (erano espressi anche dall’accadico e dall’ugaritico), mentre ebraico e aramaico ne hanno soltanto delle tracce (si pensa che l’ebraico prebiblico avesse i tre casi più una desinenza avverbiale, indicati tutti da vocali brevi posposte). Le lingue semitiche iniziano a perdere i casi attorno al I millennio a.C.
Il verbo semitico ha due forme principali, l’una che esprime l’idea dell’azione compiuta, l’altra quella dell’azione non compiuta. Caratteristica tipica delle lingue semitiche, inoltre, è quella della grande fluidità fra i vari tempi verbali, che possono tradursi sempre come presente oppure futuro oppure, con particelle preposta al presente, anche passato (è significativo che in arabo la particella “lam“ + verbo in stato energetico-iussivo, cioè presente, conferisce valore di passato).
Una volta si pensava che l’arabo fosse il ceppo fondamentale del gruppo, da cui si originarono l’accadico e il semitico nord occidentale; oggi invece si parla comunemente di “proto-semitico“ (da cui anche l’arabo discenderebbe) per l’impossibilità di conciliare fenomeni semitici ma che non si trovano in arabo (come la coniugazione a due prefissi). Il “proto-semitico” è una lingua ipotetica, ricostruita, non ci sono iscrizioni.
Le lingue semitiche si suddividono in: 1) accadico (antico accadico, babilonese, assiro); 2) semitico nordoccidentale, attestato dalle iscrizioni pseudogeroglifiche di Biblo del 3000-2000 a. C., dalle iscrizioni protosinaitiche del 2000 a. C., dalle iscrizioni di Lachish del 2000 a. C., e poi da a. amoreo; b. ugaritico; c. cananeo –che comprende il cananeo del II millennio testimoniato da glosse alle lettere in accadico di Tell Amarna e da vari testi accadici di Ugarit, il moabitico, testimoniato solo dalla stele di Mesha del 900 a. C., l’ebraico - che è biblico (1200-200 a. C.), postbiblico (200-100 a. C.), dei testi rabbinici (primi secoli dell’era cristiana), dei testi letterari e filosofici (Medioevo), ebraico moderno -, fenicio (1000-200 a. C.), punico (300. a. C.-200 d. C.); d. aramaico – antico (1000-800 a. C.), imperiale (700-100 a. C.), del quale la varietà usata nella Bibbia si situa tra 500 e 200 a. C, mentre in seguito si divide in occidentale (nabateo, palmireno, giudaico palestinese, samaritano, cristiano palestinese, damasceno) e in orientale (siriaco, aramaico babilonese, manicheo, mandeo, aramaico di Musul e della Georgia) – ; 3) semitico sudoccidentale, costituito da etiopico (antico, letterario e moderno, il quale è diviso in dialetti come l’amarico) e da arabo, che si divide in meridionale (epigrafico: dei secoli 800 a, C.-600 d. C., costituito da dialetti come sabeo, mineo, qatabaneo, hadrami, awasaneo; moderno: dialetti come mehri, shawri, soqotri) e in settentrionale (preclassico, 500 a. C. – 400 d.C. con dialetti come tamudico, lihyanito, safaitico; classico o arabo letterario, 400 – 2000 d. C., usato nel Corano e rifinito dai grammatici per opere letterarie fino all’uso che oggi si fa per la letteratura d’arte, ma anche per i giornali e per la comunicazione orale formale; moderno, dialetti oggi parlati informalmente, come iracheno, siro-palestinese, egiziano, nord africano).
Le lingue semitiche traggono il nome da Sem, di cui si parla in Genesi 10, uno dei figli di Noè. Da tale pagina della Bibbia questa terminologia è nata dal 1781 per opera di A. L. Schlözer. Sem è il capostipite delle stirpi semitiche, la radice significa nome, sono i popoli nel mezzo. Un altro figlio di Noè, Cam, è il capostipite dei camiti, i popoli del sud, il termine significa calore ma anche rosso. Iafet è il capostipite dei popoli del nord, Eurasia, cioè le popolazioni dell’Egeo.
Gli studiosi ipotizzano che le lingue semitiche prendano avvio a Oriente, cioè in Mesopotamia, poi il popolo semitico emigra verso Occidente (Palestina) e infine si sposta a Sud (dando origine al terzo gruppo, il semitico sudoccidentale).
Secondo le fonti assire, gli arabi si sono spostati dalla Mesopotamia verso il Nord dell’Arabia. Questo troverebbe conferma nel loro nome. Infatti la radice ‘rb (ayn, r, b), donde la parola “arabo”, significa Occidente. È significativo che la stessa radice, con una inversione delle consonanti, si ritrova in ‘br, donde “ebreo”, con il senso di passaggio. Alcuni studiosi sostengono che la stessa radice si ritrova anche nell’accadico ereb/pu, oscurità, andare verso Occidente (perché il cielo diventa oscuro quando tramonta il sole, cioè in Occidente). Da questa parola deriverebbe il termine Europa (che sta in Occidente).
Tra alcuni studiosi è invalsa una ipotesi, per la quale ci sarebbe stata una proto-lingua unitaria, cioè un linguaggio verbale parlato da tutti gli abitanti della terra che poi avrebbe dato origine alle varie lingue.
In effetti ci sono affinità tra lingue anche diverse tra di loro. Potrebbero essere coincidenze, a detta di molti, mentre secondo altri sarebbe la prova dell’esistenza in un lontano passato di un’unica lingua. In egiziano antico “amare”, mer, è simile al verbo latino e italiano.
Il filologo Semerano ha scoperto notevoli punti in comune tra le lingue indoeuropee e quelle semitiche, in particolar modo l’accadico, la più antica lingua semitica in nostro possesso. Latino mas, “maschio”, accadico maru, “figlio in genere, discendente”; italiano “cavallo” dal latino caballus, “attaccare al carro”, accadico kabalu; e così via. In verità egli non propendeva per l’ipotesi di una proto-lingua, ma pensava che tutte le lingue umane siano tra loro comparabili in quanto appartenenti alla stessa specie umana. In particolar modo le antiche lingue mesopotamiche sarebbero la testimonianza di una fase preistorica e agglutinante della lingua umana. In un lavoro Semerano dimostrava anche la affinità tra il sumerico e il basco, due lingue considerate isolate, cioè non imparentate con nessuna. Per esempio in sumerico giš è “uomo”, in basco è giza; sumerico ug, “giorno”, basco egu; e così’ via.
La possibilità della proto-lingua potrebbe essere collegata alla catastrofe di Toba: circa 70.000 anni fa l’esplosione di un supervulcano al di sotto del lago Toba, in Indonesia, rese glaciale il clima del pianeta, provocando una drastica diminuzione del numero degli abitanti di tutta la terra. Ebbene, in seguito a tale catastrofe la terra fu abitata da poche migliaia di persone. Questo avrebbe condizionato l’emergere di un’unica lingua per tutta la terra, per poi differenziarsi in parlate diverse. Ma la maggior parte degli studiosi rifiuta tale teoria.
La prima iscrizione certa e completa della lingua araba la abbiamo solo nel 328 d.C. (prima vi sono solo glosse isolate) a al-Namarai, si tratta dell’epitaffio di Imru’ al-Qays ibn ‘Amr. È vergata su pietra in “arabo antico”, cioè quella lingua che precede l’Islam. La scrittura della iscrizione è nabatea, quella stessa che in seguito produrrà la scrittura araba che oggi noi conosciamo.
Una tribù beduina del nord dell’Arabia si unì ai nabatei semi-nomadi della Giordania, quindi gli arabi iniziarono a usare l’alfabeto nabateo per scrivere l’arabo. Siamo attorno al V secolo a.C. ma la lingua araba era pressoché orale. Per avere una vera e propria iscrizione bisogna aspettare il 328 d.C.
La Penisola arabica è suddivisa in due parti:
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A nord c’è un paesaggio arido, secco, stepposo. Abitato da beduini dediti alla pastorizia che vivevano in tribù capeggiate da un sayyid, “signore”. il cammello era per loro fondamentale. Maometto era originario della tribù di Quraysh, la più importante, il cui dialetto era molto vicino all’arabo classico;
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A sud c’è un paesaggio ricco, florido, prospero. Abitato da sedentari esperti in irrigazioni e costruzioni di dighe (diga di Marib).
Nel 2000 McDonald ha curato l’edizione di un centinaio di iscrizioni preislamiche della penisola araba, che lui ha ipotizzato essere redatte in lingua araba preislamica (arabo antico) ma non ancora in alfabeto arabo, quello adottato oggi. Egli ha ipotizzato che siano in arabo sulla base della presenza dell’articolo determinativo –al, che tra le lingue semitiche è presente esclusivamente in arabo.
Bisogna distinguere tra “arabizzazione” e “islamizzazione”, in quanto non tutti coloro che parlano arabo sono di religione islamica. Una fase dell’arabo è detta “medio arabo”, che non è un proseguimento dell’arabo antico, come per esempio dall’antico inglese del Beowulf si produce il medio inglese di Shakespeare. Niente di tutto questo. Invece il cosiddetto “medio arabo” è la lingua della letteratura, ricchissima, che nel Medioevo sorge in comunità arabofone non islamiche. Questa produzione è scritta in un tipo di arabo pieno di errori e dialettismi e prevalentemente in alfabeto ebraico.
Il primo documento ufficiale in arabo è il Corano, formato da 114 capitoli, detti sure. Il Corano decreta l’avvio della religione islamica. Anche la cosiddetta “poesia preislamica” è in un tipo di arabo affine, ma più complesso di quello del Corano. I poeti preislamici, che nel loro quotidiano parlavano dei dialetti, hanno epurato questi dagli elementi più volgari e hanno creato una lingua aulica, usata per la loro poesia, una sorta di koiné letteraria. Essa era funzionale per fare delle gare di poesia, soprattutto nella città della Mecca (durante la fiera di Ukaz), a partire da cento anni prima la rivelazione concessa da Dio a Maometto.
Secondo la tradizione il Corano è sceso dal cielo rivelato a Maometto dall’angelo Gabriele a 40 anni. Prima di questa età lui si considerava un anif, cioè uno di quei monoteisti che precorsero l’Islam. Erano i precursori di una religione monoteistica che poi avrebbe portato all’Islam. Secondo la tradizione già Adamo era un anif oppure anche Alessandro Magno, Isacco, Salomone, e così via.
Ma se cento anni prima c’era già una lingua simile a quella del Corano (per l’appunto quella della poesia preislamica), allora il Corano è veramente sceso dal cielo? Oppure Dio ha parlato per mezzo dell’angelo in quella lingua colta?
Maometto odiava i poeti del tempo, i quali tra l’altro lo deridevano. Quando Maometto ricevette il Corano sul monte Hira, l’arcangelo Gabriele gli disse porgendogli una pergamena: “Leggi!”, al che Maometto gli rispose: ma aqraw. Questa espressione araba si può intendere sia “non (lā) so leggere” sia “che cosa (lā) leggo?”. La parola araba lā può intendersi sia come negazione sia come pronome interrogativo. I poeti la intesero nella prima maniera, quindi lo prendevano in giro per il suo analfabetismo. Tuttavia, probabilmente Maometto rispose all’angelo “che cosa leggo?”, pertanto non era analfabeta. Tuttavia la diceria del presunto analfabetismo di Maometto penetrò anche nel Corano (7, 157-158).
Inoltre, la poesia è detta in arabo shi’r, da una radice che vuol dire “percepire”: Maometto si considerava l’unico in grado di percepire la vera divinità, quindi si metteva contro i poeti del tempo.
Inoltre il Corano presenta molti punti di contatto con l’Antico Testamento e il cristianesimo, soprattutto quello gnostico. Come? Secondo la tradizione, Bahira è stato un monaco cristiano siriaco che alla fine del VI secolo avrebbe riconosciuto ed educato cristianamente il giovane Maometto, in quanto portatore di un evidente carisma profetico. Bahira avrebbe riconosciuto in Maometto il carisma grazie a un neo tra le scapole.
Nel Corano la maggior parte dei prestiti da altre lingue proviene dal siriaco (che è un dialetto aramaico orientale), tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato una versione originale del Libro Sacro in questa lingua e non in arabo, quest’ultimo sarebbe solo un idioma di traduzione.
Non deve stupire tale grande influenza del mondo siriaco anche nell’Islam. Infatti la chiesa siriaca era importantissima nei primi secoli e non solo: i siriaci arrivarono anche ad evangelizzare la Cina in una attività missionaria intensissima e molte culture del passato vennero influenzate dal cristianesimo siriaco, anche se non tutte si convertirono. Oggi si dice spesso che nel Medioevo si perdette in Occidente la conoscenza dei filosofi greci e furono gli arabi a reintrodurla: questo è vero, ma non si dice che gli arabi stessi conobbero i filosofi greci grazie alle traduzioni siriache, poi rese in arabo. Le grandi scuole islamiche, infatti, erano rette all’inizio dai siriaci. La letteratura siriaca non ha nulla da invidiare a quella greca, latina e araba, anche se è pochissimo filtrata in Occidente. Stesso discorso per la profondissima teologia dei padri siriaci.
Già nella prima sura del Corano, la più importante, compare un probabile aramaismo. Infatti in 1, 2 Allah è detto “signore dei mondi”, in arabo rabbi l-‘ālamīna. Rabbi è “signore”, etimologicamente indica qualcosa di grande, come l’ebraico rabbino. Il secondo termine è stato molto commentato dai filologi perché presenta una difficoltà. Il plurale corretto in arabo classico è ‘aualim, si tratta di un plurale irregolare o fratto, cioè interno, del sostantivo ‘ālam, “mondo”. In ebraico abbiamo ‘ōlam, “mondo” e “lungo lasso di tempo” (ma non “eternità”!), in siriaco ālmā (dove la /ā/ finale è l’articolo), “popolo”, “nazione”, “mondo”, “universo”, “eternità”. Invece nel Corano compare la forma ‘ālamīna (la /ō/ ebraica corrisponde alla /ā/ araba). Il termine ‘ālamīna è un plurale sano o regolare (-ina). In arabo classico solo un 20% circa dei sostantivi ha un plurale sano ed è usato perlopiù per esseri umani e professioni, ma “i mondi” non sono persone. Quindi, per alcuni studiosi, la forma originaria coranica di ‘ālamina doveva essere ‘ālamīn, cioè un plurale aramaico (-īn), solo in seguito arabizzato con la terminazione –ina su analogia dei plurali sani arabi. Secondo altri il sostantivo arabo ‘ālam forse possedeva due plurali: uno fratto e uno sano (e quello sano probabilmente doveva essere una sorta di plurale del plurale, usato dal Corano per enfatizzare i mondi creati da Allah intesi come estremamente imperscrutabili).
La lingua del Corano costituisce l’arabo classico, che ha tre casi. Le persone che nascono in paesi arabofoni non parlano nel quotidiano l’arabo classico, ma uno dei tanti dialetti arabi, che sono senza i casi. I dialetti arabi non sono tra di loro intellegibili. E non possono essere scritti in scrittura araba, in quanto sono bassissimi, volgari, mentre questa scrittura è solo per l’arabo classico, detto fusha. Il termine fusha è un elativo, cioè il grado più alto dell’aggettivo, e vuol dire lingua “eloquentissima” in quanto sacra. Dall’arabo classico nasce quello moderno, che si evolve dal primo a partire dall’Ottocento ed è il linguaggio del giornalismo, dei mass media e della cultura, delle occasioni ufficiali e convenzionali.
Dopo Maometto vi furono 4 califfi detti Ben Guidati o Rashidun, che avevano il rash, cioè l’intelletto: erano cioè adatti a far proseguire la comunità musulmana. Alla morte dell’ultimo califfo, nel VII secolo, vi fu la divisione tra coloro che volevano seguire la sunna del Profeta (cioè la “tradizione” di Maometto) e una piccola fazione che ha seguito Alì, il cugino del Profeta (shi’at Alì, il “partito di Alì”, donde il nome sciiti).
La parola “califfo” vuol dire in arabo “successore”. Il primo califfo fu Abur Bakr, il secondo Umar, il terzo ‘Uthman, il quarto Alì. Dopo Alì si è affermato il califfato omayyade e infine quello abbaside. ‘Uthman prima del 650 ha imposto, tra le varie che c’erano, una sola versione del Corano sulle altre, si tratta di quella commissionata a Zayd bin Tabit, uno scriba del Profeta Maometto. A Zayd il Corano venne commissionato da Abur Bakr. Da questa versione ci giunge il Corano attuale (all’inizio il Corano venne tramandato oralmente, ciò ingenerò varie versioni scritte).
La parola “Corano” è scritta in arabo con la alif madda (qur’ān), la quale deriva dall’incontro di due alif: radice qrā + suffisso –ān. La radice semitica qrā indica molte cose (dire, leggere, recitare, chiamare), invece il suffisso di probabile origine aramaica esprime le cose concrete.
In ogni modo l’etimologia è dibattuta. Dal punto di vista dei teologi musulmani la parola Corano deriverebbe dalla radice araba qara'a col significato di "leggere", da cui il nome verbale qur'ān che indicherebbe la "lettura" o la "recitazione (a voce alta)" del Testo. Dal punto di vista di molti filologi, la parola deriverebbe dall'aramaico siriaco qeryānā, dalla radice qry "chiamare, leggere, invocare, proclamare", col significato di "lettura, invocazione, lezione, studio", ma anche "scrittura sacra", così come riporta Giacomo di Sarug nella sua omelia sulla Creazione (71, giorno 7, 2622). Il lessema siriaco qeryānā è formato dal monema -ān (che costituisce un suffisso per la formazione di parole) e dal monema successivo -ā (che rappresenta l'articolo determinativo enclitico, tipico dell'aramaico). Pertanto, eliminando l'articolo avremmo tale composto: qeryān.
Il Corano è suddiviso in 6236 versetti (ayyat, singolare aya) in 114 capitoli o sure. La radice per sura significa “calare un muro”, la V forma significa “essere circondato da un muro, essere recintato”, la II forma significa “chiudere un appezzamento”. Quindi la sura è un “recinto” di lettura, un “pezzo” di lettura, un recinto sacro dove si inserisce il brano da leggere. La radice semitica è swr, che significa “altura” (accadico ṣurrum), donde il nome della città di Tiro.
Le sure vengono divise in meccane (le più brevi) e medinesi (le più lunghe). Le prime sono state rivelate a Maometto quando questi stava a Mecca, le seconde dopo la fuga a Medina. Le meccane sono brevi perché si tratta di inni e di rivelazioni icastiche su Dio con lo scopo di convertire, invece le medinesi sono più lunghe in quanto Dio rivelò al Profeta come organizzare la comunità. Nel Corano le medinesi sono poste prima e le meccane sono le ultime.
“Inimitabilità” (i’gaz) del Corano. In 17, 88 è scritto: “Se pure si adunassero uomini e jinn per produrre un Corano come questo, non vi riuscirebbero, anche se si aiutassero l'un l’altro”.
Il Corano viene citato in tutte le opere della letteratura araba per dare a queste una garanzia di autorevolezza. Ma il Corano non ama i poeti in quanto il poeta dice cose fantasiose e dire cose che non esistono è una tentazione demoniaca. Lo stesso Maometto fu accusato di essere ispirato da un jinn (37, 36) in quanto si discostava dal politeismo allora imperante nel dire cose innovative che i detrattori ancora non capivano.
L’Islam più antico rifiuta anche le immagini, sia di Dio sia di Maometto. Solo in seguito, i musulmani non arabi, prima i persiani poi i turchi, hanno iniziato a raffigurare nelle miniature il corpo di Maometto (ma non il volto, sostituito da una fiamma). Anche se oggi da qualche parte si dipinge il Profeta, interamente, queste immagini non sono mai ammesse in moschea.
Ogni sura del Corano (tranne la 9) inizia con la basmala (“Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso”) e in seguito ogni opera della letteratura araba (e oggi anche i fumetti) inizierà con questa, tranne le poesie, in quanto tuttora sono considerate prodotti dei jinn, cioè dei diavoli.
Sono stati scritti interi saggi per cercare di capire la differenza tra questi due aggettivi (clemente e misericordioso: raḥmani e raḥimi), e ancora oggi se ne discute, infatti, come diceva il grande filosofo Al-Ghazali, il Corano è un oceano senza limiti. Per alcuni si tratta di due sinonimi, per altri il primo (raḥman) è un sostantivo: gli studiosi sono giunti a tale conclusione osservando come nel Corano il termine in questione è sempre con l’articolo determinativo –al, invece il termine raḥim compare nel Libro sacro soprattutto senza articolo, pertanto quest’ultimo sarebbe un aggettivo concordato con Raḥman. Allora la traduzione sarebbe questa: “Nel nome di Dio il Benefattore misericordioso”. In tal senso Raḥman sarebbe il nome proprio di Dio e potrebbe collegarsi alla forma Raḥmanan attestata nell’epigrafia preislamica dell’Arabia centrale e meridionale. Secondo un’altra ipotesi, Raḥman sarebbe un prestito dall’aramaico (-ān sarebbe il noto suffisso di origine aramaica).
Secondo una tradizione molto antica, tutto il Corano è contenuto nella basmala, tutta la basmala è contenuta nella lettera ba (con cui inizia) e la lettera ba è contenuta nel puntino diacritico sottostante: quindi esotericamente tutto il Corano è concentrato, quasi fosse la totalità della materia primordiale prima della creazione, nel puntino sotto la ba.
Tale immagine potrebbe rappresentare la prima goccia di inchiostro del Calamo Divino (qalam, in 94, 4 e 68, 1) con cui Dio ha scritto gli archetipi di tutte le cose sulla Tavola Ben Conservata (lawh mahfuzin, in 85, 22).
Un’altra curiosità. In arabo la basmala è questa: bismi illah ar-raḥmani ar-raḥimi. Nel testo coranico compaiono tre alif, che segnaliamo in grassetto. Ma ne mancano altre tre. Infatti “nome” in arabo si dice īsm, quindi “nel nome” doveva essere bismi, ma la alif non è segnata. La stessa parola Allah (Illah) doveva avere la alif sopra la lam ma manca, vi è solo il segno della vocale breve /a/. Per finire, la parola raḥmani doveva contenere una alif (per via del suffisso aramaico –ān: raḥmāni) che però manca. I teologi musulmani asseriscono che le tre alif presenti nella basmala indicano il Mondo umano, invece le tre alif mancanti indicano il Mondo divino, che gli uomini non possono comprendere.
Infatti, secondo i filosofi islamici, Allah è “Essere Necessario” (wajib al-wujud), che è e non può non essere: quindi gli esseri non necessari (come le persone), che possono essere o possono non essere, non potranno mai comprendere del tutto Dio.
Dal XI/XII secolo, con le prime invasioni dei mongoli e poi dei turchi, inizia per il mondo arabo un vero e proprio Medioevo, l’arabo classico iniziò a non essere più parlato e venne confinato al Corano, non si produsse più letteratura in arabo, si parlavano solamente i dialetti, insomma un’epoca buia. Dopo secoli, dal 1801, Napoleone ha promosso la stampa in Egitto, l’Egitto è stato il primo paese arabo in cui si cominciò di nuovo a produrre letteratura in lingua araba. Gli intellettuali arabi hanno cercato di riprendere l’arabo classico ma lo pronunciavano alla egiziana (secondo il dialetto arabo egiziano). È un po’ come l’ebraico moderno, che è un adattamento moderno della pronuncia masoretica, che poi non è nemmeno quella originaria (Bibbia). Tra Maometto e la pronuncia odierna dell’arabo vi è un vuoto insanabile, non sappiamo quale sia l’esatta pronuncia della lingua di Maometto.
Nel mondo attuale, per via di quanto successo dal XI/XII secolo in avanti, gli arabi non conoscono la lingua classica ma solo i dialetti. Per saperla la devono studiare, come tutti noi. Il termine ‘irab significa mettere i casi di declinazione (dell’arabo classico) e ha la stessa radice della parola “arabo”. Quindi mettere i casi è parlare arabo classico, quindi comportarsi come un arabo, in quanto i dialetti non sono considerati vera lingua araba. Per un arabo di oggi, se non ha studiato, è difficilissimo fare ‘irab, per via della mentalità, infatti gli arabi non riconoscono il complemento oggetto, lo stato in luogo, e così via.
Nel Medioevo la cultura araba è stata importantissima in tutto l’Occidente, infatti molte parole arabe stanno alla base di quelle italiane.
L’Islam è stato pressoché osteggiato dai cristiani ma non la cultura scientifica e filosofica di origine araba. Pensiamo solo al fatto che il Profeta dell’Islam, che si chiama Muḥammad (in arabo “super-lodato”), viene storpiato in Maometto a partire dalla espressione latina malum mitto (metto il male), donde malo metto, quindi Maometto.
Quando a scuola abbiamo fatto matematica abbiamo sicuramente sentito parlare di seno e coseno. Perché si parla di “seno”? La matematica ha origine in India, dove jiva significa corda, ma, quando questa parola giunge più a Ovest, viene traslitterata in arabo jīb, termine omografo a jayb, che significa golfo, in latino sinus; quando il celebre traduttore dall’arabo al latino Gerardo da Cremona (1114-1187) ha letto i testi arabi di medicina si è confuso tra jīb e jayb, quindi ha reso il primo termine con sinus, cioè “seno”.
Sicuramente Dante, il padre della lingua italiana, conosce la cultura araba, infatti la Divina Commedia si basa su testi arabi che parlano del viaggio di Maometto nel mondo dei defunti, come il Libro della Scala. Il primo studioso a scoprire le convergenze tra la Divina Commedia e le fonti islamiche è stato Palacios nel 1919. Palacios ipotizza che il maestro di Dante, Brunetto Latini, ambasciatore alla corte di Castiglia, abbia portato in Italia traduzioni effettuate a Toledo sotto l'egida del grande mecenate re Alfonso X, detto il Savio, cristiano promotore della conoscenza, anche quella proveniente dal mondo islamico. Per approfondire: D. Capone (a cura di), Dante e la cultura islamica, 2015.
La cultura araba e islamica sono state nel passato assai fiorenti anticipando scienza e umanità. Così come la scienza e la filosofia orientali in genere. La matematica indiana è stata elaboratissima. La filosofia in sanscrito è stata un faro che ha illuminato gli sviluppi successivi in tutto il mondo, essendo di una complessità che fa impallidire la riflessione occidentale, anche se qui è pochissimo conosciuta. Anche in Africa vi è stata cultura raffinata prima della colonizzazione occidentale, pensiamo solo a Timbuktu in Mali, centro di ricerca internazionale assai rilevante dal XIII secolo, ove si è depositata nel corso dei secoli una importantissima biblioteca di 700.000 manoscritti.
Nel canto XXIX dell’Inferno, versi 76 ss, compare la parola “ragazzo”, che introduce nella lingua italiana proprio Dante mutuandola dal termine arabo raqqàs, garzone, il quale corre ballando (infatti la radice araba vuol dire ballare).
L’Islam adora un dio unico (è monoteista, come l’ebraismo e il cristianesimo), ma la parola Allah non è il nome proprio di quella divinità bensì indica “dio” in genere, infatti è formata dall’articolo determinativo al + la radice semitica al/el/il, che oggi vuol dire semplicemente dio. Se andiamo a leggere la Bibbia in maltese (l’unica lingua semitica scritta in caratteri latini) troviamo all’inizio della Genesi: Fil-bidu Alla halaq, “in principio Dio creò”. Quindi nelle lingue semitiche Alla non vuole essere il nome proprio di un dio di una data religione, bensì il termine generico per esprimere il concetto di “divinità”.
Prima dell’avvento dell’Islam (che nasce nel VII secolo d.C. con la predicazione di Maometto), gli arabi erano politeisti credendo che le divinità abitano sotto le pietre. Infatti la pietra adorata è detta betilo, un termine entrato in italiano dalla omologa parola semitica formata da bet + il, che vuol dire casa (bet) del dio (ilah).
La divinità più importante del pantheon arabo preislamico era Hubal, che veniva venerato in una pietra conservata nella Ka’ba (alla Mecca) e tuttora adorata dai musulmani. Per indicare questa divinità più importante nacque la parola Allah, “il Dio”, in quel tempo nel senso di: il Dio per eccellenza.
In latino il pellegrino è etimologicamente colui che gira per le campagne (ire per agros) e si dirige in città presso un santuario. Invece in arabo il pellegrino è detto ḥāgg e il pellegrinaggio ḥag, da una radice semitica comune all’ebraico ḥag, che significa “festa”. Per i musulmani la festa è il pellegrinaggio stesso alla Mecca (uno dei pilastri dell’Islam). Il pellegrinaggio alla Mecca inizia con i poeti preislamici che vi si recavano per fare gare di poesia, poi con l’Islam diviene religioso.
I preislamici che andavano a adorare Hubal in quella pietra e poi i pellegrini musulmani che vanno ancora oggi alla Mecca girano attorno alla Ka’ba: tutti i semiti antichi si evolvevano attorno alla statua del dio. Salmo 25 (26): “Lavo nell'innocenza le mie mani e giro attorno al tuo altare, o Signore”.
Nella scrittura araba odierna la grafia di Allah è arcaica. Precisamente deriva dall’articolo al + ilah. Ilah è una espressione della radice semitica al/el, ma ilah è una forma arcaica per indicare “divinità”. L’arcaicità sta nel suffisso –ah (in ebraico la forma ‘El è recente, infatti non ha più il suffisso –ah). Nella scrittura dell’espressione al + ilah, la alif si mantiene, la lettera /l/ dell’articolo (al) si contrae con la lettera /l/ del nome ilah e nasce una strana /l/ con le corna verso l’alto; la alif iniziale del nome ilah non viene perduta ma si inserisce sopra la strana /l/ con un piccolo trattino (il quale quindi non esprime la /a/ breve). Sopra la strana /l/ c’è lo shadda, che indica il raddoppiamento della consonante (A-ll-ah). Inoltre lo shadda conferisce alla doppia /l/ una pronuncia enfatica (ma solo qui).
A sua volta il sostantivo ilah è un nome verbale proveniente dal verbo alaha "adorare", con il significato di "(oggetto, idolo) da adorare e servire" (soprattutto in epoca preislamica). Il sostantivo ilah ha un suo plurale che è alaha, applicato alle divinità delle religioni politeiste.
Ci sono tracce della credenza delle divinità anteriori all’Islam persino nel Corano. Anche nella Bibbia ci sono tracce di monolatria, cioè la credenza in più divinità sottomesse a un Dio supremo al quale va la adorazione. Infatti il termine ebraico ‘Elohim è un plurale maschile attribuito sia alle schiere di divinità sia al Dio unico. È un po’ come le credenze del popolo igbo della Nigeria meridionale (chiamate “odinala”) per le quali esiste un Dio supremo e creatore di tutto e molti spiriti a lui sottomessi, i quali anzi costituirebbero gli elementi di cui è composto. Però in seguito sia nella Bibbia sia nel Corano si afferma senz’altro il monoteismo più intransigente. Alcuni hanno parlato di un monoteismo originario anche per la religione egiziana, infatti la parola egiziana per dio è neter, che all’origine veicola l’idea di principio e anche di funzione: Dio è il principio assoluto da cui tutto promana e in funzione del quale tutto sussiste. Pare che tracce di monoteismo ci siano anche nella religione celtica. È discusso se il mazdeismo, la religione iranica, sia o meno monoteista.
In ebraico il tetragramma YHWH è impronunciabile, al suo posto nella lettura della Bibbia ebraica veniva usata la parola Adonay. Il termine Adonay deriva dalla divinità greca Adon, che divenne poi una divinità palestinese per poi passare a significare in ebraico “signore”. Adonay è filologicamente un plurale e significa “miei signori” (-ay è la marca del possessivo plurale), ma viene inteso “mio signore” (anche ‘Elohim è un plurale, -im è la marca del plurale ebraico, ma applicato a Dio risulta singolare). Ad un certo punto della storia qualcuno mise le vocali di Adonay sotto le consonanti YHWH e nacque la parola Geova, ma Geova non esiste nella realtà della storia della lingua.
Il complesso linguistico arabo è formato dalle varietà parlate e anche dalla cosiddetta arabiyya che in realtà, per quanto lingua divina, ha due varianti utilizzate nel linguaggio umano: l’arabo classico e il modern standard arabic. Secondo Retzo, queste lingue hanno tutte origine nella penisola arabica, invece secondo la Giolfo no perché, in quanto lingua divina, fusha, non può essere nata nella penisola arabica.
Attraverso delle ondate di migrazione e di conquiste, le lingue parlate nella penisola arabica si sono poi diffuse anche in altri paesi che non avrebbero avuto nessun legame con la penisola araba.
Se dovessimo analizzare le caratteristiche comuni all’arabo e ad altre lingue semitiche, ci renderemmo conto che l’arabo può essere considerato semitico in quanto non ci sono sostanziali differenze con le altre lingue, ad esempio, abbiamo la presenza del
plurale fratto, dell’articolo definitivo, delle interdentali, delle enfatiche e la presenza, inoltre, della nona forma verbale.
Se dovessimo cercare delle caratteristiche comuni tra i vernacoli e la lingua classica e standard (arabo fusha) non possiamo trovare delle caratteristiche comuni. Secondo un pensiero tradizionalista, i dialetti derivano dall’arabiyya e semplicemente l’arabiyya aveva delle caratteristiche particolari come la presenza della flessione nominale che poi i dialetti avrebbero perso. Il pensiero dei tradizionalisti però non può essere considerato corretto in quanto non spiega in che modo una lingua parlata all’interno della penisola arabica sia potuta arrivare a paesi che non avrebbero avuto nessun altro legame (formando in quei paesi i vari dialetti), inoltre, la lingua fusha e i dialetti sono sempre stati due fenomeni diversi: quindi non si tratta semplicemente della scomparsa di caratteristiche proprie della fusha ma in realtà ci sono proprio delle differenze tra i vernacoli e l’arabiyya.
Secondo Retzo, l’arabiyya è l’unica cosa che in qualche modo deve essere espulsa dal complesso delle lingue arabe perché è l’unica che ha delle caratteristiche che tutto il resto non ha e è l’unica lingua in cui però in realtà si riconosce la civiltà arabo-islamica.
La tradizione linguistica araba va dal VII al XIV secolo ma di solito viene riservato una spazio molto esiguo nella storia della linguistica perché è poco apprezzata in quanto i filologi di tutto il mondo studiano la produzione letteraria araba ma è molto raro che si vadano a confrontare con la letteratura grammaticale. Il motivo principale di questo poco apprezzamento ricade sugli arabisti proprio perché non si sono dati allo studio della letteratura grammaticale che forse era troppo difficile. Inoltre per leggere tale letteratura grammaticale bisogna partire dalla convinzione che sia adeguata per descrivere l’arabo, e non soltanto teoria e divagazioni filosofiche sulla lingua araba.
Ciò che è veramente originale nella tradizione linguistica araba è che questi grammatici arabi sono riusciti con mezzi che si sono procurati da soli a definire concetti relativi alla lingua ma che hanno
organizzato in un modo particolare. E ciò ha lasciato dubbiosi gli studiosi di tutto il mondo, abituati meglio ai canoni linguistici stabiliti dalla tradizione grammaticale indiana e greco-latina.
I testi grammaticali arabi sono tecnici, non di facile lettura, abbisognano di una vera e propria iniziazione, difficile da trovarsi fuori dal mondo arabo. I metodi che vengono usati da questi grammatici più antichi rivelano che la grammatica degli arabi non si riesce a spiegare nei termini della linguistica contemporanea.
Il primo trattato di linguistica araba è quello di Sybawayhi (Al-Kitab, 5 volumi) ed è un’opera che tratta tutti i fenomeni linguistici dell’arabo e li caratterizza in maniera esaustiva. La civiltà araba aveva già un testo che definiva la religione (Corano) quindi aveva bisogno di un testo che definisse la lingua. Questo libro è il primo tentativo di giungere alla descrizione di semantica, fonetica, fonologia, sintassi (scienze letterarie).
Invece il primo grammatico della lingua araba in senso stretto è stato Abu Asswad Ad’duali, morto nel 688. Altre opinioni ritengono che la grammatica sia stata inventata da Abd Allah Ibn Abi Ysaq morto nel 734, egli fu il primo che riuscì a suddividere formalmente la grammatica in più branche.
La strutturazione del pensiero grammaticale arabo è stata molto veloce e secondo alcuni studiosi le ragioni di questa celerità sono da individuare in cause esterne alla cultura araba. Secondo alcuni questa influenza estranea è individuata nella logica aristotelica mentre per altri la causa di questa velocità è caratterizzata dal diritto islamico. Per altri ancora è da rintracciarsi nella grammatica stoica. In realtà ciò che è importante capire è che il pensiero grammaticale arabo è del tutto originale e che non ha niente a che fare con il pensiero aristotelico o la grammatica stoica.
Lo sviluppo di un modello canonico grammaticale avverrà solo nel X secolo. Per modello canonico si intende un pensiero grammaticale che si presenta codificato e sistematico in cui nessun fenomeno è escluso e tutti fenomeni sono spiegati. Sibawayhi ha cercato di spiegare tutto in maniera esaustiva ma la sua trattazione non è sistematica. Il primo esempio di teoria grammaticale canonica è del X secolo e è rappresentata da Al Kitāb Al Usūl Di Ibn al Sarrāg.
La scuola di Kufa e la scuola di Bassra erano i centri principali per lo studio all’epoca dell’Islam, soppiantati da Bagdad successivamente. Sembra che queste due scuole avessero opinioni differenti su alcuni fatti grammaticali. In realtà la differenza sta soprattutto nella sequenza di trasmissione e non nella dottrina, infatti le due scuole non erano dottrinalmente diverse. Il leader della scuola di Bassra era Al-Mubarrad, mentre quello della scuola di Kufa era Ta’lab; sembra che la scuola di Bassra fosse ad un livello più alto in realtà questo è dato dal fatto che i discepoli di questa scuola arrivarono prima ad una sistemazione di una teoria grammaticale.
La scuola di Kufa si basava sul ‘sentito dire’; la scuola di Bassra si basava sulla razionalizzazione del linguaggio.
Ciò che induce i grammatici arabi ad esplicitare i principi della grammatica araba è stata probabilmente la logica aristotelica. La logica aristotelica si basava sull’analisi di principi universali, gli arabi si resero conto che se avessero analizzato le regole generali del linguaggio si sarebbero posti allo stesso livello dei greci creando così una logica diversa che andasse ad analizzare i principi fondamentali della lingua araba.
In questo periodo si sviluppa un contrasto tra filosofia e grammatica. La filosofia coincide con la logica aristotelica. La logica aristotelica si interessa al linguaggio solo in quanto mezzo con cui esplorare le verità assolute e non si interessa alle singole lingue. La grammatica, invece, si interessa allo studio della lingua araba. I filosofi sostengono che i grammatici si occupino della descrizione delle lingue, della forma ma non del significato. Per questo motivo i grammatici vengono considerati inferiori rispetto ai filosofi, i quali considerano la lingua araba una lingua comune. La prospettiva dei grammatici invece è ovviamente molto diversa, la lingua che essi illustrano non è una lingua tra le lingue, ma la lingua del Corano, quindi una lingua sacra.
La tradizione grammaticale araba per rispondere al deprezzamento della grammatica fornisce due risposte: la prima risposta si identifica nel termine “usul” (principi o fondamenta) in cui l’intento dei grammatici è quello di rendere noto i principi che fondano le regole grammaticali e rendere le regole grammaticali codificate sistematicamente.La seconda risposta si identifica nel termine “ilal” che significa invece spiegazione o cause, in questo processo i grammatici decidono di rendere note le cause e i fatti linguistici che rendono la lingua araba così particolare.
Ricordiamo che la grammatica araba nasce nel mondo beduino, quindi la maggior parte dei termini ricorda elementi concreti della vita del deserto. Pensiamo al nome dei casi:
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Il nominativo è detto in arabo marfuh, dalla radice che significa “erigere, innalzare”, la /m/ iniziale è la marca del participio, quindi marfuh significa “ciò che è innalzato”, come un palo o una bandiera, in quanto il nominativo sta al primo posto nella frase;
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L’accusativo è detto mansub, da una radice che significa sempre “erigere, innalzare” ma in un senso inferiore rispetto a marfuh, in quanto l’accusativo segue il soggetto;
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Il caso obliquo è detto magrub, “trascinato”, in quanto si porta dietro tutti i complementi (il caso obliquo esprime tutti gli altri complementi).
Significative anche le vocali brevi:
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La a breve è detta fatha, dalla radice di “aprire”, in quanto è la prima vocale;
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La u breve è detta damma, dalla radice di “includere”, per indicare la chiusura della bocca nella pronuncia;
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La i breve è detta kasra, dalla radice di “rottura”.
Come vediamo anche dal nome delle vocali, i beduini avevano necessità di concretizzare i concetti con espressioni prese dalla vita quotidiana. Così pure avviene con le persone dei verbi: le prime persone sono dette “narratore”, le seconde persone sono dette “interlocutore”, le terze “assente”.
L’alfabeto arabo ha 28 lettere, le quali hanno ciascuna 4 forme (iniziale, mediana, finale, isolata) con leggere modificazioni. Presenta tre vocali lunghe. Invece le tre vocali brevi non sono indicate dall’alfabeto bensì da altri segni, posti sopra o sotto le lettere alfabetiche.
La prima lettera dell’alfabeto arabo si chiama ALIF. Anticamente vi erano due sistemi di scrittura: quello mesopotamico (cuneiforme) e quello egiziano (geroglifico), senza che un unico segno indicasse un solo suono, ma in entrambi i sistemi un segno indicava più suoni. Invece si parla di alfabeto per quel sistema di scrittura per cui un segno indica un solo suono. L’alfabeto viene inventato dai fenici. Prima ancora di questa invenzione, i fenici erano impiegati dagli egiziani a lavorare nelle miniere di turchese della penisola del Sinai, dove sono state rinvenute le cosiddette iscrizioni protosinaitiche (XIII secolo a.C.), le quali dovrebbero essere scritte in una sorta di alfabeto molto primitivo derivato dal geroglifico: nelle iscrizioni protosinaitiche un singolo pittogramma (immagine stilizzata di una cosa) indica un solo suono. La prima lettera di questo sistema di scrittura era il bue, che in semitico è detto ALEF. Il fenicio che ha inventato l’alfabeto vero e proprio, scrivendolo da destra a sinistra, si basò sulle iscrizioni protosinaitiche e adattò la testa del bue per indicare la alef, il primo segno dell’alfabeto fenicio. Chi ha inventato l’alfabeto arabo fece la stessa cosa e da un trattino che formava la testa del bue formò in arabo un tratto verticale detto alif. Quando i greci videro per la prima volta un elefante, lo scambiarono per un grosso bue e lo chiamarono elefas (“elef-“ sarebbe l’esito del semitico alef, bue).
Gli studiosi hanno dibattuto il perché il primo alfabeto era da destra a sinistra. Forse chi lo inventò era mancino. Per altri, sarebbe dovuto al semplice fatto che, scrivendo da destra a sinistra con la mia mano destra, ho costantemente sotto gli occhi la superficie su cui sto scrivendo, e in questo modo riesco a gestire meglio lo spazio. Inoltre, essendo i primi caratteri protosinaitici incisi su pietra, il problema di sporcare la superficie con l'inchiostro non si poneva. Del resto, è stato osservato che i mancini, essendo costretti ad usare la sinistra, quando scrivono in italiano (e quindi da sinistra a destra) tendenzialmente scrivono con meno ondulazioni dei destrimani, i quali, coprendo la pagina con la mano destra, non hanno a loro volta una visione completa dello spazio.
L’arabo ha anche alcuni segni non alfebetici, per esempio quelli delle tre vocali brevi e la Hamza (‘). La Hamza è il colpo di glottide, un suono gutturale che si appoggia alla lettera alif. Lo abbiamo pressoché anche in italiano, quando diciamo “Andrea”: la /a/ di questo nome proprio è diversa dalla /a/ di medicina in quanto Andrea ha il colpo di glottide. La Hamza è un residuo dell’arabo della poesia preislamica: nel loro quotidiano i poeti parlavano suddividendosi in due macroaree, per esempio alcuni dicevano la parola “testa” raz (r, alif, z), altri invece r’z (r, Hamza, z), quindi nella loro poesia fecero un compromesso e iniziarono a usare la Hamza appoggiata alla alif.
Nel protosemitico il verbo aveva tre modi:
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Yiqtul (yi- è il prefisso maschile, la radice qtl significa “uccidere”): serviva a formare il perfetto (ha ucciso)
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Yiqtulu: per l’imperfetto (uccide)
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Qvtl: (dove la v è il simbolo di una qualsiasi vocale) per il permansivo o stativo, che esprime una qualità dell’aggettivo e del sostantivo (colui che uccide).
Quindi il protosemitico non aveva il futuro, esattamente come nell’indoeuropeo.
Dal permansivo si formò questa costruzione: *qabad anaku, “pesante io” diede origine al perfetto *qabaki, “io sono pesante”. Quindi è dal permansivo che nelle lingue semitiche è derivato il perfetto come coniugazione a suffissi (a discapito del yiqtul), invece come abbiamo visto nel protosemitico perfetto e imperfetto erano a prefissi.
Soltanto la lingua araba (e l’accadico) ha fissato il yiqtul del protosemitico per il perfetto ma unicamente in unione con la particella negativa lam. Quindi in arabo troviamo un perfetto con prefisso (assieme a lam, che indica la negazione nel passato), si tratta di forme cristallizzate. Lam yadkur significa “egli non ha ricordato”.
In arabo l’imperfetto finisce sempre per –U poiché l’arabo, che è una lingua assai conservativa, rispecchia l’antica vocale dell’imperfetto del protosemitico.
Che l’arabo sia conservativo si vede anche dal plurale sano o regolare. In arabo il plurale dei nomi si fa soprattutto alterando il nome all’interno (è il plurale fratto o irregolare, del quale ci sono circa una quindicina di forme), invece in pochissimi casi si forma aggiungendo un suffisso, diverso da nominativo e gli altri due casi: muhallimu, “professore”, muhallim-una, “professori” (nominativo), muhallim-ina (accusativo e genitivo). Alcune lingue semitiche come l’arabo finiscono per –N (nunazione), altre per –M (mimazione, come l’accadico e l’ebraico). Il suffisso arabo del plurale maschile –ina corrisponde a quello ebraico –im, solo che in arabo vi è la nunazione e in ebraico la mimazione. Originariamente in ebraico (e in protosemitico) doveva essere –*uma, -*ima, poi la vocale -a si è persa in ebraico ma l’arabo la ha ripristinata in quanto è una lingua conservativa. Anche nei dialetti arabi moderni la –a finale del plurale regolare maschile si perde.
L’arabo ha ripristinato anche i casi, che si perdettero dal I millennio a.C. nelle altre lingue semitiche.
Un’altra differenza tra arabo e ebraico è che la /a/ lunga della prima lingua corrisponde alla /o/ lunga dell’ebraico. In arabo abbiamo rāz, “testa”, invece in ebraico abbiamo rōsh. Sempre per questa ragione il plurale regolare femminile arabo si forma con il suffisso –ātu, -āti, invece in ebraico abbiamo –ōt.
La cosa più importante che Dio ha dato agli uomini è il Libro Sacro, il Corano. Le parole arabe del Corano devono avere meno spazi vuoti possibile per non far entrare il diavolo, se per esempio una frase è più breve della linea si allunga la lettera finale per coprire lo spazio vuoto (proprio per questo il Corano deve essere tenuto chiuso).
Questa importanza tributata al Corano indica il ruolo capitale che la religione ha nei paesi musulmani. Il versetto più importante del Corano è 1, 4, dove Allah è definito “il re del giorno del giudizio”, in arabo māliki yawmi l-dīni. La prima parola significa “re”, etimologicamente il verbo arabo malaka, da cui deriva maliki, significa “possedere”: chi possiede le terre, ne è il sovrano. È interessante la parola din. Il senso proprio è “giudizio”, così come din significa “giudizio” in aramaico, dal verbo dwn, “giudicare”. La stessa radice compare nel libro biblico di Ester, nella parola ebraica dat, che significa “ordinanza” (1, 8), “legge” (3, 8), “ordinanza riguardo le donne” (2, 12). In arabo la città Medina indica il luogo dove Allah giudica. Nel mondo musulmano solo Dio è il giudice degli uomini. Ebbene, il termine arabo din passa in un secondo momento a indicare “religione”, perché è Dio che giudica gli uomini attraverso il precetto religioso che Egli dona nel Corano.
Vista questa grande importanza del Corano, esso non si può cambiare! Facciamo un esempio. Nella recitazione coranica orale il pronome dimostrativo femminile arabo “questa” era *HādiHi, con la alif. Tale parola è formata da Hā- + diHi, dove la prima parte è la determinazione (come l’articolo ebraico ha-) e la seconda parte è il dimostrativo, che deriva dal *d protosemitico, che ha dato luogo anche all’aramaico den e all’ebraico zhe, oltre che alla particella aramaica dy. In seguito chi ha messo per iscritto il Corano ha compiuto un errore; costui non aveva molta dimestichezza con la scrittura, quindi vergò: H-di-Hi, omettendo la alif. Qualcun altro si accorse dell’errore, ma NON POTEVA cambiare il Testo sacro, quindi anziché aggiungere la alif nella parola mise un segno sopra la H, cioè una /a/ breve al posto della alif. Pertanto oggi nel Corano il pronome “questa” è così: HadiHi.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 51 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.
Libri pubblicati da Riflessioni.it
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