Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
L'amore misericordioso di Dio
di Marco Calzoli - Dicembre 2024
“Felici un tempo gli eterni dei, quando si narra che essi non si vergognavano di servire palesemente Venere. Ora quel dio è la favola di tutti; ma chi ama una fanciulla, preferisce essere una favola piuttosto che un dio senza amore”
Felices olim, Veneri cum fertur aperte
servire aeternos non puduisse deos.
fabula nunc ille est, sed cui sua cura puella est,
fabula sit mavolt quam sine amore deus (II, 3, vv. 29-32)
Così cantava il poeta romano del I secolo a.C. Albio Tibullo. Di lui ci rimangono solo elegie amorose in uno stile non arcaizzante né troppo aulico. Le divinità dell’antichità classica avevano passioni umane, si innamoravano tra di loro e amavano anche gli esseri umani. In questo ultimo caso si parla di ierogamia, come Amore e Psiche.
I poeti antichi erano ispirati dagli dei, condizione che non è paragonabile alla nostra. Si trattava di un “entusiasmo”, dal greco en, theos, cioè avere un dio dentro, era quindi una sorta di possessione divina che toglieva momentaneamente l’uso della ragione.
Il primo a collegare la poesia all’invasamento della ragione è stato Democrito, per il quale, secondo la testimonianza di Clemente Alessandrino, un’opera di poesia è veramente bella se è composta con enthousiasmos e “spirito sacro”, ieron pneuma.
Il compito dei poeti antichi quindi era quello di essere “comunicatori” del volere degli dei che questi ispiravano prepotentemente nel vate. Per tale ragione Pindaro, poeta greco arcaico a cavallo tra VI-V secolo, diceva di essere ermaneus. Cosa era la ermēneia? Il latino Demetrio traduceva l’espressione greca perì ermēneias con de elocutione. Quindi più anticamente la parola non aveva nulla a che fare con il senso posteriore di “interpretazione, esegesi” (che compare per la prima volta in Platone) bensì con quello di “espressione, comunicazione”. Il poeta era insomma un profeta, colui che parla al posto del dio, in quanto il dio sta in lui, come tra l’altro il daimōn socratico, non “demone” ma divinità in genere. Pindaro infatti si definisce anche aoidimos profatas, cioè “cantante profeta”.
Quanto i poeti antichi ci hanno parlato in vece degli dei! I loro amori divini, gli amori tra le divinità e gli uomini! Atena che soccorre Odisseo apparendogli con thaumasia, “meraviglia”, senza farlo traballare nell’estasi, vale a dire come fosse una dolce compagna, oppure pensiamo ai numi protettori delle case dei popoli antichi, presenze amiche e familiari che custodivano le abitazioni e i loro fruitori. Gli dei ispiravano Pindaro a cantare le persone vittoriose nelle imprese sportive, quasi come se loro stessi fossero ammirati del talento e dell’agile corsa di quegli antichi atleti.
Uno dei titoli del re egiziano era Meriamon, cioè Amato dal dio Amon. Le piramidi erano dette Mer, termine che indica “amore, desiderio” perché costituivano l’incontro benevolo tra le divinità e il faraone, nelle quali questi veniva risuscitato alla vita beata. Nella Iscrizione di Borsibba il re babilonese Hammurabi viene definito “pastore amato da Marduk”, re’um na-ra-am Marduk.
L’ebraismo presenta un Dio a volte severo ma che ama anch’egli il suo popolo, altresì con una misericordia materna. Uno dei termini per indicare la misericordia di Dio nella Bibbia è rachamim, un plurale ebraico che vuol dire letteralmente “viscere materne”. Inoltre il profeta Osea dichiara che Dio e il popolo di Israele sono come marito e moglie (Osea 2, 21-25). Isaia 54, 6-8: “Come una donna abbandonata e con l'animo afflitto, ti ha il Signore richiamata. Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore”. La antica versione greca di Aquila traduceva con “un atomo di tempo”, cioè Dio ha abbandonato la sua sposa per una frazione di secondo, una inezia.
Ma questo tipo di legame non è erotico, come avveniva nei riti dei popoli antichi, nei quali la sizigia della unione tra dei o tra un dio e un mortale veniva celebrata in orge, bensì è squisitamente salvifico. Il Dio di Israele non richiede riti sessuali come quelli dei cananei, tacciati nella Bibbia di essere idolatri, bensì vuole amore spirituale. Osea 6, 6: “Amore voglio e non sacrifici”, chesed hafasti velò sabach.
Il monito costante dei Profeti è quello della religione sentita e non solo proclamata con la bocca. Il Signore ha voluto sempre sacrifici e altre ritualità, ma li preferisce all’amore (reciproco), che è la vera cifra della religione. Nelle lingue semitiche, alquanto arcaiche, si faceva scarso uso dei comparativi e quindi per dire che Dio preferisce l’amore si diceva: “Amore voglio e non sacrifici”. Poi l’amore non è prescritto da una volontà di Dio, in quanto il verbo ebraico hafasti vuol dire in sé “desiderare” con una sfumatura di piacere. Pertanto Dio ha piacere più della relazione intima con il suo popolo che da altri elementi, che Egli però non annulla.
Secondo questa esegesi va compreso il comandamento “Non nominare invano il nome di Dio”. I comandamenti sono caratterizzati da uno stile antico detto “apodittico negativo”, per il quale si nega una realtà per affermare il contrario. “Non uccidere” vale certamente contro l’omicidio ma la essenza sta nella esaltazione positiva della vita. “Non rubare” è da un verbo ebraico che indica essenzialmente il sequestro di persona, quindi prescrivere di non sequestrare la persona è una esaltazione positiva della libertà, come nella Lettera ai Galati. “Invano” è in ebraico shaw, un termine del lessico idolatrico che significa “vanità” nel senso di “vuoto”, riferito all’idolo, che non può salvare. Il “nome”, shem, indica in ebraico la persona stessa (in questo caso di Dio), non un mero fiato di voce. Nel Vicino Oriente antico non vi era la bestemmia, ancora oggi in arabo la bestemmia non si può formare quasi grammaticalmente. Pertanto, considerando queste coordinate, il comandamento vuole preservare la purezza della religione, senza fare di Dio un idolo solo da invocare con le labbra. Dio non vuole riti sterili, ma desidera essere amato! E l’amore che egli vuole non è un imperativo, ma sta alla fine di un percorso, dopo che lo si è conosciuto. In Deuteronomio 6, 5 è scritto “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore”, nell’originale ebraico non si usa un imperativo bensì un futuro, sfumatura che indica come Dio consideri l’amore come un processo, è in fieri (e non una imposizione).
Il Cantico dei cantici è un delizioso poemetto biblico nel quale si canta l’amore tra un ragazzo e una fanciulla, ma che in filigrana fa trasparire quello tra Dio e il popolo di Israele. Nel capitolo 8, ai versetti 5-6, è scritto:
“Chi è colei che sale dal deserto appoggiata al suo amico?, mi zot ‘olah min-hamidbar mitrappeqet ‘al dowdah. Io ti ho svegliato sotto il melo, dove tua madre ti ha partorito, dove quella che ti ha partorito si è sgravata di te.
Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio; perché l’amore è forte come la morte, la gelosia è dura come il soggiorno dei morti. I suoi ardori sono ardori di fuoco, fiamma dell’Eterno”, reshapeha rishpe ‘esh shalhebetyah.
L’espressione “salire dal deserto” allude alla uscita degli ebrei dall’Egitto, l’evento cardine della storia ebraica, quando Dio durante la traversata del deserto diede agli ebrei l’Alleanza sulle Tavole della Legge. Abbiamo un senso meramente letterale, quello di due amati appoggiati l’uno coll’altro. Il participio femminile hitpael mitrappeqet deriva da una radice che è un hapax. In arabo abbiamo marpiq, sostantivo dal valore di “gomito”; il verbo arabo ha il valore di “essere d’aiuto”, ma nell’VIII forma significa “appoggiarsi col gomito”. Questa e altre indicazioni che ci fornisce la filologia comparata spingono i traduttori a vedere in questo passo la tipica esperienza di due amanti abbracciati che procedono lungo la via. Ma a livello di un senso traslato, il deserto è nell’immaginario biblico il luogo per eccellenza dove Israele fa esperienza di Dio. Il Cantico sta dicendo che nell’amata vi è la tensione spirituale che accompagna da sempre l’umanità salvata: l’incontro con il vero Amato. Ma potrebbe esserci anche di più. L’autore sta ammiccando probabilmente anche alla risurrezione dell’ultimo giorno, infatti il verbo “salire” (‘lh) sarebbe salire dalla morte alla vita, la quale era vista dagli ebrei come un secondo esodo, quello definitivo. Il fuoco è un simbolo di Dio, le fiamme infatti vengono dette “di YHWH”, ammiccano al roveto ardente di Esodo 3.
Garbini propone una congettura interessante riguardo mitrappeqet. Le diverse varianti dei manoscritti ebraici relative a questa lezione e la strana aggiunta della Vulgata “deliciis affluens”, che presuppone un ebraico mthpst e richiama il mtpnqyn, “che si deliziano”, del Targum del Cantico, fanno capire che la fanciulla non si sta appoggiando a nessuno, ma sta facendo qualche altra cosa. Garbini dà un peso alla variante del manoscritto K 101, che è mtrp: Garbini quindi pensa a una figura femminile che avanza “ondeggiando”, cioè muovendosi in maniera sinuosa e delicata, tanto da suscitare la dolce ammirazione di chi la guarda.
Stando alla lettura tradizionale, la fanciulla si appoggia al suo uomo. Stando alla ipotesi di Garbini, la fanciulla avanza delicatamente. Secondo noi, perché avanza dolcemente nel deserto? Seguendo per via ipotetica la lezione del manoscritto K 101, possiamo sospettare che la fanciulla sia amata da Dio, per questo oltrepassa l’ostile deserto senza fatica e senza pena, deliziosamente. In compagnia di Dio, ancor prima di arrivare alla Terra Promessa nella quale scorrono latte e miele, il popolo di Israele fa esperienza anticipatrice del paradiso divino, siglato dal sigillo dell’amore misericordioso di Dio.
Oppure che sia ammiccamento all’Arca dell’Alleanza che procede nel deserto ondeggiando (perché trasportata)?
In ebraico il deserto (midbar) richiama dabar, “parola”, in quanto è lì che Dio parla. Il Vangelo di Marco si apre nel deserto con una citazione di Isaia (40, 3): “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore”. Ma i manoscritti greci che tramandano il Nuovo Testamento sono in scrittura continua, cioè le parole sono tutte unite, quindi si potrebbe rendere anche: “Voce di uno che grida: nel deserto preparate la via al Signore”. È significativo che pure un testo del Mar Morto, la Regola della Comunità (1QS), si apre con la stessa citazione. Bisogna altresì dire che il passo di Isaia è in ebraico pannu derek, “preparate la via”. Nella letteratura babilonese si incontrano passi analoghi in cui si dice di preparare le vie processionali o trionfali per il dio o il capo vittorioso. La parola derek indica nella Bibbia ebraica anche la vita. È nel deserto stesso, luogo in cui parla Dio, che si trova la vita, quindi è da lì che occorre cominciare per portare la salvezza.
Perché Dio parla proprio nel deserto? Perché esso, senza Dio, era il luogo più ostile. Per le fonti assire il deserto (madbaru) era “il luogo da cui si è cacciati” dall’ostilità della natura. Non c’era peggiore punizione che perdersi nel deserto. Ma il Dio di Israele salva per amore il suo popolo ed è proprio nella solitudine e nella prova più estrema che YHWH si rivela, come fece anche a Giacobbe, estremamente provato, ma che sogna gli angeli dormendo sopra una nuda pietra, quella che sarà la pietra di fondazione del futuro Tempio di Gerusalemme.
In ebraico biblico il termine midbar indica anche qualche cosa di positivo perché nel deserto si manifesta Dio ed esso è anche il luogo del pascolo dove gli armenti possono vivere tranquilli. In Palestina non vi è il deserto sabbioso del Sahara ma esso è prevalentemente roccioso e stepposo, con qualche arbusto che fa da nutrimento. Invece il termine ebraico shemama copre solo l’aspetto negativo di midbar, riferendosi alla devastazione degli insediamenti provocata da una punizione divina. Isaia 1, 7: “Il vostro paese è devastato (shemama), le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è una desolazione (ushemamah) come devastazione di stranieri”. La CEI traduce non letteralmente bensì “… come la devastazione di Sodoma”, ma è semplicemente una congettura in quanto “stranieri”, zarim, ricorre nella frase precedente e nella Bibbia spesso il sostantivo “devastazione, distruzione”, hepekat, ricorre con Sodoma. In Geremia 9, 10 shemama viene usato in parallelismo con “tane di sciacalli”, me’on tannim.
Nei testi del Mar Morto la parola midbar viene impiegata spesso con toponimi ma anche in un senso negativo. È interessante che la traduzione greca della Septuaginta rende il sostantivo con il greco erēmikos, che altrimenti viene impiegato per tradurre chrb, “sconsolato”, “abbandonato”, “isolato”. A Qumran il deserto viene immaginato come il luogo simbolo del caos, che si oppone alla civilizzazione e alla creazione divina, infatti nella tradizione enochiana il “grande deserto” (4Q530) è l’opposto del mondo abitato.
Sapienza 5, 7: “Ci siamo saziati nelle vie del male e della perdizione; abbiamo percorso deserti impraticabili (erēmous abatous), ma non abbiamo conosciuto la via del Signore”. Il deserto è il simbolo del male, della condizione peccatrice nella quale non si conosce Dio né le sue leggi. E nella Bibbia il verbo ebraico yadah, tradotto con ghignōskein, non indica tanto una conoscenza razionale bensì la relazione di amore. È significativo che in egiziano il verbo rex, “conoscere”, con il determinativo dell’organo genitale maschile significa “amare”. Il termine greco abatos è aggettivo tipico del deserto o della terra che sta diventando deserto (Salmo 65, 2); senza strade né acqua questi deserti non hanno vita e rappresentano la condizione di coloro che, senza il Signore, non possono vivere, non ricevono salvezza. Deuteronomio 30, 15: “Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male”.
Lo stile di Dio è un amore senza limiti, che cerca proprio gli ultimi e li trova nelle condizioni più disperate. Il profeta Geremia era giovane, forse balbuziente (come Mosè) e incapace, ma Dio lo destina a una grande impresa. I santi dicono che gli umili e i malati sono gli amici prediletti di Dio. Ed è nella sofferenza più atroce che Dio viene a salvarci, e aggiungiamo che il vero male non è tanto quello fisico ma quello morale. Il vero “deserto” è il peccato, per questo Gesù dice che sono i malati che hanno bisogno del medico (Matteo 9, 12).
Il popolo ebraico era uno dei più desolati della terra. Era una nazione di schiavi oppressi dagli egiziani. Ma Dio sceglie proprio loro, facendoli uscire dalla prigionia nel deserto. Durante la traversata sta con loro: appare a Mosè sul monte Sinai e gli dà la Legge e li segue discendendo come una nube sopra la tenda che custodiva l’Arca dell’Alleanza, una teca in legno che conteneva le Tavole della Legge. Dio li seguiva sopra questa tenda per tutti i 40 anni del passaggio nel deserto fino alla Terra promessa, che Dio dà a Israele facendoli vincere sui popoli autoctoni.
In Esodo 19, 5-6, quando Dio dà la Legge, Dio dice: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti”. È significativo che si usa la parola ebraica segullah, un vocabolo nomadico-pastorale che indica il gregge che appartiene al pastore, a differenza di quello affidato in semplice custodia. Il popolo ebraico è il gregge che Dio guida. Nel prologo di Giovanni (1, 11) si dirà di Cristo: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto”, in greco eis ta idia ēlthen kai oi idioi auton ou parelabon. Gli studiosi notano che l’espressione greca “i suoi” (ta idia) traduce l’ebraico segullah e ciò rende ancora più grave il rifiuto del mondo operato nei confronti di Cristo, l’Uomo Dio incarnato per la nostra salvezza.
Il cristianesimo approfondisce ancora l’atteggiamento di Dio dicendo addirittura che “Dio è amore”, o theos agapē estin (1Giovanni 4). È interessante il sostantivo agapē. In greco antico abbiamo principalmente due sostantivi per indicare l’amore:
-
Erōs: amore passionale, erotico per l’appunto;
-
Filia: l’amore di amicizia.
Poi vi erano due termini senza particolari connotazioni: agapē e sterghēthron. Gli ebrei che hanno tradotto l’Antico Testamento ebraico e i cristiani presero il primo vocabolo, agapē, per indicare l’amore di Dio, anche quello cristiano, comunitario, salvifico.
Ricordiamo Giovanni 13, 34:
“Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri”, entolēn kainēn didōmi umin, ina agapate allēlous. Kathōs ēgapēsa umas ina kai agapate allēlous.
La traduzione è assai complicata. I vangeli sono stati scritti duemila anni fa e non è sempre semplice capire il senso di quelle antiche parole greche.
I due ina vanno intesi con una finalità (anche implicita), infatti in Giovanni non vengono mai accompagnati da termini che significano proibire qualcosa di male. Quindi Gesù vorrebbe dire che ci ha amati affinché anche noi ci amassimo reciprocamente.
Ma il greco biblico impiegava ina anche per tradurre la particella relativa aramaica de (l’aramaico era l’idioma di Cristo): quindi i due ina potrebbe avere un valore di congiunzione relativa (il comandamento con il quale dovete amarvi).
Altri vedono il primo ina con un senso epesegetico, equivalente cioè ai due punti per indicare quale sia il comandamento. Oppure può essere un ina con valore di imperativo (vi comando di amarvi). Un’altra possibilità è che sia completivo in luogo dell’infinito (Vi do un comandamento nuovo, quello dell’amarvi).
Il secondo ina potrebbe avere un valore consecutivo (in parallelo con “come”, kathōs), in conformità alla traduzione riportata.
Il “come” non è semplicemente comparativo, ma si rifà al ke veritatis della lingua ebraica, quindi ha un valore fondativo (è sul fondamento del mio amore che dovete amarvi). Oppure il “come” potrebbe avere anche un valore di rafforzativo dopo aver esplicitato il comandamento dell’amore: “Appunto come vi ho amati, voi dovete amarvi”.
Da considerare altresì i verbi. L’amore, assunto come base storica nella vita di Cristo (aoristo ēgapēsa), diventa la base e la fonte dove i suoi possono attingere per comunicare tra loro lo stesso tipo di amore (congiuntivo presente agapate). Il verbo ēgapēsa può essere inteso qui o come un aoristo complessivo o con valore di perfetto.
Il Salmo 27 così prega:
“1Il SIGNORE è la mia luce e la mia salvezza;
di chi temerò?
Il SIGNORE è il baluardo della mia vita;
di chi avrò paura?
2 Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici,
mi hanno assalito per divorarmi,
essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
3 Se un esercito si accampasse contro di me,
il mio cuore non avrebbe paura;
se infuriasse la battaglia contro di me,
anche allora sarei fiducioso.
4 Una cosa ho chiesto al SIGNORE,
e quella ricerco:
abitare nella casa del SIGNORE tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del SIGNORE,
e meditare nel suo tempio.
5 Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura,
mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora,
mi porterà in alto sopra una roccia.
6 E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano.
Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia;
canterò e salmeggerò al SIGNORE.
7 O SIGNORE, ascolta la mia voce quando t'invoco;
abbi pietà di me, e rispondimi.
8 Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
Io cerco il tuo volto, o SIGNORE.
9 Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo;
tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi,
o Dio della mia salvezza!
10 Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino,
il SIGNORE mi accoglierà.
11 O SIGNORE, insegnami la tua via,
guidami per un sentiero diritto,
a causa dei miei nemici.
12 Non darmi in balìa dei miei nemici;
perché sono sorti contro di me falsi testimoni,
gente che respira violenza.
13 Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del SIGNORE
sulla terra dei viventi!
14 Spera nel SIGNORE!
Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi;
sì, spera nel SIGNORE!”.
Dio è definito “mia salvezza”, il cardine di tutto il salterio e l’idea madre dell’intera teologia biblica. Dio è il go’el, il liberatore di chi era finito al gabbio per debiti secondo la normativa ebraica. È sulla base semantica della liberazione che si fonda la “redenzione”, lutrōsis, di cui parla il Nuovo Testamento, dal verbo greco luein, “sciogliere”.
Il verbo ebraico “salvare”, jsh’, indica di per sé l’aiuto nei confronti dell’alleato. Quindi se il salmista chiama Dio “mia salvezza” vuol dire che Dio è il compagno fedele che viene a soccorrere l’uomo nelle miserie, quelle procurate dai nemici, evocati per l’appunto nel Salmo.
C’è un filo che annoda questo testo con il Nuovo Testamento, per il quale “Gesù, il Figlio di Dio, è venuto proprio per distruggere le opere del diavolo” (1Giovanni 3, 8), il nemico per eccellenza dell’umanità. Infatti la parola “satana” deriva da una radice ebraica che vuol dire “accusare”.
Nel Salmo 27 al versetto 2 i nemici assaltano l’orante. Si tratta di un verbo bellico, la radice è qrb, in accadico qarabu. C’è una furiosa battaglia (v.3) e accanto al simbolo bellico c’è quello teriomorfico, una bestiaccia spaventosa che sbrana e strazia le carni della vittima. “Divorare”, le-‘ekol, mantiene il senso della crudeltà bellica ma può colorarsi anche di un significato ulteriore, sarebbe un semitismo per indicare l’insulto e la calunnia.
Anche qui c’è un passaggio al Nuovo Testamento, ove si dice: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pietro 5, 8).
Dove è la difesa? Nel tempio di Dio, nel quale abitare al sicuro tutti i giorni della vita. C’è un richiamo alla tenda e al segreto della dimora: il Santo dei Santi, ove vi era l’Arca dell’Alleanza, costituiva il luogo più recondito del Tempio, in quanto ivi dimorava Dio stesso.
Salmo 28:
“1Io grido a te, o SIGNORE;
Rocca mia, non essere sordo alla mia voce,
perché, se non mi rispondi,
io sarò simile a quelli che scendono nella tomba.
2 Ascolta la voce delle mie suppliche quando grido a te,
quando alzo le mani verso la tua santa dimora.
3 Non trascinarmi via con gli empi e con i malfattori,
i quali parlano di pace con il prossimo, ma hanno la malizia nel cuore.
4 Ripagali secondo le loro opere,
secondo la malvagità delle loro azioni;
retribuiscili secondo l'opera delle loro mani;
da' loro ciò che si meritano.
5 Poiché essi non considerano le azioni del SIGNORE,
né l'opera delle sue mani,
egli li abbatterà e non li rialzerà.
6 Benedetto sia il SIGNORE,
poiché ha udito la voce delle mie suppliche.
7 Il SIGNORE è la mia forza e il mio scudo;
in lui s'è confidato il mio cuore,
e sono stato soccorso;
perciò il mio cuore esulta,
e io lo celebrerò con il mio canto.
8 Il SIGNORE è la forza del suo popolo;
egli è un baluardo di salvezza per il suo unto.
9 Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità;
pascili e sostienili in eterno!”
Dio è “voce della mia supplica” (qol tachanunaj), “mia roccia” (shurj), “mio scudo” (maginnj). Con queste accorate parole il salmista chiede aiuto a Dio contro gli empi. Gli empi si trovano dovunque ma Dio salva chi si rivolge a Lui con tono di “supplica”, che in ebraico contiene la radice chnn, letteralmente “aver pietà”, “fare attenzione”. Il salmista si rivolge ancora alla dimora di Dio, al Debir, il santo, ove Dio dimorava nell’Arca dell’Alleanza.
La prima parte di questo salmo (vv. 1-5) ha molti parallelismi. In essa quasi tutte le seconde parti del verso iniziano spesso con waw copulativum. Quindi nell’alternarsi di diadi e triadi viene a formarsi un ritmo recitativo irregolare ma molto vivido che in toni aspri esprime l’urgenza della preghiera fatta di appelli a voce alta.
In quasi tutto il Salmo 28 emerge il verso lungo con cinque unità (3+2, 2+3). Invece il primo verso è più lungo, quindi vale la regola dell’anacrusi, secondo cui in posizione iniziale può trovarsi un elemento al di fuori del computo ordinario. Nel primo verso è “di troppo” il nome YHWH in vocativo, che quindi viene esaltato. Anche la parte finale del Salmo è più lunga, è “di troppo” l’espressione ‘ad ha’olam, “sino alla fine dei tempi”, che quindi viene esaltata.
Zaccaria così canterà l’avvento del Messia (Luca 1):
“68Benedetto il Signore Dio d'Israele,
perché (oti) ha visitato e redento il suo popolo,
69 e ha suscitato per noi una salvezza potente
nella casa di Davide, suo servo,
70 come aveva promesso
per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo:
71 salvezza dai nostri nemici,
e dalle mani di quanti ci odiano.
72 Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
e si è ricordato della sua santa alleanza,
73 del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
74 di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, 75 in santità e giustizia
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
76 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,
77 per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
nella remissione dei suoi peccati,
78 grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge
79 per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
e nell'ombra della morte
e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.
Si tratta del cosiddetto Benedictus, un famoso inno del vangelo di Luca, assieme al Magnificat. Quindi è scritto in greco, ma risente molto delle lingue semitiche.
Fra le principali particolarità linguistiche osserviamo il forte afflato semitizzante: oti, “perché”, che traduce l’ebraico ki (usato spesso per esprimere i motivi della preghiera biblica); “ha visitato”, epeskēpsato, che è un modo semitico per indicare l’intervento divino; “ha suscitato”, ēgheiren, usato nel senso dell’atto di suscitare una figura salvifica da parte di Dio (cfr. Giudici 3, 9. 15: ēgheira sotera); il genitivo di qualità (“corno di salvezza”, keras sōtērias; “viscere di misericordia”, splanchna eleous, cioè la bontà misericordiosa di Dio, dove splanchna, “viscere”, è una espressione greca che traduce rachamim dell’ebraico, “viscere materne”/”misericordia”); l’espressione “corno di salvezza” è tributaria di una metafora ebraica per la quale il “corno” indica la potenza; l’espressione “aveva parlato per bocca dei santi profeti”; il sintagma “fare misericordia ai nostri padri”, metà tōn paterōn, è una perifrasi di origine semitica al posto del semplice dativo; l’espressione “in santità e giustizia”, en osiotēti kai dikaiosounē, che è una locuzione avverbiale formata da un sostantivo in dativo preceduto dal greco en, che traduce l’ebraico be, in sostituzione di un avverbio, come avviene spesso nella traduzione greca della Septuaginta.
È stato anche osservato che, nella retroversione ebraica, “ricordarsi”, mnēsthēnai, v. 72 (likzor) e “giuramento”, orkon, v. 73 (hasbu’a), alludono rispettivamente a Zaccaria e a Elisabetta che compaiono in questo ordine in 1,5.
Tuttavia le pagine di Luca brillano anche di tratti di un greco corretto e sontuoso: la costruzione tōn agiōn ap’aiōnos profētōn, per bocca “dei suoi santi profeti di un tempo”, e la apposizione-soggetto rusthentas dell’infinito (latreuein) in accusativo (v. 74 “essendo stati liberati”).
Nei passi di stile anticotestamentario, vi è la tendenza a preporre un tou a un secondo infinito finale per amore di chiarezza, fenomeno che constatiamo nei vv. 77 e 79. Del resto il tou con l’infinito denota una certa ricercatezza stilistica e Luca lo presenta spesso quando c’è una successione di infiniti finali o consecutivi (venti volte nel Vangelo e sedici negli Atti).
In greco l’espressione stereotipata anatolē, il sorgere del sole (v. 78), potrebbe essere intesa sulla base del verbo ebraico zarah, che in greco corrisponde a anatellein, cioè per l’appunto “sorgere”. Quindi si tratta dello spuntare di un astro o qui questo stesso astro sorgente. Rifacendosi a immagini come Numeri 24, 17 o Isaia 9, 1; 60, 1 ss., nel giudaismo tardivo, specie a Qumran, si è volentieri paragonata la comparsa del Messia al risplendere di un astro. Altri interpretano anatolē da anatellein ma nel significato di “spuntare, sbocciare” detto di piante. Quindi il Messia sarebbe paragonato a un germoglio che sboccia, ma un germoglio non viene dall’alto e non splende. Luca, stando alla seconda accezione, riprenderebbe l’immagine di Isaia 11, 1: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici”, weyasa hoter miggeza’ yishay, weneser mishshrasawyipreh.
Paolo esprime questo ineffabile mistero, per il quale il Figlio di Dio si incarna tra di noi per salvarci, con queste parole (Efesini, capitolo 4): “1 Dio ha vivificato anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, 2 ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l'andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell'aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli. 3 Nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d'ira, come gli altri. 4 Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, 5 anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo, sun-ezōopoiēsen (è per grazia che siete stati salvati), 6 e ci ha risuscitati con lui, sun-ēgheiren, e con lui ci ha fatti sedere, sun-ekathisen, nei luoghi celesti in Cristo Gesù, 7 per mostrare nei tempi futuri l'immensa ricchezza della sua grazia, mediante la bontà che egli ha avuta per noi in Cristo Gesù”.
Per natura noi eravamo tutti “figli dell’ira” (tekna orghēs), che è un semitismo per dire che la condizione umana era giustamente degna di ira divina, alcuni traducono che eravamo tutti meritevoli di condanna. La particella greca avversativa de, “ma” (2, 4), esprime enfaticamente un distacco: nonostante le nostre colpe, Dio, “essendo ricco di misericordia” (plousios ōn en eleei), ci ha associati alla condizione del Risorto. Paolo intensifica l’unione tra noi e Cristo Risorto con verbi quali “con-vivificare”, “con-risorgere”, “con-far-sedere” (2, 5-6), nei quali compare “sun-“, “con-“, tradotto con “assieme”.
Per il Nuovo Testamento Cristo è Dio (Giovanni 20: “Signore mio e Dio mio”), quindi porre da una parte il peccato terribile degli uomini e, dall’altra, la associazione a Cristo Dio, significa semplicemente forzare la comprensibilità della salvezza cristiana oltre ogni limite. È impossibile capire i pensieri di Dio! Isaia 55, 8-9: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri”, lo machshebowtay machshebowtekem: è il concetto chiave del Secondo-Isaia.
Dio, “che abita una luce inaccessibile”, fōs oikōn aprositon (1Timoteo 6, 16), è Qadosh in ebraico, Santo, che etimologicamente vuol dire “separato” dal mondo degli uomini. Come è possibile dire che i cristiani abitano assieme al Risorto?
È il mistero profondissimo della divinizzazione dell’uomo. 1Giovanni 3: “Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
Il Salmo 42 così canta:
“1Come la cerva desidera i corsi d'acqua,
così l'anima mia anela a te, o Dio.
2 L'anima mia è assetata di Dio,
del Dio vivente;
quando verrò e comparirò in presenza di Dio?
3 Le mie lacrime sono diventate il mio cibo giorno e notte,
mentre mi dicono continuamente:
«Dov'è il tuo Dio?»
4 Ricordo con profonda commozione il tempo in cui camminavo con la folla verso la casa di Dio,
tra i canti di gioia e di lode
d'una moltitudine in festa.
5 Perché ti abbatti, anima mia?
Perché ti agiti in me?
Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora;
egli è il mio salvatore e il mio Dio.
6 L'anima mia è abbattuta in me;
perciò io ripenso a te dal paese del Giordano,
dai monti dell'Ermon, dal monte Misar.
7 Un abisso chiama un altro abisso al fragore delle tue cascate;
tutte le tue onde e i tuoi flutti sono passati su di me.
8 Il SIGNORE, di giorno, concedeva la sua grazia,
e io la notte innalzavo cantici per lui
come preghiera al Dio che mi dà vita.
9 Dirò a Dio, mio difensore: «Perché mi hai dimenticato?
Perché devo andare vestito a lutto per l'oppressione del nemico?»
10 Le mie ossa sono trafitte
dagli insulti dei miei nemici
che mi dicono continuamente: «Dov'è il tuo Dio?»
11 Perché ti abbatti, anima mia?
Perché ti agiti in me?
Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora;
egli è il mio salvatore e il mio Dio”.
Si tratta di un salmo molto personale, a differenza di altre suppliche che sono comunitarie. La scuola scandinava sostiene che i salmi hanno un “ambiente vitale” (Sitz im Leben), un intreccio di circostanze di tipo cultico: è il Tempio il luogo dove molti di essi fioriscono. Invece altri nascono da circostanze individuali, come il Salmo 42. Il protagonista di questa composizione è con ogni probabilità un sacerdote, un levita, che ha avuto il massimo della disgrazia possibile: è stato “scomunicato”, espulso dal sacerdozio e da Gerusalemme (è uno dei pochissimi salmi nei quali vi sono anche coordinate geografiche). Egli è stato mandato in domicilio coatto forse nella Galilea settentrionale, quindi lontanissimo dal Tempio. Questo sacerdote ha un interrogativo ben chiaro: perché Dio è indifferente? Compaiono poi i nemici e soprattutto quasi una entità che emerge prepotentemente, cioè la nostalgia di Gerusalemme, città che è il cuore di ogni ebreo.
Questo salmo è un’opera molto raffinata, quindi di composizione piuttosto tarda, anche se utilizza probabilmente un canto più arcaico. C’è una tecnica sontuosa per la quale il paesaggio esteriore è lo specchio di quello interiore.
Il primo atto di questa composizione si trova nei primi sei versetti. Al v. 5 abbiamo l’antifona (“Perché ti abbatti anima mia? Perché ti agiti in me?”), che ricompare al v. 11 e alla fine del Salmo 43, il quale quindi è unito al Salmo 42 anche se è stato poi separato.
“Perché” ricorre dieci volte, è un numero perfetto. Il Salmo canta un dolore sconfinato, una solitudine immensa. In questa prima parte il sacerdote si strugge per il ricordo di quando egli faceva la processione, il servizio al Tempio, durante il quale stava in contatto con la società. Nella Bibbia non esiste l’uomo solitario, che si erge contro la società: nella Bibbia l’essere umano è “un essere ramificato” (Wolff), in comunione con gli altri, con la società intera. Invece ora egli è un morto civile perché è stato allontanato. Esprime la sua malinconia con il verbo “anela”, che nell’originale è un termine raro, ta’arog, che mette in evidenza chi è disperatamente assetato e affamato e persino illuso. Il verbo in questione allude a qualcosa di odioso e ironico al tempo stesso, come quando una speranza viene frustrata dall’ironia della sorte, direbbero i filosofi. È una situazione tipica del deserto, quando tutti i corsi d’acqua, gli wadi, sono secchi e allora ci sono animali, come una cerva, che corrono lungamente in cerca di acqua in quelle distese immense. Dalla loro memoria gli animali sanno quali sono gli wadi prolifici ma l’estate è talmente torrida che li trovano tutti senza liquido vitale. Il verbo è collegato a questa esperienza drammatica del deserto, soprattutto perché poi questi animali si mettono a ululare dalla disperazione. Ciò che il salmista evoca è sia la disperazione per non aver trovato l’acqua sia la speranza delusa. È interessante che nel secondo atto (dal v. 7 in poi) compare molta acqua, ma che non placa la sete, come fosse una maledizione.
Il sacerdote si chiede: “Quando vedrò il volto di Dio?”: è una espressione tecnica che significa “quando andrò al Tempio?”. Per la Bibbia la liturgia è vedere il volto di Dio. L’altra domanda è: “Dove è il tuo Dio?”. è l’ironia di colui che si trova in una terra straniera e non scorge la presenza di Dio nella propria vita.
Il secondo atto circoscrive l’orizzonte. Domina il simbolo del Giordano, il fiume della Bibbia. Questo scaturisce dal monte Hermon attraverso una serie di cascate. L’autore ha davanti agli occhi queste cascate maestose, che indicano quasi l’abisso primordiale, il caos, le “grandi acque”, che Dio domina mediante la creazione, continuamente impedendo loro di distruggere tutto. Se nella prima parte il sacerdote desiderava l’acqua, in questa seconda parte le acque sono il simbolo del naufragio, della morte. Allora il presente è morte: questo perché l’autore vive in una terra controllata da pagani e avverte cosa vuol dire vivere come morti.
Pertanto il salmista prova estrema desolazione. Però, alla fine, il suo animo si apre alla speranza con il Salmo 43, che costituisce il terzo atto dell’intera composizione. Il Salmo 43 recita:
“1Fammi giustizia, o Dio,
difendi la mia causa contro gente spietata;
liberami dall'uomo iniquo e fallace.
2 Tu sei il Dio della mia difesa;
perché mi respingi,
perché triste me ne vado,
oppresso dal nemico?
3 Manda la tua verità e la tua luce;
siano esse a guidarmi,
mi portino al tuo monte santo e alle tue dimore.
4 Verrò all'altare di Dio,
al Dio della mia gioia, del mio giubilo.
A te canterò con la cetra, Dio, Dio mio.
5 Perché ti rattristi, anima mia,
perché su di me gemi?
Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui, salvezza del mio volto e mio Dio”.
Il poeta sogna che Dio lo strappa dai nemici e dalla morte, da questo abisso di acqua che tenta di affogarlo. Dio lo accompagna attraverso le due virtù fondamentali: verità e luce. Nell’originale ebraico ‘emet vuol dire oltre che “verità” anche “fedeltà”: Dio ha mantenuto la sua promessa di salvezza verso il suo consacrato. Ci sono delle tappe: Dio lo porta al monte santo, cioè a Gerusalemme, dove vi sono le dimore di Dio, mishknot, che è un plurale di residenza, in ebraico si usa spesso il plurale per indicare il luogo nel quale si abita, allora si tratta della Dimora, cioè il Tempio. E Dio lo accompagna fino all’altare in quanto il poeta è un sacerdote e deve celebrare il sacrificio. Notiamo la tecnica della inclusione: il Salmo 42 inizia con i canti (v. 4) e qui finisce con i canti.
Nella Bibbia il male non ha mai l’ultima parola. L’ultima parola spetta a Dio. Salmo 32: “Molti saranno i dolori dell'empio, ma la grazia circonda chi confida nel Signore. Gioite nel Signore ed esultate, giusti, giubilate, voi tutti, retti di cuore”. Guardini scriveva: “Non dalla profondità dell’uomo, ma dalla profondità di Dio emerge la verità dell’essere. Vi è un ontologico riposare del finito nell’Assoluto: noi siamo in Dio prima che in noi stessi. Egli è Colui che mi ha dato a me stesso”. Wittengstein scriveva sul suo quaderno: “Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. e collegare a ciò la similitudine di Dio in quanto Padre. Pregare è pensare al senso della vita”.
Dio mantiene la sua promessa di salvare e liberare l’umanità affranta. Dio è il Redentore di Israele. Con il Nuovo Testamento, questa promessa riservata agli ebrei viene donata anche a tutti i popoli che si fanno battezzare. Infatti Cristo è il Salvatore del mondo. Filippo aveva battezzato un pagano, funzionario della regina Candace; Pietro aveva battezzato la famiglia di Cornelio. Ma erano stati espisodi sporadici. Dove avviene la vera apertura ai pagani è Antiochia: “Alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare ai greci, annunciando che Gesù è il Signore. E la mano del Signore era con loro e così un grande numero credette e si convertì al Signore” (Atti 11).
Il messaggio di tutta la Bibbia è che Dio prova nei confronti dell’uomo amore misericordioso e viene a salvarlo. Dapprima con la Antica Alleanza e poi, nel Nuovo Testamento, con la Nuova Alleanza, quando lo stesso Figlio di Dio si incarna e muore in croce dando compimento ai sacrifici antichi.
Nell’Antico Testamento i verbi ebraici della misericordia sono:
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Racham: l’amore misericordioso viscerale, fortissimo di Dio verso il suo popolo (rachamim, “viscere materne”/”misericordia”);
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Chanan: indica l’atteggiamento di soccorso di Dio, infatti il sostantivo chen indica la grazia e la benevolenza ma non tanto come sentimento bensì come aiuto concreto. Insomma la radice veicola una costante predisposizione magnanima, benevola e clemente;
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Chessad: il sostantivo chesed indica la fedeltà di Dio alla propria Alleanza, berit, che si estrinseca come un soccorso misericordioso verso gli uomini. La frequente espressione chesed we ‘emet, “grazia e fedeltà”, può essere intesa come una endiadi. Ezechiele 36, 22: “Io agisco non per riguardo a voi, gente di Israele, ma per amore del mio nome santo”. Berit, “alleanza”, deriva da una radice che significa “guardare con determinazione”: è Dio che si china a guardare le miserie del suo popolo e quindi ne prova compassione;
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Altri termini (meno frequenti) sono il verbo hamal (che letteralmente significa “risparmiare” il nemico sconfitto, quindi “manifestare pietà e compassione”, di conseguenza perdono e remissione della colpa), il termine hus (pietà e compassione soprattutto in senso affettivo).
Nel Nuovo Testamento abbiamo questi termini greci:
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Eleos: corrisponde all’ebraico chesed. All’uomo che grida: “Abbi pietà, Signore!”, eleēson ēmas (Luca 17, 13), Gesù risponde prestando misericordiosamente il suo soccorso, aiutando tutti. Da notare che nel greco non biblico, nella terminologia retorica, indica la parte conclusiva del discorso con cui la difesa fa appello alla misericordia dei giudici;
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Oiktirmos: è la misericordia che si fa “com-passione”, infatti oiktos è il “lamento”. È l’equivalente dell’ebraico rachamim;
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Splanchna: letteralmente le “interiora”, ma metaforicamente indica l’amore misericordioso, fortissimo, viscerale di Dio. Si tratta dell’equivalente più diretto di rachamim. Nel Testamento dei Dodici Patriarchi ta splanchna diventa un tema fondamentale e indica la sede della misericordia. Alla fine dei giorni si ha la rivelazione delle viscere di misericordia di Dio attraverso il Messia, definito splanchnon Kyriou, “misericordia del Signore”. Giacomo 5, 11: “Il Signore è ricco di misericordia e di compassione”, polusplanchnos estin o kurios kai oiktirmōn. L’aggettivo greco polusplanchnos ricorre solo qui in tutto il Nuovo Testamento e significa letteralmente “di molte viscere”, nel senso di “molto misericordioso”. Probabilmente si tratta del calco di un plurale semitico usato in modo intensivo. Come nell’espressione ebraica YHWH tsabaot, dove il plurale significa letteralmente “degli eserciti”, ma dato che gli eserciti erano considerati una delle entità più potenti, il plurale sarebbe un intensivo per dire che Dio è “potentissimo”, quindi l’espressione si intende come Dio Onnipotente.
Il profeta Gioele, con uno stile molto poetico e un linguaggio colto, canta il Signore della misericordia. Gioele parla di un giorno escatologico nel quale il Signore verrà in potenza e farà fiorire il deserto. In 2, 21-23 è scritto: “Non temere, o terra del paese, gioisci, rallegrati, perché il SIGNORE ha fatto cose grandi! Non temete, o animali selvatici, perché i pascoli del deserto rinverdiscono, perché gli alberi portano il loro frutto, il fico e la vite producono abbondantemente! 23 Voi, figli di Sion, gioite, rallegratevi nel SIGNORE, vostro Dio, perché vi dà la pioggia secondo giustizia, e fa scendere per voi la pioggia, la prima e l’ultima, come prima”.
Dio all’inizio crea l’uomo e lo pone in un giardino meraviglioso, l’Eden, il paradiso terrestre. Alla fine dei tempi il Signore creerà di nuovo quel giardino. Ma bisogna intendere cosa significa esattamente il prima e il dopo nel linguaggio semitico. Dire che una realtà è all’inizio e alla fine significa esaltare la volontà di Dio, Signore della storia e di tutto quanto esiste. Gioele quindi sta esaltando la misericordia del Signore, con una immagine tipicamente semitica. È in buona sostanza anche un merismo, nel quale si pongono due estremi ma per abbracciare tutto quanto sta in mezzo. Dio non fa grandi cose solamente all’inizio e alla fine, ma le fa sempre perché è sempre misericordioso. L’amore misericordioso di Dio si spande sempre su ogni creatura, dall’inizio alla fine. Gesù dirà a Suor Faustina Kowalska che l’uomo è immerso nella misericordia di Dio più profondamente di un bambino nel grembo materno.
Salmo 125, 2: “Gerusalemme è circondata dai monti; e così il Signore circonda il suo popolo, sabib le’ammow, ora e per sempre”. Anche il Corano riconosce che Dio è “il più misericordioso dei misericordiosi” (12, 64: arḥamu l-rāḥimīna). Per Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, q20 a2) “l’amore di Dio è causa della bontà delle cose”, dove l’originale latino è più pregnante: amor Dei est infundens et creans bonitatem in rebus. Campanella sosteneva che l’occhio umano illuminato dalla grazia può vedere nella creazione le vestigia della Santa Trinità: Potenza (Padre), Sapienza (Figlio), Amore (Spirito Santo).
Lo stile di Gioele ha molti hapax e molte espressioni problematiche, che gli studiosi tentano di dipanare in varie maniere. Anche questo passo. Indichiamole brevemente alcune. Nel versetto 23 compare due volte la parola ebraica moreh, “pioggia”, quindi viene intesa come la pioggia autunnale e la pioggia primaverile. L’espressione dare la pioggia “secondo giustizia”, litsedaqah, significa, tra le altre cose, che Dio concede la pioggia, simbolo del suo amore, in virtù della giustizia, che nella Bibbia corrisponde alla sua volontà e alla signoria sulla storia. Il sostantivo moreh significa anche “maestro”, perciò alcuni intendono “maestro di giustizia”, come la Vulgata (quia dedit vobis doctorem iustitiae), sarebbe un richiamo al Messia, quale estensore della misericordia di Dio.
Dio nutre nei confronti dell’umanità intera e di ogni singolo uomo un amore misericordioso sconfinato. I santi riferiscono di aver incontrato un Dio “pazzo di amore” per l’uomo. Ma Dio, per attuare i suoi piani di salvezza, si serve delle creature. Si tratta dello Shalom messianico, la Pace messianica, che in ebraico significa “pienezza”, la totalità del progetto salvifico divino. È come se il Signore di tutto, l’Onnipotente, non avesse mani e si serve di quelle delle creature, primo fra tutti il Messia, Cristo, vero Dio e vero uomo, poi gli angeli, quindi tutti gli altri “operatori di Pace”, eirēnopoioi (Matteo 5, 9), in prima istanza la Vergine Maria, la più alta di tutti gli esseri umani e degli angeli, Mediatrice di ogni grazia che proviene dal Cuore misericordiosissimo del Signore, Madre di Dio, Theotokos.
Ogni battezzato ha come fine il Regno di Dio, come condizione la libertà dei figli di Dio e come statuto il precetto dell’amore. Ci sono tre modi per dimostrare amore verso il prossimo: l’azione, la parola e la preghiera. Antonio, il Santo di Padova, così scriveva: “Offri la tua buona volontà, se non hai la possibilità; e se le hai entrambe, molto meglio”. Per questo la chiesa, strumento dell’amore di Dio nel mondo, “è per il singolo individuo il vivente presupposto del suo personale perfezionamento. È la via della personalità” (Guardini).
Il profeta Daniele annuncia che Dio è sempre vicino al suo popolo. Come diceva Paolo, “chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Romani 8, 35). Ma oltre a questa tematica c’è quella per la quale Dio punisce chi si ribella. Suor Faustina ricevette la rivelazione privata della misericordia di Dio ma fu anche trasportata a vedere l’inferno, dove vanno i malvagi.
Nel 605 Giuda cade in mano ai babilonesi e ci sarà la prima ondata di deportati a Babilonia, si tratta della deportazione della intellighenzia del popolo di Israele, tra cui Daniele e i suoi amici Anania, Azaria e Misaele. Questi ragazzi lasciano le proprie abitudini e la propria religione, ma vengono anche evirati. Quanto sarebbe stato facile prendersela con Dio! Ma non lo fecero.
Nel 587 il re Nabucodonosor fa una statua d’oro e chiede di adorarla, ma gli amici di Daniele si rifiutano e vengono gettati in una fornace ardente. Nel 562 Nabucodonosor muore e gli succedono progressivamente vari re. Alla fine è il turno del re Nabonedo, che regna diciassette anni (556-539 a.C.). Nel 553 questi si reca nell’oasi di Taima e si dedica al culto del dio della luna, Sin. Al suo posto nomina il figlio Baldassarre, governatore di Babilonia. Per anni gli storici non hanno saputo nulla di Baldassarre, fino a quando nel 1853 furono ritrovate iscrizioni in pietra le quali rivelano che Nabonedo, per la maggior parte del tempo, visse fuori Babilonia e al suo posto mise il figlio Baldassarre, e proprio negli anni indicati dal libro di Daniele.
Adesso le forze persiane stanno circondando Babilonia. Nel frattempo Baldassarre fa una festa per un dio che avrebbe dovuto proteggere i babilonesi (capitolo 5 del libro di Daniele). Il nome stesso Baldassarre vuol dire “Bel ha protetto il re”, e Bel indica il dio babilonese Marduk. Egli si sente sicuro nelle sue massicce mura con dentro viveri per venti anni. Quindi sta lì e festeggia, e lo fa bevendo vino, lui, i notabili, le mogli e le concubine, con i vasi di oro e d’argento che Nabucodonosor aveva preso nel Tempio di Gerusalemme. Era un grave atto dissacrare ciò che gli ebrei consideravano appartenere a Dio, cioè le suppellettili del Tempio. Mentre è al banchetto, bevendo e dissacrando gli oggetti sacri, Baldassarre incurante della presenza dell’unico Dio vero, vede qualcosa che lo terrorizza. Si materializza una mano che scrive sul muro delle parole incomprensibili. Allora la gioia e la gozzoviglia si trasformano in angoscia e paura. L’arroganza e la diffidenza si trasformano in spavento.
Con una scena dal noto sapore orientale, il re promette a chi decifrerà la scritta di essere grandemente onorato: sarà elevato all’alto incarico di talti. Non sappiamo esattamente cosa significhi questa parola. C’è chi pensa che corrisponda al nome di un funzionario babilonese, chiamato shalshu, una specie di attendente al re. Montgomery ipotizza di tradurre con “thirdling”, cioè terzo di una terna. Altri ipotizzano che si tratti del terzo posto nella gerarchia statale dopo il re e la regina madre. Ma nessuno degli uomini di Baldassarre riesce nell’intento. Quindi mandano a chiamare l’ebreo Daniele, ormai vecchio, ma stimato per la sua sapienza, ché interpretò un sogno a Nabucodonosor.
Le parole misteriose sono: Mene, Mene, Techel, U-Parsin. Ecco l’interpretazione di Daniele:
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Mene: Dio ha fatto il conto del tuo regno e gli ha posto fine;
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Techel: tu sei stato pesato con la bilancia e sei stato trovato mancante;
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U-Parsin: il tuo regno è diviso e dato ai medi e ai persiani.
La scritta somiglia a tre parole aramaiche: Mene richiama il verbo “misurare” (mnh); Techel il verbo “pesare” (tchl); Parsin il verbo “dividere” (prs). “U-Parsin”: la “u” del testo originale vale come la congiunzione “e”. Quest’ultima parola può contenere anche un gioco di parole con il termine “persiano”, il popolo che sconfisse i babilonesi.
Secondo Clermont-Ganneau, il testo originale doveva indicare tre unità di misura ed essere quindi: mene’, teqel, peres, cioè “mina, shekel e mezza mina”. Dal Talmud si apprende che un uomo che fosse due volte migliore del padre potesse venire scherzosamente chiamato “una mina figlio di una mezza mina”, dove “mezza mina” traduce il termine peras. Allora la scritta doveva essere un insieme di misure che indicassero la ricapitolazione di Baldassarre, come se fosse stato pesato e trovato mancante. Del resto, sappiamo dal rotolo di Abacuc ritrovato a Qumran che una interpretazione (pesher) non ha bisogno di corrispondere esattamente alle parole di ciò che viene interpretato.
Invece per Eissfeldt la scritta originale doveva essere: mene’ mene’ teqel ufarsin, intendendo il primo mene’ come participio. Quindi si traduce così: “Calcolato una mina, uno shekel e due mezze mine”.
Quella stessa notte Baldassarre fu ucciso e il suo regno dato a Dario il Medo. La narrazione del capitolo 5 di Daniele trova in parte conferma nei resoconti degli storici greci Erodoto e Senofonte, secondo cui la presa di Babilonia avvenne durante una festa, senza che gli abitanti se ne rendessero conto.
A onor del vero il racconto di Daniele ha anche varie sfasature. Per esempio, la menzione di Dario il Medo in 5, 31 è una incongruenza storica: l’impero dei babilonesi venne conquistato da Ciro, re dei persiani, e non dei medi. Ciro però aveva unito persiani e medi sotto un unico regno, quindi la designazione di “Medo” potrebbe equivalere a persiano. In questo caso ci sarebbe un riferimento a Dario I, sovrano che regnò dal 521 al 486 a.C., dopo Ciro e Cambise. A lui va attribuita l’organizzazione amministrativa dell’impero ricordata in 6, 1.
Perché nelle chiese si legge la Parola di Dio ogni domenica? Ce lo dice Paolo (1Corinzi 10, 11-12): “Ora, queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche. Perciò, chi pensa di stare in piedi guardi di non cadere”.
I popoli antichi del Vicino Oriente basavano le loro religioni sui miti. Egiziani, mesopotamici e altri fondavano i loro riti su mitologie assai complesse, delle quali sappiamo ben poco, solo qualche episodio. Invece la Bibbia si basa su un fatto storico: l’incontro tra Dio e il popolo di Israele. Ebbene, quello che successe anticamente e che Daniele ha raccontato viene tramandato ancora oggi perché serva di esempio anche a noi, che leggiamo dopo millenni.
Romani 2, 5-11: “Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all'ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c'è parzialità”.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 53 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.
Bibliografia
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