Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Note di filologia neotestamentaria
di Marco Calzoli - Novembre 2024
Blass e Debrunner osservano che, per l’uso della lingua greca, “il più negligente è l’autore dell’Apocalisse, i più accurati sono Luca e l’autore della Lettera agli Ebrei“(1).
Quando si fanno considerazioni stilistiche in genere non è sempre possibile ottenere risultati da tutti accettati. Tuttavia si concorda, nel panorama degli studi contemporanei, nell’attribuire a Luca e all’autore della Lettera agli Ebrei il greco più elegante e sofisticato del Nuovo Testamento. Dato che questo greco è a tutti gli effetti koiné ellenistica, anche gli autori appena evocati scriveranno in una lingua della decadenza, intarsiata dei fenomeni degenerativi (che la allontanano dal greco classico) e, in particolar modo, di semitismi, derivanti dalla mentalità, dalla lingua allora comunemente parlata, e finanche dalle fonti, aramaiche, onde attingevano. Non solo, ma il fatto di non avere pretese letterarie (mettiamo, come Polibio o Plutarco o Filone o Giuseppe Flavio )(2), perché il loro scopo primo era di farsi capire per tramandare il nuovo messaggio, ci fa inferire che “gli Apostoli dovettero usare –si può ammettere a priori, considerando il loro scopo – quel greco che era costume usare, scrivendo, nella buona società d’allora e che doveva essere lo stesso su per giù dappertutto, presso a poco come noi parliamo e scriviamo l’italiano nelle varie regioni della Penisola, non ostante le varietà dei dialetti italici“(3), senza che vi fosse traccia alcuna della cultura classica propriamente detta(4).
Pertanto non dobbiamo aspettarci la lingua raffinata di un atticista né, per quello che poteva essere, di un Giuseppe Flavio, come si è detto. Però è fuor di dubbio che, rispetto a questa linea ideale di stile, a questa applicazione (“parole“), che definiamo “generale“ della “langue“ ellenistica, del sistema linguistico del periodo tardo, gli autori dovettero tralignare singolarmente.
Così, fra i Vangeli, quello di Luca (che è il più lungo, composto da 19.404 parole con 2.055 vocaboli diversi; gli Atti invece hanno 18.374 parole) è senza dubbio il migliore. Naturalmente a ciò è concorsa la cultura personale, perché Luca (così come Paolo, della profondamente ellenizzata Tarso e consumato negli studi ), medico di professione, era sicuramente ben ellenizzato essendo siro-antiocheno. Scendendo nel particolare, dal Vangelo di Luca spicca, oltre alla terminologia ricca e varia (nonché letteraria: παρέδοσαν in 1, 2 e κράτιστε in 1, 3) e all’uso dell’ottativo (le più numerose testimonianze del modo verbale all’interno del Nuovo Testamento sono proprio di Luca(5)) soprattutto il cosiddetto “periodo“ (cioè la combinazione di un certo numero di frasi in un’unità organica e ritmica, cioè in modo tale che queste siano disposte in parallelo, sinonimico o antitetico), tipico della prosa artistica del greco elevato (cioè, secondo la funzione poetica di R. Jakobson, che pone l’accento “sul messaggio per se stesso“, ovvero che vuole non solo dire ma anche piacere”): per esempio, in 1,1-4 c’è parallelismo fra πολλοι επεχείρησαν e έδοξε καμοι, fra ανατάξασται e γράψαι, fra καθως e “ινα. Cosa che si ritrova anche in Atti 15,24-26.
Il Vangelo di Matteo è scritto in un greco tanto intarsiato di semitismi e di citazioni veterotestamentarie che si è pensato che sia una traduzione di un originale ebraico (così testimoniava il vescovo di Hierapolis Papia), tuttavia l’ipotesi sembra oggi scartata. In realtà, il greco di Matteo, composto di 18.278 parole, con 1691 vocaboli diversi, di cui 151 ricorrono solo nel suo Vangelo, è una lingua abbastanza scorrevole, con una terminologia a volte sofisticata (per esempio, παλινγενεσία in 19, 28) e un periodare piuttosto articolato.
Al contrario del Vangelo di Marco (il più corto, formato solo da 11.229 parole), che procede con uno stile essenziale e spezzato, dominato pesantemente dalla paratassi (è un susseguirsi di καί e νυν). Mentre Matteo ha un linguaggio corretto e regolare, Marco incorre spesso in errori, relativi soprattutto alla non continuità nell’uso dei tempi verbali. Il lessico presenta molti latinismi. Dimostra una vera incapacità a elaborare la materia letteraria(6), anche se i racconti sono molto spesso pittoreschi, in maniera maggiore rispetto a quelli dei sinottici (pensiamo soltanto alla Trasfigurazione, 9, 2-12, nel quale si dice che le vesti di Gesù “divennero splendenti e talmente candide che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così candide “, v. 3 ).
Il Vangelo di Giovanni, composto di 15.416 parole, di cui 1011 termini diversi, presenta una sintassi semplice (che ricorre spesso a strutture paratattiche ma parallelistiche, così da creare antitesi e comparazioni; ricorre anche all’asindeto fra frasi nelle sezioni narrative, diversamente dai Sinottici(7); peculiare inoltre “the use of καί in contrastated statements”(8)). La peculiarità del greco adoperato sta soprattutto nella semantica: il lessico, infatti, intarsiato di semitismi, è quasi tecnico ed altamente specifico. Leggere il Vangelo di Giovanni equivale ad immergersi in un mondo profondo e teologicamente denso (tanto diverso quindi dai Sinottici per contenuti ed esposizione). Il forte afflato intellettuale si esprimerebbe per alcuni anche con un lessico tipico del pensiero greco (λόγος, αλήθεια, πνεύμα, γιγνώσκω) : tutto questo ha portato a pensare che l’autore si sia rivolto al mondo greco (Bultmann, Dodd). Tuttavia una più profonda analisi del Vangelo mostra che ci sono ventuno citazioni esplicite dell’Antico Testamento, insieme a un numero elevatissimo di allusioni, riguardanti anche una tradizione ebraica settoriale come quella testimoniata dai testi di Qumran. Quindi anche il lessico, che, all’apparenza, si collega al mondo greco, deve essere compreso in chiave semitica: anche se gli stoici si riferivano al λόγος come potenza creatrice, un tale valore è presente soprattutto nella cultura mediorientale (nel prologo c’è addirittura un esplicito richiamo ai primi versetti della Genesi dove “Dio disse: Vi sia la luce. E la luce fu “, 1,3 ); la “verità” è soprattutto il messaggio di Cristo che necessita di adesione ; “conoscere“ riflette il verbo semitico equivalente che indica anche amore, fedeltà, intimità. Veramente interessante che l’incarnazione del Verbo (1, 14) è descritta da εσκήνωσεν, “attendarsi“, con un’allusione alla tenda (σχηνή) del Tempio, creando pure forse un gioco di parole fra le consonati s, k, n del verbo greco e la radice del termine ebraico “shekinah”, che indica la presenza divina nel tempio. Il Vangelo di Giovanni è un testo estremamente originale, con un linguaggio specifico (nonostante la povertà lessicale di cui supra), dipendente molto dal sostrato semitico: σάρξ indica prettamente la “fragilità“ umana, secondo un valore del termine ebraico corrispondente, basar; οι Ιουδαίοι assumono spesso una caratterizzazione metastorica per indicare in genere il male che si oppone sempre a Gesù; distinzione fra ο υιός (Cristo, figlio di Dio per eccellenza) e τα τέκνα (gli altri uomini); κόσμος indica spesso il “mondo“ come entità negativa che si oppone a Cristo; μένειν indica il “rimanere” ma come unità assoluta e perfetta; μισειν indica l’”odiare“ nel senso di ogni forma di opposizione verso Cristo e i cristiani; ώρα è il momento della passione, morte e glorificazione di Cristo; δόξα è la “gloria” che Cristo assume già nel momento della croce (per questo si giustificano i termini regali che intarsiano il racconto della passione e morte di Gesù e anche l’uso particolare del verbo υψουν, “innalzare“: “E quando io sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me“ Gv 12, 32 ); “bel pastore“ (10,11) perché l’aggettivo καλός traduce l’ebraico tob, “bello, buono “; αγαπαν è il tratto distintivo del cristiano; ψωμίον, “boccone “, è usato in 13, 26-30 fortemente connotato, secondo alcuni, in base all’usanza di dare all’ospite il “boccone dell’ospitalità“, cioè il cibo migliore della casa (Gesù allora riverserebbe su Giuda tutto il suo amore), secondo altri, in base all’usanza di intingere le erbe amare nella salsa durante il banchetto pasquale, secondo altri ancora, in base al fatto che con questo termine la comunità delle origini indicava l’eucaristia; μιμνέσκειν significa capire il senso profondo degli avvenimenti di Gesù, quindi “credere“; distinzione fra αποστέλλω e πέμπω, perché il primo verbo è usato da Gesù quando egli vuole dire che è inviato sotto la totale responsabilità del Padre (basandosi sulla figura giuridica del tardo-giudaismo della saliah, per la quale inviato e inviante sono la stessa cosa), mentre il secondo sottintende che il Padre partecipa solo nell’atto dell’invio; distinzione fra εις e εν: la prima indica presenza in un luogo non staticamente, ma dinamicamente come apertura (1, 18: Gesù è nel seno del Padre, in rapporto interpersonale), la seconda si riferisce anche allo spazio mistico-religioso; εγώ ειμι: dato che è la traduzione che la Septuaginta ha fatto del nome divino (come in Isaia 43,10), sembra che è usata da Giovanni, in senso assoluto, per sottintendere che Cristo si attribuisce lo stesso nome (cioè persona, essenza) di Dio Padre, invece, insieme a dei titoli (ad es., “io sono il pane“, 6, 35 ), per formare delle “formule di rivelazione“ con una siffatta reminiscenza veterotestamentaria; uso originale dei verbi del vedere, ognuno dei quali assume una particolare connotazione. L’elenco dei termini notevoli potrebbe proseguire a lungo.
Tuttavia finiamo con il notare che l’autore del Quarto Vangelo adotta rispetto la vicenda di Gesù delle prospettive particolarissime: per esempio sembra che ammicchi a una specie di processo che il “mondo” fa verso Gesù e i cristiani (Bultmann(9) nota che già nel prologo l’uso del verbo παραλαμβάνω, termine giuridico, in “i suoi non l’accolsero“, 1, 11, allude a tanto; pensiamo poi allo Spirito Paraclito – παράκλητος si riferisce alla funzione dell’avvocato difensore – che Gesù invierà in difesa dei cristiani ).
Le lettere paoline (fatta eccezione per le lettere pastorali e per la Lettera agli Ebrei) sono considerate al vertice espressivo della letteratura cristiana antica greca (come ultima testimonianza di valore della letteratura greca antica) proprio per quel loro stile impetuoso e veemente – molte volte non attinente alla lingua “corretta”, discostandosi dalle regole grammaticali nude e crude – pronto a forzare (a rigore) il greco per ottenere una maggiore carica semantica. Già Girolamo notava che Paolo non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto, mentre Renan osservava che era “impossibile violare più arditamente il genio della lingua greca di quanto abbia fatto Paolo“: tuttavia, ed è questa la cosa straordinaria, non si ha mai il senso della sciatteria, perché il pathos comunicato è di gran lunga superiore. Basterebbe soltanto ricordare il verbo υπερπερισσεύω (Lettera ai Romani 5, 20), che Paolo conia come una specie di solecismo, perché è una sorta di comparativo del superlativo: περίσσωμα è la “eccedenza“, a cui Paolo aggiunge υπέρ; non solo, ma Paolo mette il verbo in opposizione, nella pericope testé indicata, con il verbo πλεονάζω, che indica pienezza. Sempre nella stessa lettera (8,19) pensiamo anche a due altri neologismi molto espressivi, che conferiscono al brano un’inevitabile cambiamento di tono, di contro alle regole dell’uniformità di registro: αποκαραδοκία (καραδοκέω significava di per sé “aspettare con attenzione“ , con la faccia, κάρα, rivolta: Paolo ci mette qualcosa in più, perché από indica quasi l’azione di chi alza ancor più il viso per vedere meglio, spostandosi dalla postura solita) e απεκδέχομαι (cioè “attendere“ + από, quasi, ancora, con il capo eretto a scrutare l’orizzonte(10)). Inoltre, da notare che, se Paolo risulta aver un numero minore di semitismi(11) rispetto agli altri scritti neotestamentari, tuttavia presenta molti anacoluti proprio per la foga del suo pensiero che non trova mai un approdo degno dell’ardore che lo anima (solo per indicare qualche passo: Lettera ai Romani: 2,17 ss; 5,12; 9,22-23; 16,25-27; Prima Lettera ai Corinzi: 12,2; Seconda: 12,17; Lettera ai Galati: 1, 20; 4, 24-26; Lettera agli Efesini 3, 1). Questi tratti di vivacità che abbiamo brevemente richiamato, erano sicuramente funzionali alla predicazione orale, così come l’uso della prima e della seconda persona singolare “per presentare in modo vivo qualcosa di valido in generale con l’esempio di un singolo, pensato, per così dire, come presente“ (caratteristica del greco postclassico)(12) e la presenza molto frequente di incisi (che allentano il ritmo del fraseggiare). Paolo scrive, però, anche un greco molto raffinato, con un ordine delle parole elegante e veramente oratorio (pensiamo soltanto a tratti come la variazione della congiunzione della proposizione subordinata(13) e a tratti tipici della retorica e dell’oratoria antica come l’asindeto del periodo(14), l’ironia(15), la litote(16), la preterizione(17), la traductio(18), procedimenti come la prodiorthosis(19) e la epidiorthosis(20)), mentre qualcuno ha anche parlato di collegamenti con la predicazione degli stoici e dei cinici(21). Veramente notevole, inoltre, la pericope della Lettera agli Efesini 4,6, che risulta avere una costruzione e una densità paragonabili alle pagine filosofiche di Platone o Aristotele: εις θεος και πατηρ πάντων, ο επι πάντων και δια πάντων και εν πάσιν .
Le lettere pastorali si discostano dalle paoline testé richiamate, per una lingua molto più piana e scorrevole, anche se, vuoi la imitazione dello stile o anche di parole di Paolo, vuoi – in conformità all’opinione che ritiene le presenti lettere scritte da un Paolo invecchiato e disincantato – la ripresa da parte di Paolo di alcuni suoi modi di scrivere precedenti, si incontrano, raramente, alcune forme particolari, come, nella Prima Lettera a Timoteo 1, 14, υπερπλεονάζω (già il verbo senza υπέρ indica la pienezza, è già, insomma, una forma superlativa, che, di norma, sarebbe sbagliato modulare in grado maggiore ).
La Lettera agli Ebrei “rimane uno splendido modello di magniloquenza greca per movimento oratorio; e lo sarebbe quanto alla forma, se non fosse troppo impregnata di citazioni e reminiscenze dei Settanta“(22). Per Blass è l’unico esempio neotestamentario di prosa artistica autentica, cioè che vuole piacere, oltre che insegnare, anche se disposizioni simili si riscontrano particolarmente nella Lettera ai Romani , nella Prima ai Corinzi, in Matteo (mentre negli altri scritti solo in qualche occasione) (23). Il cosiddetto “periodo” è una costruzione che si ritrova soprattutto nella Lettera agli Ebrei. Consideriamo soltanto 1, 1-4: 1 e 2a formano un classico periodo bimembre (λαλήσας e ελάλησεν che si corrispondono) con alcuni elementi slegati, cioè il periodo quadrimembre del v.3 e quello bimembre del v. 4 (notiamo poi la particolarità del v.2b, cioè l’uso anaforico e con asindeto del relativo) (24). Del resto, tutta la lettera procede con questo stile veramente sinfonico. Compaiono anche esempi di uno stile molto curato come la posizione iperbatica del sostantivo da evidenziare (messo all’ultimo posto, quello “tipico” del verbo )(25). Addirittura l’autore è attento a una finezza come quella di evitare lo iato (incontro di vocali alla fine o all’inizio di parole contigue) poiché questo fenomeno risulta molto raro considerata la lunghezza della lettera. Osserviamo anche che la Lettera agli Ebrei non è ricca di figure retoriche come certi passi di Paolo (eccezion fatta per l’esempio più lungo di anafora del Nuovo Testamento: 11, 3-31, dove πίστει è ripetuto diciotto volte), quindi potrebbe per questo rispecchiare il canone classico della misura(26).
Ai livelli di Luca e della Lettera agli Ebrei, anche se in una posizione minore, si può rapportare il greco della Lettera di Giacomo. Mentre possiede anche tracce di un genere ellenistico come la “diatriba” stoica (che si caratterizzava per lo stile eristico e retorico, quindi non necessariamente riguardante esempi realmente storici: come succede in 2,2-9 ), conserva alcuni semitismi e si rifà ad alcune caratteristiche dell’omiletica sinagogale.
La Prima Lettera di Pietro è scritta in un greco raffinato, tanto da essere il migliore dopo quello della Lettera agli Ebrei, di Luca e di Giacomo; presenta anche alcuni punti in contatto con alcuni libri letterari dell’Antico Testamento, come la Sapienza, e forse per questo presenta a volte una tinta semitica(27). Invece la Seconda Lettera di Pietro tradisce un’altra mano, che scrive in un greco inferiore rispetto alla Prima nel quale poi non sono quasi per niente attestati semitismi.
La Lettera di Giuda è scritta in una lingua manierata, quindi si pensa che sia stata redatta da un segretario-scrittore di professione.
Le lettere di Giovanni sono scritte in un greco corretto e subiscono l’influenza semitica soprattutto per la semplicità della frase, sia nella costruzione che nell’uso di verbi semplici, anziché composti, come invece è tipico della lingua greca(28). Presentano, inoltre, alcuni dei termini tipici del Vangelo di Giovanni, che, evidentemente, dovevano circolare negli ambienti giovannei.
L’Apocalisse(29) è scritta nel greco peggiore del Nuovo Testamento, non solo per la altissima frequenza di semitismi, ma soprattutto per la massiccia presenza di solecismi, caratteristica, quest’ultima, che la differenzia da tutto il Nuovo Testamento (dove tuttavia compaiono, molto raramente, forme incongruenti: soprattutto apposizioni o participi in nominativo anziché in caso obliquo, ma comunque sempre giustificabili secondo qualche fenomeno linguistico o in base alla critica testuale (30)).
Blass e Debrunner (31) osservano che la maggior parte degli errori è costituita dall’ assenza della giusta concordanza. Gli errori sono divisi in:
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apposizione o participio congiunto al nominativo anziché in caso obliquo (in 3,12 compare της καινης Ιερουσαλήμ η καταβαίνουσα);
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accusativo o genitivo isolato in 21,9 si trova τας επτα φιάλας των γεμόντων –anziché γεμούσας);
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maschile al posto del femminile o del neutro;
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λέγων, λέγοντες e, più raramente, anche έχων sono in anacoluto;
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incongruenza con il numero (ad es., in 9, 12 si trova έρχεται έτι δύο ουαί).
I semitismi sono frequentissimi: citiamo soltanto αποστείλας δια του αγγέλου (1,1) che calca l’ebraico salah be jad; τας οφθαλμός (1,7) è semitismo per “ogni uomo“; όμοιον υιον αντρώπου (1,13) per “uno simile a figlio dell’uomo“ è una struttura difettosa in greco che calca l’aramaico kebar ‘enos; έγνωσαν (2,24 ) da tradursi forse come un presente, si riferisce al verbo ebraico jada’ che è usato al perfetto con valore stativo, quindi come un presente; in 4, 9-10 l’uso del futuro come imperfetto deriva dalla forma ebraica jiqtol che si traduce come futuro o imperfetto; ταις προσευχαις (8,3) è un dativo che non si comprende sulla base della sintassi greca, perché forse è una traduzione sbagliata dell’ebraico bet essentiae o identitatis in senso strumentale (donde l’uso del dativo); in 12,4 (come in Luca 1,47) l’aoristo coordinato a un presente è calco dell’uso ebraico della forma wajjiqto” (detta futuro inverso) che può seguire un presente e assumerne il valore; εφανερώθησαν (15,1) è un aoristo ma con valore di futuro anteriore, come il perfetto ebraico; in 20, 13 gli aoristi non indicano un’azione successiva rispetto a quanto narrato nel v. 12, perché si collegano alla forma ebraica wajjiqtol detto futuro inverso di ripresa; έρχου κύριε (22,20) è la probabile traduzione della formula aramaica della chiesa primitiva Marana ta, “Signore, vieni“ (testimoniata, traslitterata, nella Prima Lettera ai Corinzi 16,22): tuttavia la forma aramaica poteva anche essere Maran ata (nei testimoni greci vigeva la scriptio continua, ragion per cui non sappiamo la effettiva divisione delle lettere greche che traslitterano quelle aramaiche), che significa “il Signore è venuto”(32).
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 51 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.
NOTE
1) F. BLASS – A. DEBRUNNER, Grammatica del greco del Nuovo Testamento, Brescia 1997, p. 54.
2) Questa peculiarità si vede bene nel Vangelo di Luca e negli Atti, dove c’è una grande differenza fra i prologhi delle due opere (che ammiccano a quelli dei grandi storici greci) e il resto della materia letteraria: è chiaro che se Luca, come tutti gli autori neotestamentari, avesse avuto preoccupazioni letterarie, avrebbe scritto anche il resto con la medesima cura e il medesimo tenore stilistico.
3) G. SACCO, La koiné del Nuovo Testamento e la trasmissione del testo sacro, Roma 1928, p. 115.
4) Al contrario, mettiamo, di Clemente Romano che parla dei γυναικες Δαναίδες και Δίρκαι e dell’araba feniche, F. BLASS – A. DEBRUNNER, op. cit., p. 54.
5) A. MEILLET,Lineamenti di storia della lingua greca, Torino 1976 , p. 348.
6) Cfr. J. A. KLEIST, The Gospel of St Mark, Milwaukee 1936.
7) F. BLASS-A. DEBRUNNER, op. cit., p.563.
8) J. H. MOULTON-R. HOWARD-N. TOURNER, A Grammar of New Testament Greek, 4 voll., Edinburgh 1928-1976., vol. 2, Edinburgh 1928, p. 469.
9) R. BULTMANN, Das Evangelium nach Johannes, Gottingen 1953 .
10) La vena neologistica di Paolo riguarda anche lo scontro teologico con le correnti ebraiche: nella Lettera ai Filippesi 3,2 Paolo introduce un nuovo senso ad un termine già attestato, in quanto utilizza il termine κατατομή, “mutilazione“ per indicare che la circoncisione, περιτομή termine che tuttavia usa quasi sempre: anche nel v.3), se è pratica esteriore, risulta essere soltanto una pratica mutilatoria, non portando affatto alla salvezza. Ravasi, La Buona Novella, Milano 1998, pp. 221-224, ricorda l’uso caratteristico che Paolo, soprattutto nella Lettera ai Romani, fa delle parole: σάρξ (“principio negativo efficace e deleterio che si annida nel cuore umano“), αμαρτία (mentre nel greco extrabiblico indica l’errore –propriamente lo sbagliare bersaglio –, Paolo si riallaccia a l’uso della Septuaginta “peccato“ –notiamo a margine che alcuni verbi ebraici del peccato indicano proprio l’idea del deviare: “attah”, “sbagliare bersaglio” e “auon”, “curvare, deviare “), νόμος ( la “legge” che è inefficace a salvare l’uomo dalle spire della σάρξ che conduce al peccato); e χάρις ( la “grazia di Dio”, che si muove, per primo, verso l’uomo), πίστις ( la “fede”, quale risposta che l’uomo deve dare a Dio), πνεύμα ( lo “spirito di Dio”, in noi infuso“ con l’abbraccio d’amore tra charis e pistis, tra grazia divina e fede umana“), δικαιοσύνη (“giustificazione”, cioè un nuovo statuto interiore tipico di chi ha accolto la χάρις nella πίστις ricevendo così il πνεύμα).
11) I semitismi sono attestati soprattutto nell’Apocalisse; poi in numero minore, ma sempre esteso, nei Vangeli; seguono le epistole di Giovanni; quelle di Paolo e le altre hanno il minor numero di semitismi rispetto a tutti i libri del Nuovo Testamento. Cfr. G. SACCO, op. cit., pp. 99-100. Un importante esempio di influsso semitico e biblico in Paolo è ιλαστήριον (Lettera ai Romani 3, 25), con cui la Septuaginta traduceva un componente dell’Arca dell’Alleanza, in ebraico kapporet, ovverosia una lastra di oro che era sospesa sull’Arca e sulla quale si credeva che Dio si appoggiasse quando scendeva tra gli uomini, la quale era aspersa dal sommo sacerdote con un ramoscello di issopo intinto nel sangue della vittima sacrificale in determinati riti d’espiazione e di perdono dei peccati (del resto, il termine ebraico, che significa “coperchio”, è vicino al suono di quello che indica il perdono), durante i quali si credeva che il sangue caduto sulla lastra aurea venisse mondato da Dio in segno di riconciliazione. Ebbene, Paolo adotta il termine greco in relazione a Cristo: il significato è chiaro, non si devono fare più sacrifici, perché quello assoluto è stato compiuto da Cristo.
12) F. BLASS-A. DEBRUNNER, op. cit., p. 360.
13) Nel greco classico elegante la congiunzione della proposizione subordinata si trova all’inizio della stessa, eccezion fatta se si voleva mettere in rilievo qualche elemento della proposizione, che così veniva messo all’inizio della congiunzione. Così Paolo: ad es., Prima Lettera ai Corinzi 6,4; 11,14; 14,9; Lettera ai Galati 2,10; Lettera ai Colossesi 4,16.
14) Costruzione che conferisce al dettato vivacità e spontaneità. Ad es. nella Prima Lettera ai Corinzi 7,27.
15) Ad es., Seconda Lettera ai Corinzi 12,13.
16) Presente soprattutto in Atti e Paolo (si pensa che Luca, Paolo e l’autore della Lettera agli Ebrei dovettero ricevere sicuramente una istruzione retorica, F. BLASS-A. DEBRUNNER, op. cit., p. 54) Ad es., Lettera ai Romani 10,16.
17) Ad es., Seconda lettera ai Corinzi 9,1.
18) Seconda Lettera ai Corinzi 1,3-6.
19) Ad es., Seconda Lettera ai Corinzi 11,21.
20) Seconda Lettera ai Corinzi 12,11.
21) R. BULTMANN, Der Stil der paulinischen Predigt und die kynisch-stoische Diatribe, Gottingen 1910.
22) G. SACCO, op. cit., p. 100.
23) F. BLASS-A. DEBRUNNER, op. cit., p. 594.
24) F. BLASS-A.DEBRUNNER, op. cit., pp. 564-565.
25) Come in 1,4, dove sono da sottolineare αγγέλων e όνομα.
26)Che Luca, Lettera agli Ebrei, e anche Paolo (per certi aspetti) costituiscano la lingua migliore del Nuovo Testamento, si evince altresì da particolarità come: l’ottativo è presente soprattutto in Luca, ma anche –seppur raramente – in Paolo; il participio predicativo è attestato soprattutto da Luca e Paolo; in Luca, Paolo e Lettera agli Ebrei ίνα, rispetto alla tendenza generale del Nuovo Testamento, non tende a prendere il posto dell’infinito; conformemente al greco classico Luca e Paolo sostantivano con τό le proposizioni interrogative indirette; anche se l’uso non è spesso corretto (ad es., in Luca 8, 6-8 si riferisce a tre realtà parziali), il pronome duale έτερος compare soprattutto in Luca; tutte le lettere (e anche l’Apocalisse!) tendono a non far sostituire εν da εις in senso spaziale, di contro alla tendenza degli altri scritti neotestamentari; negli Atti compaiono spesso participi con asindeto denotando una certa ricercatezza stilistica (al contrario delle pur lunghe attestazioni di più participi in Paolo); nel Nuovo Testamento la negazione del participio è espressa soprattutto da μή, invece nel greco classico si usava ου quando il participio aveva significato asseverativo o che cambiava mediante la negazione nel suo contrario: questa sfumatura è presente solo in Luca, Paolo, Lettera agli Ebrei e Prima Lettera di Pietro (ον ουκ ιδόντες αγαπατε, 1,8); soprattutto Paolo usa il neutro singolare dell’aggettivo per indicare un concetto astratto.
27) G. SACCO, op. cit., p. 117.
28) G. SACCO, op. cit., p. 100.
29) Uno studio importante del greco dell’Apocalisse, attento soprattutto ai semitismi, è G. MUSSIES, The morphology of Koiné Greek as used in the Apocalypse of St. John. A study of bilingualism, Leiden 1971.
30) F.BLASS-A.DEBRUNNER, op. cit., pp.207-208.
31) F.BLASS-A.DEBRUNNER, op. cit., pp. 206-207.
32) Le due possibili rese sottintendono due possibili interpretazioni dell’Apocalisse: se il libro si conclude con “Signore, vieni “ vuol dire che è proiettato nel futuro; se si conclude con “il Signore è venuto “, l’Apocalisse ha parlato di realtà passate fingendo di riferirsi al futuro (come ritiene, tra l’altro, E. CORSINI, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980, secondo il quale il libro biblico parla della storia della salvezza veterotestamentaria fino a Gesù Cristo).
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