Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La traduzione e le lingue
di Marco Calzoli - Marzo 2023
Eugene Nida ha sviluppato il concetto di equivalenza, cioè se sia possibile e quanto che una traduzione rispetti l’originale. È stato molto attivo nel campo della traduzione ed è famoso soprattutto per una serie di volumi che lui ha pubblicato tra gli anni 50 e gli anni 60. Era un traduttore della Bibbia e in particolar modo faceva parte delle Bible Societies, cioè quelle società principalmente americane che si occupavano della traduzione della Bibbia e di tutti i testi sacri in tutte le lingue del mondo, con l’obiettivo di catechizzare quante più persone possibili. È stato professore di Linguistica alla Summer Institute of Linguistics (SIL) ed all’Università di Oklahoma dal 1937 al 1952. Presidente anche della Linguistic Society of America nel 1968.
Egli si occupa di equivalenza quando si occupa della traduzione della Bibbia; quindi, di un testo in ebraico antico che presenta tutta una serie di problematiche, tra cui il fatto che non ci sono le vocali, non ci sta spesso la scansione delle parole, per cui tradurre la Bibbia è veramente una scommessa interpretativa. Inoltre, tradurre la Bibbia è anche pericoloso, ci sono stati dei traduttori mandati al rogo perché avevano tradotto in maniera non conforme secondo la Chiesa di Roma (Lutero con la traduzione della Bibbia in tedesco da cui origina la chiesa protestante).
La traduzione della Bibbia pone moltissimi problemi innanzitutto per la lingua del testo originale (non esiste un originale, ma solo copie) e anche per il fatto di tradurre dall’ebraico antico a una lingua africana: ci sono anche dei grossi problemi linguistici ma anche culturali, ovviamente. E quindi, Nida occupandosi di questo ha cominciato a pensare al fatto che non si può parlare di equivalenza diciamo in senso assoluto, ma probabilmente bisogna fare una distinzione tra equivalenza formale e dinamica.
L’equivalenza formale prende in considerazione forma e contenuto, tendenzialmente corrisponde a una traduzione di tipo letterale, ed è una forma di equivalenza molto orientata molto verso il testo di partenza, quindi equivalenza formale-traduzione letterale. Invece l’equivalenza dinamica è così denominata perché varia, è in funzione del destinatario nella lingua di arrivo, varia rispetto a quello che ci si aspetta: la reazione da parte del destinatario nella lingua di arrivo. Quindi contempla tutte le varianti collegate al destinatario) di tipo linguistico ma anche culturale ovviamente). L’equivalenza dinamica è un’equivalenza funzionale e si basa su un principio che Nida definisce dell’Effetto Equivalente, che potremmo sintetizzare in questo modo: la traduzione deve produrre sul suo lettore lo stesso effetto che il testo originale aveva sul suo lettore dell’originale. Quindi è una traduzione più libera ovviamente, e poi è anche una traduzione target-oriented cioè più orientata sempre al testo di arrivo.
Nida dice che: “Tradurre consiste nel produrre nella lingua di arrivo il più vicino equivalente naturale del messaggio nella lingua di partenza in primo luogo nel significato e in secondo luogo nello stile”. Ancora. Il successo di una traduzione dipende da quattro requisiti di base:
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Che abbia senso
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Che trasmetta lo spirito e la maniera dell’originale
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Che presenti una forma di espressione naturale e scorrevole
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Che produca una reazione simile all’originale.
Ed è interessante il suo saggio che si intitola Principles of Translation as exemplified by Bible Translating, perché in esso egli discute sull’equivalenza e le diverse forme di equivalenza, portando tutta una serie di esempi molto interessanti relativamente alla traduzione della Bibbia, quindi, prende proprio degli esempi concreti e dice: “Mentre per alcuni l’attività di traduzione è soprattutto un argomento di interesse teorico, il traduttore della Bibbia deve affrontare problemi concreti”. Ora il problema della traduzione di testi sacri è proprio quello che da un lato devono rispettare la veritas del testo sacro, quello che trasmette il testo sacro, e dall’altro dovevano far sì che il messaggio della parola di Dio fosse pienamente compreso dai lettori delle traduzioni.
Quindi, sempre in questo saggio fa un’affermazione molto interessante: “La traduzione è un processo comunicativo”. Questa diciamo è una visione che viene presa anche da altri successivamente, e quindi tenendo conto del fatto che la traduzione ha come finalità ovviamente il fine comunicativo, questo implica che sono necessari tutta una serie di adattamenti, che non possono non tener conto dei problemi “veri”, ovvero delle differenze culturali, di cui quelle linguistiche sono solo uno dei tanti aspetti. Nida, quindi, è anche tra i primi a porre la questione dei problemi culturali che emergono nella traduzione, che poi verranno riprese e ampliate anche dagli studi successivi sulla traduzione.
Il problema nasce appunto da un confronto tra lingue diverse, considerando che, come sappiamo, le lingue sono arbitrarie e quindi non c’è possibilità di completa commensurabilità tra lingue, come aveva anche notato Jakobson, non è possibile avere delle equivalenze perfette, segmentano la realtà in maniera diversa. Quindi i principi sottostanti secondo Nida sono che:
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Il linguaggio consiste in un insieme sistematicamente organizzato di simboli orali-auricolari
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Le associazioni fra simboli e referenti sono arbitrarie
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La segmentazione dell’esperienza in simboli discorsivi è arbitraria
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Due lingue non presentano mai sistemi identici di organizzazione dei simboli in espressioni dotate di senso.
Tutto ciò implica che si può avere: o una perdita di informazioni / o un’aggiunta di informazioni / o una distorsione di informazioni.
Pertanto in qualche modo la traduzione rappresenta sempre un qualcosa di diverso, rispetto al testo di partenza, citando Eco la traduzione è come dire quasi la stessa cosa, non è dire la stessa cosa, ma il tentativo del traduttore è di avvicinarsi quanto più possibile al messaggio del testo di partenza, a quello che è l’intenzionalità dell’autore.
Nida, nel saggio citato, ipotizza che la comunicazione avvenga nel modo che lui definisce: comunicazione-etnolinguistica. Abbiamo questo schema: all’interno di un contesto (raffigurato come un rettangolo più grande) ci sono un mittente e un ricevente che si scambiano un messaggio. Ora il problema è quello di costituire questo contesto di comunicazione etnolinguistico della Bibbia.
C’era un mittente, immaginiamo che sia Dio che trasmette questo messaggio agli uomini, che però è situato in un periodo storico ben preciso e in un contesto ben preciso. Il traduttore della Bibbia ha esattamente il compito di produrre l’Effetto Equivalente, ovvero ricostruire questo processo comunicativo mediante la riproduzione del contesto. Si tratta di un processo che Nida definisce di esegesi, ovvero di interpretazione di un testo sacro. Ovviamente deve interpretare attualizzando, cioè rendendo comprensibile al lettore contemporaneo il messaggio, poiché non è possibile immaginare di ricostruire il contesto in cui è stato prodotto il testo sacro originale.
Vinay e Darbelnet sono i principali esponenti della cosiddetta stilistica contrastiva e il testo importante che loro hanno scritto è Stylistique comparée du français et de l’anglais. Méthode de traduction (1958). Il loro obbiettivo, quindi, è quello di un confronto tra lingue, l’inglese e il francese: loro canadesi e inglese e francese sono le due lingue ufficiali del Canada. Però questo confronto per loro è finalizzato ad un metodo di traduzione, attraverso questo confronto tra lingue diverse loro hanno intenzione di discutere di tutte le problematiche di traduzione e di poter offrire un metodo ai traduttori.
Per loro il traduttore in qualche modo deve rimediare a due aspetti. Da un lato, deve tener conto delle costrizioni che sono imposte dalle due diverse lingue, e in particolar modo dalla lingua di arrivo. Questo concetto si chiama servitude. Però dall’altro, ha anche libertà di scelta, di formulazione (option). Quindi il traduttore deve mediare tra questi due aspetti.
Essi approfondiscono anche la definizione di unità traduttiva: è l’insieme più piccolo dell’enunciato, i due segni che sono collegati in modo tale da non dover essere tradotti singolarmente, e quindi si tratta dell’insieme di unità lessicologica e di pensiero, quindi di significato.
Nella misura in cui la lingua è qualcosa che noi acquisiamo è un insieme di costrizioni, alle quali ci dobbiamo sottomettere. Per esempio, il genere dei nomi, la coniugazione dei verbi, l’accordo tra parole sono fatti inalterabili di un sistema linguistico. All’interno di questi limiti, quindi, è possibile scegliere tra le risorse esistenti. Cioè che all’interno di queste costrizioni c’è la possibilità di scegliere e una libertà che ci viene data dalle parole, riprendendo la terminologia di Saussure.
Per esempio, è un fatto che la lingua francese, c’è una forma verbale chiamata l’imperfetto del sobjonctif, del congiuntivo. In generale non è più usato e quindi non più obbligatorio, e allora è diventato un option. Opzionale. Questa forma oggi è considerata obsoleta.
Questi due concetti (servitude e option) riguardano tutti i livelli linguistici. Sia il lessico che la grammatica e il messaggio in quanto tale.
Loro ritengono che il processo di traduzione comprenda cinque fasi:
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La prima fase è il processo di individuazione delle unità traduttive che si chiama découpage, quindi la segmentazione del testo in unità
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Dopodiché si passa all’analisi del testo della lingua di partenza, contando tutto. Quindi gli aspetti affettivi, descrittivi e intellettuali dell’unità
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Si ricostruisce il contesto metalinguistico del messaggio
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Si valutano gli effetti stilistici
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Si revisiona il testo di arrivo.
Vinay e Darbelnet propongono anche delle strategie di traduzione, quindi dei procedimenti traduttivi. Fanno distinzione tra traduzione diretta e traduzione indiretta. Ci sono sette procedimenti traduttivi, tre di traduzione diretta e quattro di traduzione indiretta. Potremmo dire che partono da un grado zero di traduzione, cioè da una non traduzione. Una non traduzione, per esempio, è un prestito perché prende la parola così com’è e la trasporta nella lingua di arrivo. Invece il massimo grado di libertà in traduzione è l’adattamento. Fra prestito e adattamento ci sono una serie di soluzioni intermedie.
I tre procedimenti della traduzione diretta sono il prestito, il calco e la traduzione letterale. Abbiamo accennato al prestito: computer, sandwich, e così via. Il calco invece è un prestito adattato, perché viene sottoposto alle regole morfologiche dell’italiano. Per esempio, “formattare”, “chattare” sono forme di calco perché derivano dall’inglese to format, to chat però sono state adeguate al sistema morfologico dei verbi italiani. Questa è una formalità. Invece “grattacielo” è una traduzione letterale di skyscraper, un procedimento in qualche maniera più complesso in quanto riguarda più parole…
Non sempre è possibile fare una traduzione letterale. Per questi motivi:
• Quando per esempio dà un significato diverso
• non ha significato
• è impossibile per ragioni strutturali
• non ha un’espressione corrispondente all’interno dell’esperienza metalinguistica della lingua di arrivo corrisponde ad un elemento a un diverso livello linguistico.
Quando la traduzione letterale è irrealizzabile si adotta la traduzione obliqua. Si tratta di quattro diversi procedimenti traduttivi, che sono: trasposizione, modulazione, equivalenza, adattamento.
La trasposizione si ha quando si fa un passaggio da una categoria grammaticale della lingua di partenza a una categoria grammaticale della lingua di arrivo. Esempio: nome nel testo di partenza = verbo nel testo di arrivo. Oppure aggettivo nel testo di partenza = sostantivo nel testo di arrivo. Per esempio l’espressione as soon as she gets up diventa in italiano “al suo risveglio”. Oppure avverbio = verbo, per cui he will soon be back = “non tarderà a rientrare”. Sono tutte forme di cambiamento della categoria grammaticale.
Invece la modulazione è un cambiamento dal punto di vista semantico, quindi l’astratto per il concreto, la parte per il tutto, la causa per l’effetto e così via. Es: it is not difficult to show = “è facile dimostrare”.
L’equivalenza. Si pone attenzione sul fatto che, per Vinay e Darbelnet, si tratta di un procedimento traduttivo, quindi non abbiamo a che fare con il concetto che riguarda la relazione da testo di partenza a testo di arrivo. L’equivalenza, secondo loro, si applica nel momento in cui abbiamo modi di dire, proverbi. Es: questo proverbio francese Comme un chien dans un jeu de quilles = in inglese è like a bull in a China shop. In italiano lo traduciamo come “un elefante in una cristalleria”. Come qualcuno che è maldestro. Non possiamo tradurre letteralmente e ricorriamo al modo di dire italiano.
Infine abbiamo l’adaptation, adattamento, quando cambiamo il riferimento culturale. Per esempio in Italia lo sport nazionale è il calcio. Se andiamo in Inghilterra non sarà il calcio, e quindi ovviamente se si parla dello sport nazionale in Italia ha senso parlare di calcio. Ma questo riferimento culturale deve essere cambiato nel momento in cui traduciamo in un’altra lingua. Oppure spesso questi adattamenti si hanno anche in riferimento agli aspetti temporali. Per dire negli Stati Uniti la televisione è stata introdotta negli anni ’50. Se volessimo parlare di questo fenomeno in Italia, dovremmo dire che la televisione è stata introdotta negli anni ’60. Quindi è necessario tener conto di questo tipo di adattamenti.
È più facile che ci sia equivalenza nella traduzione tra lingue della stessa famiglia. invece c’è più difformità nella traduzione tra lingue di famiglie linguistiche diverse.
Ci sono delle affinità tra l’italiano e l’inglese per via della stessa origine indoeuropea. Il “gatto domestico” è in inglese cat. Le lingue sono tra loro imparentate. Per esempio l’egiziano antico è una lingua afroasiatica, quindi imparentata con accadico, ebraico, arabo e altre lingue semitiche. In egiziano antico “mangiare” si dice WNM, nel copto (la fase finale dell’egiziano antico) il verbo diventa WOM in quanto la NM si assimila in MM e poi si scempia in M. Però nella fase linguistica precedente il copto il verbo mangiare si scrive con il segno IM. Perché? Perché il verbo WNM inizia con la semivocale W. In egiziano antico esiste anche un’altra semivocale, la I. Quando queste semivocali sono all’inizio di parola tendono a essere pronunciate in maniera debole, quindi la W viene considerata dalla pronuncia incerta e quindi scambiata con una I, anch’essa dalla pronuncia incerta, quindi si inizia a usare il segno IM. È un fenomeno che abbiamo anche nelle lingue semitiche. Nel protosemitico il pronome “io” è IANAKU, cioè inizia con la semivocale I. Ma in seguito, dato che la semivocale è debole, essa cade e in accadico abbiamo ANAKU, in ebraico biblico ANOKI.
Per quanto riguarda la scrittura geroglifica, la definizione che si trova sui manuali odierni è che il geroglifico scrive solo le consonanti, come accade negli alfabeti arabo, ebraico, siriaco, e così via. In realtà la questione è più complessa. Come dimostrato da un grande assiriologo, Ignace Gelb, la scrittura geroglifica egiziana è per molti aspetti un sillabario, come il sumerico. Vale a dire che il geroglifico contempla le sillabe, anche se non scrive tutta la sillaba. Il geroglifico scrive la consonante solo se è in testa di sillaba (all’inizio della sillaba) ed è seguita da vocale, altrimenti tende a non scrivere tutto. Ce ne accorgiamo dai derivati copti. La parola HER come preposizione vuol dire “sopra”, come sostantivo “volto”. Se volessi scrivere “sulla casa”, scriverei HER (sulla) PER (casa). “Sopra di te” si scrive HER.K. Ma questa è la pronuncia che si trova nei manuali odierni. Ancora oggi nei manuali si inserisce una E convenzionale tra le consonanti geroglifiche (che tra l’altro non esisteva nell’egiziano antico), invece gli studiosi, relativamente a molte parole egiziane, hanno ricostruito la pronuncia esatta attraverso il confronto soprattutto con il copto (mediante gli strumenti della linguistica comparativa e della linguistica storica). Pensiamo all’epocale trattato di Vycichl (La vocalisation de la langue égyptienne) oppure ai contributi essenziali di Osing (Die Nominalbildung des Ägyptischen) e di Peust (Egyptian Phonology). Riguardo la pronuncia ricostruita dell’egiziano antico vi sono cento anni di studi, quindi la bibliografia è molto vasta: ma rimandiamo soltanto a questi autori nominati per i dettagli, invece per uno sguardo generale rimandiamo alla grammatica di Loprieno (Ancient Egyptian: a linguistic introduction) e a quella di Allen (Middle Egyptian: an introduction to the language and culture of hieroglyphs). Per quanto riguarda le consonanti, c’è stato chi (Otto Rössler) ha proposto una interessante teoria riguardo le vere consonanti egiziane, ma non da tutti accettata. Quindi, tornando a noi, è HAR per “volto”, pertanto “sopra di te” è HARIK, invece “casa” è PAR, quindi “sulla casa” è HA PAR. Si noti come in HA PAR non si scrive la R in quanto la R non è in testa di sillaba, ma quando è HARIK le sillabe sono HA/RI/K, quindi la R si scrive.
Se prendiamo il cinese, lingua appartenente alla famiglia sino-tibetana, ci sono enormi difformità con le lingue di altre famiglie, come quelle indoeuropee e quelle semitiche. Si dice che nessun occidentale potrà mai capire cosa passi nella testa di un cinese. Se questo è vero per la modernità, è vero in grado maggiore per il cinese classico. Tra italiano e cinese, soprattutto quello classico, non ci sono solo significati diversi ma anche intere catene di significati del tutto diseguali.
A margine osserviamo che lingue di famiglie diverse possono presentare delle coincidenze. In egiziano antico il pronome personale suffisso di terza persona al maschile è K (velare), invece al femminile è C (palatale). Un fenomeno analogo di palatizzazione è avvenuto anche in latino, lingua di un’altra famiglia (famiglia indoeuropea). Nel latino classico il fonema era solo velare, invece dal IV/V secolo il fonema accanto a vocale palatale diventa KI e poi si palatizza in C, quindi in italiano si forma la parola “cena” (ma il sardo fa eccezione). In arabo il pronome suffisso di seconda persona al maschile è K, invece al femminile è KI: l’egiziano antico procede nella palatizzazione e come abbiamo visto il fonema diventa C.
Facciamo un altro esempio di pura coincidenza tra lingue diversissime. In egiziano antico originariamente la parola HEM (pronuncia ricostruita HAM) significava “servitore”, in seguito passerà a indicare, nella espressione HEM NETER, il “sacerdote” (letteralmente “servitore del dio”, espressione che, per il fenomeno della anteposizione onorifica, in geroglifico è scritta con il nome dio, NETER, posto prima di servitore, HEM) ma passerà a indicare anche il “sovrano”. Esattamente come in italiano diciamo “Sua Maestà”, così in egiziano antico si ha l’espressione HEM.F, che letteralmente significa “Suo Sovrano” (dove F è il pronome suffisso che significa “suo”).
In egiziano antico ZE significava uomo nel senso di maschio, invece REMET uomo nel senso di essere umano in genere. Abbiamo una distinzione analoga in greco (anēr/anthrōpos) e in latino (vir/homo). Invece donna come essere umano di sesso femminile (vd. il latino femina) si diceva HEMET, mentre donna come essere umano di genere femminile adulto, sposato e con figli (vd. latino matrona) era ZET. Un’altra curiosità. Nell’egiziano antico classico il participio futuro della fase precedente della lingua ha lasciato poche tracce (era formato da un nome astratto che finiva in –UT): anche il participio futuro latino ha lasciato poche tracce in italiano (pensiamo alla forma “nascituro”). Ancora. Un’altra coincidenza tra egiziano e italiano è che entrambe le lingue non distinguono il complemento di agente (le navi sono state affondate dal nemico) dal complemento di causa efficiente (le navi sono state affondate dalla tempesta). In italiano i due complementi sono introdotti indifferentemente dalla preposizione DA, in egiziano dalla preposizione N. Perché non riferire un’altra coincidenza? In egiziano “soldato” è aHAw, dal verbo aHA, “combattere”: aHaw quindi è un participio, significa letteralmente “combattente”, come in italiano.
Aristotele distingueva tra sostanza e accidente, la prima è qualcosa di strutturale (“il lupo è un mammifero”), il secondo è qualcosa di accidentale (“il lupo è vecchio”, in quanto non tutti i lupi sono vecchi ma sono tutti strutturalmente mammiferi). Quando diciamo “il lupo è un mammifero” facciamo una costruzione sostanziale, invece dicendo “il lupo è vecchio” facciamo una costruzione accidentale. Caratteristico della sostanza è il sostantivo, invece caratteristico dell’accidente è l’aggettivo. La sostanza quindi è una definizione, invece l’accidente è una condizione. Alcune lingue distinguono il verbo essere se usato con costruzione sostanziale (verbo essere usato come copula con sostantivo) o con costruzione accidentale (con aggettivo). Una di queste lingue è l’egiziano antico. Quando fa la copula usa una costruzione diversa da quando invece esprime una costruzione accidentale. Quando un egiziano voleva dire “il gatto è un amico” (sostantivo), usava il pronome pw (frase nominale a predicato nominale): xnms pw mjw.t. Invece quando voleva dire “il gatto è nero” (aggettivo), usava lo stativo: iw mjw.t km.tj. Anche un’altra lingua diversissima dall’egiziano antico, per pura coincidenza con la lingua degli antichi egiziani, distingue tra copula e aggettivo: è lo spagnolo, che nel primo caso usa il verbo essere, invece nel secondo caso usa il verbo estar.
In italiano diciamo “tante cose” per indicare una pluralità generica di oggetti. La parola “cosa” è femminile. Anche in egiziano antico la parola “cosa” è femminile, cioè x.t, dove –t è la marca del genere femminile. È per questa ragione che in egiziano il femminile sta per il neutro (quando un oggetto non è specificato nel genere).
Eschilo ha scritto parole immortali sul dolore. È famosa una sua espressione greca: pathei mathos, che significa imparare attraverso il dolore. Quante volte la sofferenza ci insegna una dura lezione che non impareremmo in altro modo! In egiziano antico “dolore” si pronuncia MER (ed è scritto con il geroglifico del punteruolo), e lo stesso suono significa anche “amore, desiderio” (scritto però con il geroglifico dell’aratro). Non significa forse che amore e dolore sono molto vicini? Se amiamo dobbiamo prepararci a soffrire perché diventiamo più fragili. E quante cose ci può insegnare l’amore e quella fragilità! Infatti, non possiamo conoscere veramente noi stessi senza relazionarci agli altri.
Nelle lingue semitiche e nell’egiziano antico un complemento di specificazione può essere espresso mediante lo “stato costrutto”, cioè giustapponendo due sostantivi. Per dire “la casa di Nefer” gli egiziani scrivevano “casa” (per) + Nefer, cioè semplicemente: per Nefer. Anche in italiano, che non è una lingua semitica, usiamo a volte una costruzione simile: “casa Rossi”, “casa Donnini”. Un altro modo era usare la nisbeh delle preposizione N, “a”, che è N(Y), che vuol dire “appartenente a” (per ny Nefer, “la casa appartenente a Nefer). Anche in italiano si usa “appartenente” (e costruzioni simili) per indicare un possesso (“questa cosa mi appartiene”).
Un participio compiuto esprime una azione già accaduta (il libro ‘letto’ da Marco = vuol dire che Marco ha finito di leggere), invece un participio incompiuto esprime una azione in corso di svolgimento (Marco ‘leggente’ il libro = significa che lo sta ancora leggendo). In italiano il participio compiuto passato è sempre passivo (solo alcuni dialetti fanno eccezione, in questi si può dire: siamo arrivati già mangiati = cioè abbiamo già mangiato). Curiosamente anche in egiziano antico il participio compiuto passivo si esprime con un passato (con la forma sDm.n.f).
Non solo, ma nell’egiziano antico e in italiano è molto presente l’aspetto. Nelle grammatiche italiane (che si rifanno tutte a quelle imperiali romane) l’aspetto non è molto trattato di solito, ma è enormemente presente nell’uso dei parlanti. L’aspetto indica il grado di compiutezza di una azione. Una azione può essere:
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Indefinita, cioè non specificata nella sua compiutezza o meno, come quando diciamo “il sole sorge”: quando sorge? Sempre. È quindi una azione abituale della quale non si dice nulla. Questo è l’aspetto detto aoristo.
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Progressiva, quando è iniziata e si sta svolgendo ma non si è ancora conclusa, “sto sentendo, sto facendo, sto andando”. È l’aspetto progressivo.
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Prospettiva o allativa o futura, quando l’azione non è ancora iniziata né è finita ma è in procinto di iniziare, “sto per andare, il sole sta per sorgere”. È l’aspetto prospettivo o allativo.
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Compiuta, quando l’azione è iniziata e anche finita, “il sole è sorto”. È l’aspetto compiuto o perfettivo.
In egiziano antico abbiamo questa situazione:
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L’aspetto aoristo è espresso dalla forma mAA.
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L’aspetto progressivo da HER + infinito (pseudoverbale).
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L’aspetto prospettivo da R + infinito.
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L’aspetto compiuto dalla forma sDm.n.f per i verbi transitivi e dallo stativo per i verbi intransitivi.
Anche il participio egiziano riconosce l’aspetto, per cui abbiamo:
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Il participio incompiuto assomma aspetto progressivo e aspetto aoristo, nel primo caso “colui che sta facendo”, nel secondo “colui che fa (sempre)”. Il participio incompiuto si esprime con la forma mrr.
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Il participio compiuto si esprime con la forma sDm.
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Il participio allativo (futuro) attivo è “colui che ha da fare qualcosa, colui che ha intenzione di fare qualcosa”. In italiano diciamo anche “venturo”, “nascituro”, “futuro”. Queste tre forme derivano dal participio futuro latino: la forma “futuro” è il participio futuro del verbo essere (dalla radice indoeuropea bhu- che diventa all’inizio di parola fu-, come in fui). In egiziano antico il participio allativo si esprime con la forma mAA.
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Il participio allativo passivo si fa in italiano con il gerundio: “iniziando” è “colui che sta per essere iniziato”. Il gerundio italiano deriva dal gerundivo latino, che è un participio allativo passivo. Carthago delenda est: vuol dire che Cartagine è la città “la quale sta per essere distrutta”, quindi “la quale deve essere distrutta”. È chiaro che in latino l’idea del futuro si confonde con quella del dovere, ma anche in italiano, per esempio “farò” deriva da una espressione di dovere (“ho da fare”). Questo participio si fa con la forma mAA.
Adesso facciamo un grosso salto e passiamo al cinese. Grossomodo al tempo di Confucio (VI secolo a.C.) si scriveva in cinese classico, che è la lingua del I millennio a. C., nel quale sono redatte opere immortali anche come il Tao Te King e il Mencio. In seguito, dalla fine degli Han (206 a. C.-220 d. C.) si cominciò a usare il cinese letterario, fino a che non si iniziò a scrivere in cinese vernacolare, cioè un cinese parlato, che oggi è la varietà più usata da chi compone in cinese.
Il cinese classico è la espressione colta di un gruppo di dialetti parlati in un’area corrispondente alla Cina settentrionale e centrale, accomunati da una sorta di lingua franca in uso tra il VI e il III secolo a.C., utilizzata presso le corti dei vari principati cui era, di fatto, suddiviso il territorio controllato dagli Zhou.
Con gli Han vi è una graduale fossilizzazione della lingua letteraria. Tra gli Han e la fine di questa dinastia vennero poste le basi della separazione dei gruppi dialettali tuttora operante in Cina. Avvenne anche la standardizzazione dei caratteri cinesi.
Il cinese classico è una lingua colta e raffinata (yayan), che era condivisa da elites appartenenti a tradizioni e culture diverse che vivevano in luoghi spesso distanti tra di loro, che parlavano dialetti e probabilmente lingue differenti, ma che hanno comunque contribuito a trasmettere un corpus di opere su cui si fondano le basi identitarie linguistiche e ideologiche di quella che sarà in seguito “la Cina” e “la cultura tradizionale cinese”.
La categoria della “Cina” è relativamente recente e si riferisce principalmente al territorio, alla popolazione e ai costumi, tra cui la lingua e non solo, della Repubblica popolare cinese. La lingua ufficiale oggi parlata in Cina deriva grossomodo dal mandarino e si chiama in vari modi: hanyu, huayu, zhongwen, putonghua, guoyu. Queste categorie si basano su presupposti politici e etnico-culturali che non trovano corrispondenze con quella complessa realtà storica dalla quale nasce il cinese classico.
La lingua cinese di ieri e di oggi è prevalentemente isolante in quanto le parole tendono all’invariabilità. In genere quindi il valore grammaticale di una parola dipende dalla posizione che occupa all’interno della frase. Facciamo un esempio. Nel Mencio la parola zi ricorre 936 volte: in 863 casi è sostantivo; in 70 casi è sostituto personale di seconda persona e si traduce “tu, voi” (come in wo ming gao zi, “io spiego con chiarezza cosa intendo a te”); in 2 occorrenze è verbo; in 1 è avverbio.
La lingua cinese è essenzialmente monosillabica (anche se oggi si registra una evoluzione verso il polisillabismo: la maggior parte delle parole del cinese odierno è composta da più sillabe), è tonale (cioè le parole sono pronunciate con i toni, che sono variazioni della intensità della voce: altezza della voce costante, verso l’alto, verso il basso, e così via).
In base a un criterio sintattico la lingua cinese viene periodizzata in questa maniera:
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Cinese arcaico (XIII-XI secolo a.C.), è la lingua dei gusci di tartaruga, delle scapole dei bovini, dei bronzi;
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Cinese pre-classico (X-VII a.C.);
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Cinese classico (VI-II a.C.);
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Cinese post-classico (I a.C.-II d.C.);
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Cinese medioevale (III-XIII d.C.);
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Cinese moderno (XIV-XIX d.C.);
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Cinese contemporaneo (metà XIX d.C.-oggi).
Il cinese classico è una lingua molto diversa dalle lingue indoeuropee, come l’inglese, il francese o l’italiano. Una sillaba è un carattere e anche una parola semplice. Invece una parola composta può essere costituita da due sillabe e quindi due caratteri. Il cinese classico possiede sia parole funzionali (xuzi, parole vuote: sono particelle, preposizioni, congiunzioni, pronomi, avverbi) sia parole di contenuto (shizi, parole piene: sono nomi, verbi aggettivi, numerali). Caratteristica del cinese classico è la presenza di particelle modali, sostituti interrogativi, sostituti nominali, sostituti verbali.
Il cinese classico basa su tre tipi di sintagmi: quello verbale (formato dal verbo e dalle eventuali estensioni, che possono collocarsi sia alla sinistra sia alla destra del verbo; i determinanti del verbo, per esempio i modificatori dell’aspetto, si trovano sempre alla sua sinistra), quello nominale (formato da un costituente nominale e dalle sue eventuali estensioni. Il sintagma nominale può essere per coordinazione, per determinazione, per nominalizzazione), quello preposizionale (costituito da una preposizione e un sintagma nominale).
Nel cinese classico esistono principalmente due tipi di frase: quella verbale e quella nominale. La frase verbale semplice possiede come costituenti principali un soggetto e un predicato (il verbo del predicato principale c’è sempre, gli altri costituenti possono anche mancare). La frase nominale semplice non richiede la presenza né del verbo né della copula, è formata da due sintagmi nominali giustapposti e seguiti dalla particella modale finale ye. Invece la frase complessa è formata da due o più membri (frasi semplici ma talvolta anche frasi complesse) in relazione tra loro, le proposizioni.
In realtà il cinese classico non è la sola lingua cinese, sarebbe meglio parlare di lingue cinesi, quelle realmente sulla bocca della maggioranza della popolazione della Cina. Oltre al cinese classico vi erano anche altre varietà dialettali di prestigio, meno popolari e più auliche, assieme alle parlate del popolo.
Le diverse lingue cinesi sono state formate sin dall’inizio sia dal contatto linguistico tra popolazioni cinesi molto distanti tra di loro sia dall’influsso delle varie lingue di prestigio. Gli studiosi quindi ravvisano nelle lingue cinesi una stratificazione orizzontale e verticale.
A titolo di esempio riportiamo quattro migrazioni che sono state fondamentali per la costituzione e la formazione delle varie lingue cinesi:
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La politica del primo imperatore Qin che inviò mezzo milione di soldati nella Cina meridionale e orientale per sostenere la presenza cinese alle frontiere;
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Tra le dinastie Han orientali e Sui le migrazioni da Nord verso Sud proseguirono in seguito alla presa della capitale Jin da parte dei barbari nel 311. La nobiltà settentrionale si stabilì a Jinling, odierna Nanchino, e mandarinizzò il dialetto wu locale;
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Durante la dinastia Tang ci fu afflusso di parlanti settentrionali nel Sud del paese, fu un periodo decisivo per la formazione dei dialetti meridionali;
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Durante l’inizio della dinastia Song settentrionale la classe dirigente abbandona la capitale Kaifeng per rifondare la dinastia nel sud del paese (Nanchino).
Come abbiamo detto, la prima espressione della scrittura cinese la abbiamo su gusci di tartaruga, scapole di bovini, bronzi.
Gusci di tartaruga e scapole di bovini sono detti Ossa Oracolari: sono 150.000 frammenti con incise 26.000 frasi, i quali servivano per la divinazione. Le iscrizioni sulle ossa riflettono la lingua della capitale Shang. Ora, gli studiosi ritengono che con la dinastia successiva, gli Zhou, l’inaugurazione dell’età feudale abbia portato la diversificazione linguistica (già nel 614 a.C. nel Commentario di Zuo si fa riferimento al fatto che i parlanti degli stati confinanti non si capiscono tra loro). Invece nei testi su bronzo si usa un linguaggio ristretto, con poche parole comuni.
Della scrittura cinese abbiamo una abbondante testimonianza sin dal II millennio, la quale continua ininterrotta fino ad oggi. Ma queste informazioni ci forniscono poca conoscenza perché, soprattutto relativamente al cinese arcaico e al cinese pre-classico, ma non solo, non conosciamo la esatta pronuncia. I filologi fanno in merito un lavoro di ricostruzione. Nella linguistica la parola “ricostruzione” è invalsa per gli studi di indoeuropeistica, nei quali a partire da molte lingue europee e asiatiche realmente attestate si tenta di ricostruire la lingua madre, l’indoeuropeo, la quale non è attestata, ma solo ipotizzata. Quindi la ricostruzione altro non è che una ipotesi o una serie di ipotesi fornite dagli studiosi per cercare di capire ciò che non si conosce direttamente, cioè una lingua come l’indoeuropeo di cui non ci è pervenuta nessuna testimonianza scritta diretta. Ebbene, un analogo grosso lavoro di ipotesi viene fatto dai filologi cinesi per il cinese, anche se la sua scrittura è abbondantemente attestata, ma, come abbiamo accennato, non sappiamo la pronuncia.
Se abbiamo un testo in una lingua europea o asiatica che discende dall’indoeuropeo, grossomodo il lavoro sulla pronuncia è più facile (ma non per questo scontato) in quanto le scritture utilizzate sono perlopiù fonetiche: esprimono la reale pronuncia. Il cinese invece usa caratteri di una scrittura non fonetica, costituita da molti ideogrammi.
Allora come fanno gli studiosi della linguistica cinese a ricostruire il cinese precedente? Il metodo tradizionale viene associato alla figura di Karlgren, che raccolse l’eredità degli studi filologici di epoca Qing. L’idea di base è che si deve partire dalla ricostruzione del cinese antico, e solo allora si procede alla ricostruzuione del cinese arcaico, ma non solo. In che modo? Questi sono gli strumenti attualmente usati:
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I dizionari di rime, come il Qièyùn: si tratta di raccolte di caratteri cinesi fatte per suono analogo, attraverso le quali è possibile capire in qualche modo la pronuncia di ideogrammi raggruppati in un insieme;
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Le tavole di rime: in esse vengono presentate sistematicamente anche le iniziali dei caratteri cinesi;
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Le letture dei caratteri nelle varietà sinitiche e sino-xeniche moderne: all’inizio delle letterature coreana, giapponese e vietnamita si usava una scrittura cinese adattata alla lingua autoctona (coreano, giapponese, vietnamita), scrittura e lingua dette sinitiche, quindi conoscendo la attuale parola autoctona possiano in qualche modo risalire alla pronuncia del carattere cinese adoperato; stesso discorso per le scritture e lingue sinitiche moderne;
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La trascrizione di parole cinesi in sistemi fonetici (tibetano, brahmi, uiguro);
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La resa cinese in caratteri di parole straniere;
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Le rime nei testi poetici;
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Le glosse nei commenti ai testi classici (come il Jīngdian Shìwèn).
Dobbiamo fare una parentesi per chiarire. Corea, Giappone e Vietnam sono stati paesi sotto la antica influenza cinese. Quindi le loro prime letterature risentono dell’apporto cinese, solo in seguito in Corea, in Giappone e in Vietnam sono divenute fiorenti e diffuse le letterature in lingua autoctona.
Nel 65 d. C. abbiamo le prime testimonianza del buddhismo in Cina, religione nata in India nel VI secolo a.C. In Corea, Giappone e Vietnam il buddhismo arrivò sottoforma di testi cinesi: l’influenza della cultura cinese spiega perché il buddhismo si diffuse così tanto in questi paesi. Alla fine del IV secolo d.C. il buddhismo arrivò in Corea; per mezzo della mediazione coreana nel VI secolo d.C il buddhismo giunse in Giappone. In Vietnam fece la sua comparsa quando il monaco Nagasena giunse alle foci del Mekong (Vietnam meridionale), fine V secolo d.C. Invece nello Sri Lanka e in Thailandia il buddhismo penetrò per opera dei monaci dell’India meridionale che lo portarono a partire dal III secolo a.C. (buddhismo theravada).
In Vietnam la letteratura è stata sempre ricca e spesso molto popolare, pensiamo al famoso poema epico La Storia di Kieu. La letteratura vietnamita classica era caratterizzata da forme rigide e da una metrica molto accurata e determinata. Dinastie vietnamite nelle quali la letteratura conobbe molta diffusione furono quella Ly (1010-1225, l’epoca dei poeti religiosi) e quella Tran (1225-1400, l’epoca dei poeti guerrieri), in cui si produssero anche molte opere in vietnamita. Nel 1407 i cinesi diedero luogo in Vietnam alla seconda invasione, facendo finire i Tran e distruggendo buona parte della letteratura in lingua autoctona. Sotto il regno di Le Thanh Tong (1460-1497) si ebbe l’indipendenza e un nuovo fiorire della letteratura locale.
La lingua vietnamita è scritta in NOM e in questo modo compare dal X secolo, prima di allora si adottavano i caratteri cinesi (CUR NHO, che esprimevano il sino-vietnamita, un cinese che risentiva molto della fonetica vietnamita) in una produzione basata sulla cultura cinese e sulla diffusione delle grandi oipere cinesi. Bisogna chiarire che il NOM nasce da un adattamento dei caratteri cinesi per creare una scrittura nazionale vietnamita. A partire dal XIX secolo il vietnamita si scrive in caratteri latini con alcuni segni diacritici.
Il sino-vietnamita ha le sue origini nella fonetica del cinese della dinastia Tang (VIII secolo), ma come abbiamo detto con forti alterazioni dovute al vietnamita. Se così la letteratura classica cinese poteva essere conosciuta dai letterati vietnamiti, però la produzione sino-vietnamita non faceva emergere molto l’estro del popolo vietnamita e la sua originalità poetica e non permetteva al popolo di leggere le varie opere, sia quelle cinesi sia quelle dei letterati vietnamiti che scrivevano in sino-vietnamita. Infatti, difficilmente una persona del popolo poteva impiegare dieci anni di studio per imparare il sino-vietnamita, come si usava nel passato.
La prima opera in NOM (scrittura nazionale che esprimeva il vero e proprio vietnamita) è considerata la poesia Truyen Khu Ca Sau composta da Nguyen Thuyen.
Il vietnamita ha 24 lettere. È monosillabico con 6 intonazioni per ciascuna delle vocali: una senza accento e cinque accenti. La frase è come in italiano (soggetto+verbo+complemento) ma il verbo non è coniugato. È quindi una lingua coincisa, perché ridotta all’osso, pensiamo anche al fatto che non ha articoli, preposizoni e congiunzioni. Ma in compenso ha una sintassi complessa e ricca di implicazioni, nonché un lessico pieno di ambiguità, sensi impliciti e allusioni.
Un noto schema metrico della poesia vietnamita classica è il LUC BAT: un verso di 6 parole seguito da un verso di 8 parole, e così a ripetersi; in questa concatenazione di versi la sesta parola del primo verso rima con la sesta parola del secondo verso, la ottava parola del secondo verso rima con la sesta parola del terzo verso. Il LUC BAT non esiste nella letteratura cinese, ma è diffuso nella produzione nelleraria della etnia Viet, detta anche Kinh, la principale della comunità vietnamita, come pure nella letteratura delle etnie minoritarie del Vietnam, i Muong, i Thai, i Cham. È comune anche a diversi popoli del Sudest asiatico, come in Indonesia e in Malesia.
In questo metro è composta la maggior parte dei ca dao vietnamiti, che sono delle forme letterarie popolari ma senza paralleli con quelle occidentali. Il ca dao non è a rigore poesia, ma ha influenzato la letteratura. Non è recitato, ma non è neppure cantato. Segue la melica della lingua senza essere musica. È gnomico ma non ha a che vedere con un proverbio popolare. Non dimentichiasmo che la possibile traduzione in italiano di queste parole vietnamite non rende per nulla ragione della ricchezza e della diversità dell’originale vietnamita. Il ca dao è antico ma continua a vivere in Vietnam, pensiamo soltanto che Nguyen Du (1765-1820), il più grande poeta della letteratura vietnamita, autore de La Storia di Kieu, dichiarò di essere diventato grande entro il ca dao, ma anche il dan ca (canzone popolare).
Quando nel X secolo i vietnamiti sconfissero la dinastia cinese Han sul proprio territorio, accadde qualcosa di paradossale: divenuti liberi di poter comandare a casa propria, tuttavia non smisero di usare i caratteri cinesi, quelli dei dominatori, ma ne favorirono lo studio, quindi nel 1070 la Corte fece costruire a Thang Long, la capitale, il Van Mieu (Tempio della Letteratura), dedicato al cinese Confucio. Evidentemente la Corte vietnamita, e i successori, si resero conto di quanto il confucianesimo fosse importante per consolidare il potere dinastico, anche autoctono.
Abbiamo accennato al fatto che la letteratura in cinese scritta da vietnamiti (cioè quella sino-vietnamita) non faceva emergere la poesia vietnamita e non era compresa dal popolo. Ebbene, in questo contesto emerge l’importanza estrema del ca dao, il quale nasce dalla gente comune ed è espresso in vietnamita, diventando con il tempo la fucina dello spirito poetico e letterario dei vietnamiti. Con il passare dei secoli, infatti, la lingua del ca dao è stata raffinata ed elaborata ma anche conservata e trasmessa inalterata, e oggi è ancora il museo filologico del vitnamita. Una tecnica assai importante per la letteratura popolare vietnamita è detta TI, cioè quando un ca dao inizia con una analogia.
Ritorniamo alla filologia cinese. Diversi aspetti del metodo karlgreniano qui indicato brevemente nella ricostruzione del cinese antico, sono stati criticati dagli studiosi successivi. Norman e Coblin, tra gli altri, evidenziano come nei documenti quali i libri di rime fossero registrate le pronunce letterarie dei caratteri, che perlopiù non riflettevano nessuna varietà parlata. In questo senso lo studio del cinese antico secondo il metodo karlgreniano si basa sul confronto di un sistema di pronunce letterarie, tralasciando quindi le pronunce popolari, di grande importanza nella ricostruzione di una lingua.
In questo senso, se è dubbia la ricostruzione del cinese antico secondo il metodo karlgreniano, come possiamo ricostruire il cinese arcaico, se la sua ricostruzione si basa su quella del cinese antico? Secondo il metodo tradizionale la ricostruzione del cinese arcaico si basa su questi documenti:
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Le rime della poesia (in particolare quelle del primo documento letterario poetico cinese, il Libro delle Odi);
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Gli elementi fonetici della scrittura;
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Il sistema fonologico del Qièyùn.
Facciamo un esempio. Nel Libro delle Odi il carattere cai, “raccogliere”, e il carattere you, “esserci, avere”, rimano assieme, quindi all’epoca della composizione di queste poesie i due caratteri cinesi in questione dovevano avere la stessa rima. Le parole che rimavano in un modo nel cinese arcaico venivano assegnate ad un gruppo, detto yùnbù, e questi gruppi venivano interpretati sulla base delle rime del Guàngyùn, un testo in cinese antico. Quindi i nomi delle rime del cinese antico sono usati per indicare i gruppi del cinese precedente, quello arcaico.
Tuttavia questo metodo ci permette di ipotizzare solo le rime dei caratteri effettivamente utilizzati in rima nei testi poetici. La grande innovazione, introdotta dal filologo di epoca Qing Duan Yucai, fu quella di analizzare le componenti fonetiche dei caratteri per identificare le relazioni anche tra parole che non comparivano mai in rima. Vale a dire che caratteri che condividevano lo stesso elemento fonetico potevano rimare tra loro, è il caso dei caratteri bō, “onda”, pì, “stanco”, bèi, “coperta”, che hanno in comune l’elemento fonetico pì, “pelle”.
Dalle prime testimonianze della scrittura cinese (Ossa Oracolari e bronzi) c’è stata una diretta evoluzione che ha portato alla nascita della poesia cinese. La raccolta di poesie cinesi più antica di cui disponiamo è il Libro delle Odi, Shijing. È una delle cinque opere denominate durante la dinastia Han: i Cinque Classici Confuciani, che secondo la tradizione Confucio avrebbe composto raccogliendo materiali preesistenti. Gli altri sono: Annali delle Primavere e degli Autunni (Chunqiu), Libro dei Documenti (Shujing), Libro dei Mutamenti (Yijing), Libro dei Riti (Liji).
Parole chiave fondamentali del Libro delle Odi sono:
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Figlio del Cielo, Tianzi (uso attestao alla metà della dinadtia degli Zhou Occidentali)
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Mandato Celeste, Tian ming (assente nelle iscrizioni degli Zhou Occidentali).
Le caratteristiche formali di queste poesie sono: rima finale, metrica, onomatopeiche. Si tratta di elementi presenti anche nelle iscrizioni su bronzi dei primi Zhou Occidentali.
Il Libro delle Odi rappresenta il corpus più comprensivo e rappresentativo della poesia arcaica cinese. È il testo fondativo della cultura cinese, esprime la storia fondativa della civilizzazione Zhou. Nei testi antichi non si parla dello Shijing, non c’è questo titolo, perché il Libro delle Odi è un prodotto di epoca Han, però all’interno del testo troviamo le odi citate, che sono ben più antiche, le quali sono finite nell’organizzazione finale imperiale.
Le odi (305 poesie, tradizionalmente datate dal 1000-600 a.C.) erano cantate e recitate nel contesto di una performance fondamentale, legata al sacrificio. Erano accompagnate da musica. Le odi venivano insegnate da maestro a discepolo in maniera orale. Questo accadeva durante un periodo storico dove era importante l’oralità, ed oltre ad acquisire il contenuto, si imparavano gli strumenti per poter parlare in contesti di corte. Per i classicisti (Ru), la formazione dei funzionari di corte è importante, imparare le odi a memoria dimostrava l’essere eruditi e l’essere capaci di usare un linguaggio appropriato.
Le odi erano composte da alcuni personaggi storici. Venivano utilizzate dagli eruditi per rafforzare argomentazioni di un aneddoto: da un ode vengono estrapolati dei versi con un certo significato per fine retorici. Il significato originale verrà poi arricchito di altri significato, in maniera strumentale, come un punto di saggezza.
Sima Qian, l’Erodoto della Cina, il primo storico cinese, riferisce che Confucio abbia composto il Libro delle Odi. Probabilmente in realtà non le ha scritte lui, tuttavia alle Odi viene associato il nome di Confucio in quanto nei Dialoghi confuciani, questo sapiente parla spesso delle Odi.
Le Odi contengono informazioni pragmatiche: nomi di piante e fiori della Cina settentrionale, si incontra l’immaginario del nord e sud (dicotomia importante) e si impara ad esprimere la propria disapprovazione.
Non si può tradurre la poesia cinese antica nelle lingue che non sono il cinese, pena la falsificazione. Questa produzione aveva uno stretto rapporto con la forma grafica (per cui la calligrafia non era solo di abbellimento, come nei codici medioevali cristiani, ma parte costitutiva del messaggio) e le parole cinesi non esprimevano concetti bensì immagini e azioni.
Il Libro delle Odi si basa essenzialmente su tre tipi di esposizione:
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Descrizione o semplice narrazione (fu);
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Similitudine o metafora (xing);
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Allegoria (bi).
È facile capire il fu, in quanto il poeta descrive o narra qualcosa in forma diretta. Invece xing è formata da una prima parte che sta in confronto con una seconda: nella prima strofa della ode n. 1 si legge “Gridano i falchi pescatori/sull’isolotto in mezzo al fiume./ Quella fanciulla bella e riservata/sarebbe degna sposa del Signore”. I primi due versi sono in relazione con gli ultimi due: i falchi pescatori che gridano sono messi in relazione con la fanciulla da maritare. Più rara è bi e più difficile da identificare: si tratta di un confronto senza il secondo termine di paragone, il lettore e gli studiosi devono andare a intuito per capirlo.
Già dall’inizio degli Han Occidentali c’erano tre versioni ufficiali dello Shijing: Qi, Lu e Han in Jinwen, che erano tre interpretazioni diverse del Libro (ricordiamo che a corte c’era una lotta interna tra i letterati sostenitori del Jinwen o “grafia nuova” e quelli sostenitori del Guwen o “grafia antica”). Nessuna di queste 3 versioni riuscì però ad essere tramandata e a diventare quella ortodossa. Tale ruolo fu, invece, assunto dalla Tradizione Mao del libro delle Odi di Mao Heng, del III-II secolo, in Guwen. Si trattava di un’interpretazione del testo letterario delle Odi, inclusivo di: note esplicative jian e note storiche pu. Tale Tradizione è stata poi impiegata e ripresa da famosi e importanti commentatori dei classici, primo fra tutti Zheng Huan. Il cosiddetto “rogo dei libri” del 214 d.C. non fu una vera e propria distruzione di alcuni testi, come il Classico delle Odi, dei Documenti e così via, ma piuttosto una confisca di tali libri a determinati letterati e studiosi dell’epoca, che li utilizzavano per criticare la corte imperiale.
La Tradizione Mao, tramandata grazie al commentario di Zheng Xuan, servì come modello di lettura non solo per le poesie antiche, ma anche per la poesia in generale, compresi i nuovi componimenti degli Han Orientali e anche quelli successivi. Tuttavia, fino ad allora, la visione Mao era stata l’eccezione, non la prassi. La tradizione Lu – al tempo degli Han era la tradizione dominante di lettura delle “Arie degli Stati” (importante sezione del Libro delle Odi) – vedeva le poesie come una critica specifica all’indulgenza sessuale e alla negligenza del dovere del Re Kang; allo stesso modo, la tradizione Qi e quella Han consideravano le poesie come satira sul comportamento eccessivo di alcuni sovrani.
Coloro che, invece, interpretarono le “Arie” come espressione di desiderio non le consideravano immorali. “Esse soddisfano i desideri ma non portano al superamento del giusto limite” –Xunzi. “Esse esprimono un’allusione al piacere o al sesso ma non conducono alla licenziosità”. In quest’ultima interpretazione, le “Arie” sono veicoli generali di edificazione morale. La stessa interpretazione è stata trovata in due manoscritti antichi. L’espressione del desiderio sessuale non era considerata problematica, ma una forma strategica di guida verso una condotta morale appropriata.
Dal canto suo la tradizione Mao introdusse una comprensione decisamente nuova delle “Arie”. Inoltre, attraverso il suo glossario essa creò un testo nuovo a tutti gli effetti, fisso e quindi adatto ai bisogni dell’“insegnamento ufficiale” dei primi periodi imperiali.
Attraverso il suo glossario, la tradizione Mao ha spianato il terreno per l’affermazione contenuta nella Grande Prefazione, secondo la quale la poesia sarebbe stata la risposta ad una specifica circostanza storica.
All’inizio del Libro delle Odi c’è una Grande Prefazione generale, ma ci sono anche delle prefazioni prima di ogni ode, atte a spiegare il contenuto delle stesse. La Grande Prefazione è un prodotto di epoca Han e non è attribuibile ad un autore in particolare, ma è piuttosto la visione generale che i letterati dell’epoca avevano sulla poesia. Il carattere xin, sul quale la Grande Prefazione verte, anticamente designava non solo il cuore, ma anche la mente. La poesia nasce quando qualcuno ha un’esperienza o un’intenzione che vuole far “uscire” tramite parole, e quindi grazie alla poesia. Il poeta è colui che ha esperienza di un evento, il quale ha un effetto nella sua anima/al suo interno, da lui poi espresso all’esterno, cioè nella poesia.
Ricordiamo anche che quotare e recitare passi del Libro delle Odi era innanzitutto una questione di pratica orale. La tradizione scritta al tempo degli Stati Combattenti consisteva in pochi esemplari manoscritti. La cancelleria disponibile al tempo era infatti o troppo deperibile o troppo costosa (seta). Riferimenti alla scrittura e alla lettura erano scarsi nella prima letteratura, mentre l’apprendimento nel sistema privato e personale del maestro-discepolo era spesso descritto dalla letteratura antica. Se esistevano scritti locali su temi amministrativi, legali, economici o militari, è sicuramente più difficile dire che la diffusione dei Classici dipendesse dalla scrittura.
Nessuna, infatti, delle frequenti citazioni delle poesie nella “Tradizione Zhou” o nei “Discorsi degli Stati” si riferiva ad un testo scritto. Al contrario, esse dimostrano l’abilità di memorizzare e recitare. Solo l’istituzionalizzazione dell’apprendimento ufficiale al tempo dei Qin e degli Han, e in particolare la fondazione dell’Accademia Imperiale (nel 124 a.C., sotto gli Han Occidentali), risultarono nella stabilizzazione testuale e nella standardizzazione della scrittura. Nella scrittura c’erano comunque ancora alcune varianti, che si mostravano tuttavia a livello a livello ortografico, più che di suono. Comunque, queste varianti – unite all’uso della lingua poetica arcaica – rendevano pressoché impossibile la lettura privata dei testi, per l’incomprensibilità degli stessi. Ecco dunque perché nacquero linee di insegnamento e interpretazioni esegetiche diverse.
Anche l’arabo è una lingua di difficile traduzione. L’arabo appartiene alle lingue semitiche. È una lingua storicamente recente, che appare all’incirca nel V secolo a.C., ma strutturalmente antichissima. È diversificato in più dialetti. Con l’avvento dell’Islam l’arabo diviene la lingua ufficiale della fede religiosa e della nazione islamica.
Il mondo che si esprime in arabo vive ancora oggi una dimensione di diglossia: quotidianamente si parla uno dei vari dialetti arabi, come il tunisino, l’egiziano, e così via, mentre la lingua scritta e parlata nelle situazioni formali è l’arabo standard detto anche arabo letterario.
Il primo vero testo scritto in arabo è il Corano, il libro sacro dell’Islam, nato dalla predicazione di Maometto tra il 610 e il 632 dell’era volgare. La lingua del Corano si ispira direttamente a quella della poesia del periodo preislamico, la Gāhiliyya, che pare risalire al VI secolo. Su questi due monumenti letterari i filologi arabi del VIII e IX secolo hanno costruito l’arabo classico (al-‘arabiyya al-turathiyya). L’attuale arabo standard o arabo letterario ne è una diretta emanazione, quasi del tutto identica.
Si suole distinguere i dialetti arabi del passato in ḥiğāzeni (della Mecca e di Medina) e in orientali. La maggior parte delle informazioni sui dialetti arabi del passato le abbiamo in relazione a questi. La differenza più rilevante tra i dialetti ḥiğāzeni e quelli orientali è di ordine sintattico e viene comunemente definita come la sindrome akalū-nī ‘l-barāgīt o “le pulci mi hanno divorato”. Con questa curiosa formula si vuole riassumere una particolare forma di concordanza verbo-soggetto che è attestata solo in alcuni poeti ḥiğāzeni. Mentre per l’arabo orientale (e poi per l’arabo classico) la concordanza della terza persona, quando la proposizione inizia con un verbo, si esprime al singolare, in alcune occorrenze di arabo ḥiğāzeno si riscontra un accordo al plurale.
Si è molto discusso sulla lingua del Corano: è un dialetto ḥiğāzeno? Per alcuni la lingua del Corano per come ci è stata trasmessa fino ad oggi non è mai stata parlata realmente ma è una lingua letteraria, cioè artificiale.
Forniamo una prova. Il testo coranico presenta tre livelli:
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Le consonanti costituiscono la parte più antica ed è stata fissata molto presto, secondo le fonti islamiche già durante il califfato di ‘Utman (644-656).
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In seguito si fissarono i punti diacritici, che resero la lettura più scorrevole.
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In un terzo momento, nel VIII secolo, si inserirono anche le vocali brevi. Solo grazie a questo terzo passaggio il Corano assunse la forma definitiva come la conosciamo oggi.
Ora, l’arabo classico conosce l’uso della nunazione per indicare l’indeterminato. Cioè “il libro” è la forma determinata, vale a dire che ha l’articolo determinativo al-, “il”, in arabo è al-kitabu; invece “un libro” non ha l’articolo determinativo, ma presenta alla fine la nunazione, cioè la lettera –n, quindi è kitabun. Nel Corano, se la nunazione era effettivamente pronunciata, viene spontaneo chiedersi perché i primi trascrittori del Corano non la abbiano affatto notata nelle consonanti. I trascrittori del Corano scrivevano KLB, “un cane”, e non KLBN. Questa sarebbe una prova che il testo coranico non è espressione di una lingua effettivamente parlata.
Nell’Islam Dio è il padrone, arbitrario e liberissimo, della terra e anche dell’uomo, suo schiavo. La parola Islam deriva dalla quarta forma di un radicale arabo con il senso di sottomissione. Quindi il muslim è in arabo letteralmente il sottomesso. Pertanto la sharia, la cosiddetta legge islamica, non è una legge come la intendiamo noi, cioè una elaborazione umana. Quello che bisogna fare, dipende dagli ordini di Dio che ispira il Corano e lungo la storia i profeti. L’uomo può soltanto predisporre dei particolari marginali, come la frequenza della elemosina o l’organizzazione del pellegrinaggio alla Mecca. In questo senso parlare di filosofia islamica è fuorviante. La filosofia islamica non costituisce un pensiero speculativo come lo immaginiamo noi in Occidente, ma è un modo di interpretare la volontà di Dio, seppur spesso in modo assai originale.
Nell’Islam la conoscenza “speculativa” (nazarī) è diversa da quella “comunicata” (khabarī) da Dio ai profeti e poi da costoro trasmessa agli uomini. Ma ogni conoscenza islamica ortodossa ha per fondamento in ultima istanza Dio. La filosofia islamica si muove spesso secondo un duplice movimento: progressione al principio (mabdā’) e ritorno all’origine (ma’ād). Il mondo si evolve non in senso orizzontale e rettilineo bensì in ascensione. Il passato non sta dietro ma sotto di noi. Tutto origina da Dio e tutto ritorna a Lui secondo una ascensione continua della storia.
Nei linguaggi dell’Islam il concetto di filosofia si può tradurre in almeno tre modi:
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Falsafa: ricalcato sulla parola greca philosophia, fa esplicito riferimento a quel pensiero che trae origine dall’interazione con quello greco;
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Hikma: vocabolo di origine coranica, usato in contesto filosofico indica una riflessione che ha stretto rapporto con la religione;
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Ma’rifa/’irfan: attingono al concetto di conoscere, ma si tratta di una conoscenza eminentemente spirituale, a tal punto che i due termini sono resi frequentemente con “gnosi”.
Una filosofia autonoma comincia a svilupparsi nell’Islam dal IX secolo, quando esso ha politicamente raggiunto ormai da tempo il massimo fulgore, sotto l’egemonia più culturale che nazionalistico-politica della dinastia abbaside.
Ma se la filosofia islamica sin dagli inizi viene influenzata dal pensiero greco, continuerà sempre un dialogo più o meno stretto con la tradizione occidentale. Pensiamo alla distinzione araba tra abadī e azalī: due concetti in stretta comunione, indicano il mondo pre-eterno e il mondo post-eterno, due nozioni che derivano dalla filosofia greca. Tuttavia in seno a questa riflessione filosofica anche islamica è forte l’afflato teologico. I filosofi arabi hanno intenzione di parlare di Dio e del suo atto creatore.
È fondamentale quindi la nozione islamica di aysa, “essere”: le cose create non hanno l’essere in sé, ma lo acquisiscono da ciò che è diverso da loro, cioè da Dio, mentre in sé non sono (laysa). Non stupisce quindi che un termine coranico assai importante è ‘arsh, Trono (di Dio), inteso sia come luogo del cosmo sia come la potenza di Dio (quest’ultima accezione si trova in Averroè). Nella filosofia islamica si occupano del Trono di Dio le correnti più gnostiche, cioè esoteriche (Fratelli della Purificazione e Amici della Fedeltà).
Per il Corano la creazione è opera arbitraria e liberissima di Dio. Dio è inteso in maniera assoluta e l’uomo al suo confronto è nulla e mai identificabile seppur minimamente con la potenza divina. Nell’Islam il peccato più grande è quello di associare qualcosa di umano a Dio. È degno di nota che in arabo ilāhiyya indica sia l’attributo della divinità sia la metafisica. Il termine metà della espressione greca metà tà physikà venne inteso dai musulmani come “oltre” lo spazio fisico. Quindi nel pensiero islamico la metafisica coincide con la divinità.
Nel Corano appare il termine arabo āya: è significativo che il Libro sacro dell’Islam usi indifferentemente questo vocabolo sia per indicare i versetti del Corano sia per riferirsi ai segni della creazione. Anche la creazione è un libro composto da Dio, da decifrare e interpretare, così come gli studiosi fanno con il testo sacro. In questo senso la filosofia islamica non dice nulla di nuovo ma cerca di decifrare la volontà di Dio nelle sue opere. Non per nulla la filosofia islamica prende avvio dalle scienze coraniche.
La rivoluzione abbaside diede definitiva autonomia al pensiero islamico per via della potenza politica ormai matura dei musulmani. Questa rivoluzione fu l'estromissione del califfato omayyade (661–750), dalla scena politica principale. Gli abbasidi crearono uno dei quattro maggiori califfati nella storia del primo Islam, arrogandosi il diritto di creare un nuovo califfato "benedetto" (dal 750 al 1258). Salendo al potere tre decenni dopo la morte del profeta Maometto e subito dopo il Califfato dei Rāshidūn, gli omayyadi avevano costituito un impero arabo che governava su una popolazione che era composta prevalentemente da non-arabi e da non-musulmani. I non arabi erano trattati come cittadini di seconda classe, indipendentemente dal fatto che si fossero convertiti all'Islam, e questo malcontento portò al rovesciamento degli omayyadi. La famiglia degli abbasidi era discendente dal profeta Maometto, e la loro rivoluzione segnò di fatto la fine dell'impero arabo e l'inizio di uno Stato multietnico più inclusivo, in Vicino e Medio Oriente. Ricordata come una delle rivoluzioni meglio organizzate della storia islamica, essa riorientò l'attenzione del mondo musulmano verso Oriente. Il sostegno alla rivoluzione abbaside venne da persone di diversa estrazione, con quasi tutti i settori della società che si impegnarono nell'opposizione armata al dominio degli omayyadi. Ciò fu particolarmente vero per i musulmani di discendenza non araba, anche se gli stessi musulmani arabi non erano in buona misura contenti degli omayyadi e dell'autorità centralizzata che andava a scapito dei loro stili di vita nomade. Sia sunniti che sciiti sostennero gli sforzi per detronizzare gli omayyadi, come fecero i sudditi non-musulmani dell'impero che risentivano della discriminazione religiosa.
Il sunnismo, in arabo ahl al-sunna wa l-jamāʿa, il popolo della Sunna e della Comunità, è la corrente maggioritaria dell'Islam, comprendendo circa l'85% dell'intero mondo islamico. Essa riconosce la validità della Sunna, e si ritiene erede della giusta interpretazione del Corano. Nell'Islam, oltre al sunnismo, le principali confessioni sono rappresentate dallo sciismo e dal kharigismo, e presenti inoltre numerose forme minori. Sunnismo e sciismo costituiscono il 99% dei fedeli islamici. Nel sunnismo, così come nelle altre confessioni islamiche, ci sono divisioni interne tra i credenti sufi e coloro che rifiutano l'approccio sufico.
Mu’awiya prende il potere e si fa massima autorità politico-religiosa e militare dopo la morte di Alī, nel 661. Alī era il genero di Maometto. Dopo la morte di Alī, i suoi seguaci, gli alidi, poi sciiti, si radunano attorno alla figura di Hassan, primogenito di Alī e Fātima, diretto nipote del profeta Mohamed. Hassan è un personaggio determinato, ma che per amore della pace e della concordia all’interno della Umma, vuole rimanere pacifico. Secondo la storiografia islamica viene trovato un accordo pacifico tra Mu’awiya e Hassan, per evitare violenze e pratiche denigratorie. Inizialmente Mu’awiya decreta come suo successore, proprio seguendo la teoria della riappacificazione, Hassan, che però morirà in ritiro a Medina nel 669. Il califfo allora sceglie come suo erede il figlio Yazid, fatto che scatena un certo scalpore, dato che il concetto dinastico, e il passaggio del potere da padre in figlio, non era contemplato nella logica politico-amministrativa islamica. La pratica della parentopoli, non era ben vista, poiché pratica tipica degli imperi e regni di epoca pre-islamica, come per esempio sotto l’impero bizantino e sasanide, di conseguenza era un atteggiamento inaccettabile e da combattere. Dopo la morte di Hassan, figlio di Alī, morto per cause naturali in ritiro a Medina, e dopo la nomina di Yazid, figlio del califfo Mu’awiya, scoppiano piccoli tumulti, che però, vengono repressi all’istante nel sangue, dato che ora, ribellarsi all’autorità, titolata Khalifa Allah, voleva dire ribellarsi al prescelto di Dio sul mondo terreno, e quindi ribellarsi contro la volontà di Dio, e di conseguenza, voleva dire ribellarsi contro il divino. Sotto il governo califfale del quinto califfo ben guidato Mu’awiya, della dinastia degli omayyadi, non si può parlare propriamente di califfato islamico o Islam per come noi oggi lo intendiamo, nel senso di dottrina religiosa universale.
Per quanto riguarda gli sciiti, il nome sciiti deriva dall'espressione araba shīʿat ʿAlī (fazione di ʿAlī), sovente abbreviata semplicemente in Shīʿa. Gli alidi si cominciarono a differenziare dal resto della Umma (comunità islamica), dal momento che considerarono Alī unica guida (imām) legittimata a governare, mentre il resto dei musulmani ritenne che qualsiasi fedele di buona capacità religiosa, non necessariamente discendente del Profeta, potesse guidare a pieno titolo la comunità islamica. Col tempo gli alidi misero per iscritto le loro riflessioni teologiche e politiche, evolvendo verso quello che diventerà il vero e proprio Islam sciita.
L’imamato è l'articolo di fede che più caratterizza l'Islam sciita. Dio non volle permettere che gli uomini si perdessero e per questo ha inviato loro i Profeti per guidarli. Ma la morte di Maometto mette fine alla catena profetica iniziata con Adamo e continuata con Noè, Abramo, Mosè e Gesù, ed occorreva dunque un garante spirituale della condotta degli uomini che fosse e desse prova della veracità della religione e dirigesse la comunità. Questi è l'Imām, la Guida. Egli deve soddisfare un certo numero di condizioni: conoscere la religione, essere giusto ed esente da difetti, in altre parole essere il migliore del suo tempo. Egli viene investito dallo stesso Profeta e quindi dall’Imām che lo ha preceduto.
Contrariamente ai sunniti, dunque, gli sciiti affermano che la comunità, dopo la morte del Profeta, doveva essere guidata da Alī, suo cugino e genero avendone sposato la figlia Fātima, e dal Profeta nominato primo Imām. I discendenti di Alī dovevano esserne gli eredi nell'Imamato. Questa rivendicazione in origine possedeva un carattere esclusivamente politico-religioso, ma nel tempo è venuta a rappresentare un aspetto fondamentale della teologia sciita.
La concezione dell'Imamato da parte degli sciiti, diversamente dal califfato contemplato dagli altri musulmani, incarna sia l'autorità temporale che quella spirituale, ed è considerato la continuazione del ciclo della profezia. Secondo gli sciiti duodecimani (ramo maggioritario entro lo sciismo), i primi dodici Imām, investiti in tale ruolo da Dio stesso, dal Profeta o dall’Imām precedente, sono stati rappresentanti infallibili di Dio stesso su questa terra e custodi della Rivelazione.
Per lo sciismo gli Imam sono depositari della conoscenza esoterica del Corano. Secondo la corrente ismailita dello sciismo, Adamo instaurò in questo mondo la “nobile Convocazione” (da’wat al-sharīfa). Con essa ebbe origine la gerarchia esoterica permanente, destinata a durare per ogni ciclo della storia, prima dell’Islam e dopo l’Islam.
L’Islam si estese nel mondo grazie alle conquiste portando anche la lingua araba. Il processo di arabizzazione ebbe conseguenze all’interno della produzione letteraria classica, dove gli autori erano in realtà di altre culture e di altre lingue ma che dovettero imparare l’arabo per rapportarsi all’amministrazione (apprendendolo meglio degli arabofoni nativi). Sotto gli omayyadi, pertanto, si avvertì la necessità di assimilare tutte i substrati linguistico-culturali alla lingua egemone. Sotto gli abbasidi, invece, si creò un programma pedagogico per unificare sotto la sola influenza islamica, e non più linguistica (l’arabo era diventato ormai la lingua dotta), tutti i substrati del califfato: il programma, quindi, introdusse il primo dizionario arabo.
Nella bayt al-ikma si iniziò a pensare che era necessario apprendere la filosofia e le altre scienze greche e persiane (ma anche ebraica, egiziana e così via) come, ad esempio, la medicina che venne iniziata nella versione araba dai dotti musulmani grazie alla traduzione in siriaco di Galeno. Vennero introdotte quindi parole straniere per concetti estranei alla cultura arabo-islamica (falsafa: ad oggi avversata dalla propaganda fondamentalista anche tramite spiegazioni linguistiche dato che non è presente nel Corano).
Adab: letteratura come “prosa morale”, “strumento pedagogico” che riguardava tutte le discipline, non solo la letteratura in senso stretto. Dalla radice radice waddaba, “rendere colti”. L’opera quindi “ingentiliva” l’umano, ma l’enfasi era posta soprattutto sulle regole e sulla moralità, quindi non erano letture di piacere ma letture pedagogiche. Grazie alla trascrizione del Corano (la cui lingua ha valore sacrale ma ancor più giuridico) l’Islam ricevette quella “cultura” che cristiani ed ebrei avevano già ben sviluppata.
La caratteristica dell’erudizione riguardo la prosa di adab e di tutte le discipline che ne derivano (anche la grammatica) è la forte preservazione della lingua, dove questa diviene oggetto meticoloso di perfezione, dovuta appunto dal carattere sacro della stessa, e gli adib avevano il compito di impedire la contaminazione che avviene grazie ai contatti con altre lingue e culture.
La calligrafia è un elemento fondamentale della cultura arabo-musulmana dal momento che sostituisce l’arte sacra tipica del mondo occidentale. Vi è infatti in questo contesto il rifiuto della figura, che può portare a una fascinazione idolatra deviante, una caratteristica quindi che può indurre alla deriva politeista di cui l’Islam vuole essere lo sradicatore. La possibilità delle lettere di legarsi e cambiare forma hanno contribuito pertanto alla formazione dell’arte della calligrafia, facendola al tempo stesso distinguere dalla scrittura dell’ebraico (passaggio di mezzo: nabateo). Col tempo, l’arabo sentì la necessità di evolversi ulteriormente dal nabateo, sia per il numero di lettere, che per la grafia e soprattutto per la distinzione delle lettere tramite punti diacritici.
Dopo la morte di Maometto, molti capi tribù entrati nell’Islam per convenienza tornarono alla jahiliyya, cioè la cultura infedele, anche letteraria, pertanto il primo califfo dovette lanciare un’offensiva verso di loro accusandoli di ridda, ovvero apostasia. Eppure l’apostasia non era un reato presente nel Corano: era presente in realtà in un hadith del Profeta, che lo indicò come un reato per cui uccidere un musulmano. Per questi eventi si scatenarono delle guerre e durante queste, le cosiddette Guerre della Ridda, molti quffadh, ovvero i compagni del Profeta degni di recitare il testo sacro, vennero sterminati e quindi, anche per questo, venne deciso di mettere per iscritto il Corano, fino allora tramandato oralmente: cioè con lo scopo di non perdere per sempre la conoscenza che proprio queste figure portavano avanti per tradizione orale.
L’estetica della parola piuttosto che dell’immagine è centrale nelle lingue semitiche dato che esse volevano evitare che il credente potesse cadere nell’idolatria dell’immagine, così come queste volevano che il credente rifuggisse dal politeismo.
Possiamo dire che tutto il mondo arabo è imperniato sul culto della parola. Nel periodo pre-islamico il “capo” era designato con parole che significavano “colui che dice, che parla” (e, di qui, “che ordina”): sayyid, amir, qa’il. Anche il poeta era venerato quanto alla sua parola, infatti il termine sa’ir, “poeta”, deriva da una radice che significa “conoscere”: il poeta è colui che “conosce” per antonomasia. In seguito il Corano sarà al Kitab, “il Libro” per eccellenza: i contemporanei di Maometto furono talmente ammirati dalla perfezione stilistica e ritmica del Corano che smisero di scrivere per rispetto. Nessuna lingua come l’arabo sembra capace di esercitare sulla mente dei suoi uditori una fascinazione talmente potente. La declamazione delle poesie suscita un effetto molto incisivo anche se non sono capite nel significato, tanto che si parla di “magia permessa” (siḥr ḥalal).
Nelle varie tradizioni culturali gli studi filologici e linguistici iniziano quando la lingua dei dotti si allontana da quella parlata quotidianamente. Così avvenne in India quando si pose il problema della fissazione per iscritto dei Veda e così avvenne quando si pose il problema della fissazione per iscritto del Corano in forma definitiva affinché esso fosse capito da tutti. Non sorprende quindi che gli studi linguistici arabi provengono dai commenti coranici: la lessicologia studia i sensi delle parole del Libro sacro in rapporto a quelli della poesia arcaica, la fonetica sulla sua corretta pronuncia, la grammatica (morfologia, sintassi) sulla corretta lettura del Libro sacro.
Bisogna anche dire che tanta è la venerazione della parola nel mondo arabo che per i fedeli dell’Islam il Corano non solo induce alla scienza, ma è esso stesso scienza. È significativo che la radice ‘LM, “sapere”, che sta alla base della parola ‘ilm, “scienza”, ricorre nel Corano spessissimo (750 volte). A parte la radice di KWN, “essere”, e quella di QWL, “dire”, soltanto le parole Allah e rabb, “signore”, sempre in riferimento a Allah, appaiono più volte di ‘LM.
Le scienze più importanti della tradizione araba sono tre: grammatica, diritto (fiqh) e teologia (kalam). Tutte e tre si basano sul Corano. Come la grammatica contiene procedimenti di analogia (qiyas) con lo scopo di paragonare le parole del Corano con quelle profane, così il diritto ha procedimenti analogici per comparare le azioni e la teologia per comparare relativamente alle proposizioni sacre.
La grammatica si serve di “spiegazioni razionali” (‘ilal), tanto che un numero notevolmente grande di opere di grammatica porta nel titolo la parola ‘ilal.
Mediante l’uso della ragione la grammatica è simile al fiqh. Ibn al-Anbari disse: “la grammatica rappresenta il razionale di ciò che viene trasmesso (oralmente), così come il fiqh è il razionale di ciò che viene trasmesso”.
Un concetto fondamentale della grammatica araba classica è quello di ‘amil. Il termine è un nome d’agente di un verbo che significa “agire” (‘amila). Si tratta di un principio che spiega la flessione desinenziale per mezzo dell’azione di questo ‘amil, “operatore”. Per esempio, il nome è marfu’ (“sollevato”) in un caso nominativo, invece è magrus (“tirato”) al genitivo e manṣub (“sostenuto”) all’accusativo. Questo “operatore” può essere un verbo, che giustifica il nominativo dell’agente e l’accusativo del complemento oggetto, ma può essere anche l’intenzione significativa del parlante, che giustifica il nominativo del tema dell’enunciato. Quindi questo “operatore” fa parte di una teoria esplicativa che adotta un procedimento analogico caso-modalizzazione. L’analogia si riferisce al movimento, all’azione, e non fa che strutturare teoreticamente tendenze che sono quelle del senso comune.
Anche se la riflessione teorica (grammatica) relativa alla lingua araba prende avvio dai commentatori del Corano, i primi grammatici arabi veri e propri hanno tendenze diverse rispetto ai commentatori. A questi ultimi, infatti, interessava la lingua solo secondariamente, cioè per capire il messaggio del testo coranico, che a volte era oscuro, mentre ai grammatici interessava il testo coranico per arrivare alla definizione delle regole della lingua araba.
Nella riflessione linguistica araba gioca un ruolo di primo piano il concetto di idmār, che si può tradurre con “ellissi”, vale a dire quando nel discorso si omette una parola o una intersa frase.
Il termine idmār è il nome verbale (maṣdar) di aḍmara, che significa “tenere nascosto, occultare, tacere, sottintendere” ma anche “esprimere mediante un pronome”. Il participio passato, maḍmar, può voler dire sia “sottinteso, occultato, taciuto” sia “espresso con un pronome”.
Ayoub sostiene che per i grammatici arabi medioevali i termini idmār e maḍmar servono a designare, da una parte, i pronomi personali anaforici e in generale ogni elemento che rimanda a precedenti enunciati (insomma i nomi che sono segni di ciò che è sottinteso), ma dall’altra anche gli elementi senza valore fonico, identificabili in termini categoriali e aventi un effetto sulla sequenza fonica. Questo effetto viene chiamato in arabo ‘amal, “assegnazione di caso” o “reggenza”. Nonostante i due gruppi linguistici identificati da Ayoub non sembrano essere distinti su un piano logico, a Solimando sembra che il grammatico Sibawayhi intenda per idmār l’ellissi di un termine di un enunciato.
Un procedimento quale l’idmār presuppone il ruolo del locutore, infatti l’ellissi è legittima solo se è voluta esplicitamente da chi parla (locutore), ed è accettata solamente nel caso in cui non generi ambiguità.
Da parte sua il grammatico ha il compito di ricostruire l’enunciato attraverso il tamtil, procedimento che consiste nella rappresentazione del termine sottinteso; così facendo Sibawayhi non rende solo esplicito ciò che il parlante ha volutamente omesso ma, attraverso questa operazione, illustra le relazioni sintattiche e fornisce, al tempo stesso, una chiara spiegazione della struttura dell’enunciato. Pertanto l’idmār gioca un ruolo chiave nella riflessione grammaticale per la spiegazione delle regole della lingua araba, che funzionano nell’enunciato così espresso.
Va sottolineato, relativamente alla opera di Sibawayhi, che il concetto di tamtil è assolutamente scevro di implicazioni semantiche: la ricostruzione dell’enunciato non consiste in una ricostruzione del suo significato. Il solo aspetto indagato è la reggenza (‘amal), cioè in buona sostanza come funziona dal punto di vista astratto, secondo le categorie grammaticali della lingua araba estrapolate dai grammatici.
Dopo Sibawayhi, il grammatico Ibn Ginni è stato il teorico della lingua che ha dato il maggior contributo alla storia dell’ellissi. Mentre nel primo la parola idmār indicava qualche cosa di diverso dal termine ḥadf, invece in Ibn Ginni le due parole diventano dei sinonimi. C’è un passaggio famoso dell’opera di Sibawayhi in cui compaiono nella stessa frase idmār e ḥadf a indicare due concetti diversi. Invece Ibn Ginni battezza formalmente la sinonimia tra queste due categorie grammaticali entro la lingua araba.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 36 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
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Libri pubblicati da Riflessioni.it
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