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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Il greco del Nuovo Testamento

di Marco Calzoli - Agosto 2024


Il Nuovo Testamento è costituito di 27 brevi scritti: Vangeli, Atti, Lettere Cattoliche, Apocalisse. Il greco del Nuovo Testamento, nel suo complesso, può essere considerato afferente alla koiné ellenistica popolare, cioè alla lingua parlata quotidianamente nell’età ellenistica. Di questa lingua non abbiamo testimonianze sicure, ma possiamo considerare alcune sue caratteristiche da ostraka e da papiri non letterari (come quelli epistolari). In base alle analisi linguistiche di queste ultime testimonianze, gli studiosi hanno potuto affermare una siffatta appartenenza per la lingua neotestamentaria.
A questa classificazione sommaria dobbiamo fare però due precisazioni. La prima è che alcuni autori del Nuovo Testamento (soprattutto Luca e Paolo) utilizzano una lingua molto più elevata, che si discosta da quella popolare. La seconda riguarda il fatto che, a onor del vero, non è possibile definire entro una formula unica questa lingua, stante le molte differenze fra gli autori, alcuni dei quali arrivano addirittura a toccare la lingua popolare più schietta (come l’autore dell’Apocalisse). Pertanto, volendo pur parlare in termini aprioristici, non si può che concludere con Blass e Debrunner: “a causa della non uniformità dei singoli autori, del greco neotestamentario nel suo insieme si può solo dire, molto in generale, che non è né un’elegante lingua letteraria atticizzante né la semplice ed incolta lingua parlata“(1).
La differenza fondamentale del greco del Nuovo Testamento rispetto alla koiné ellenistica in generale è la presenza dei semitismi. Si osserva, infatti, che il cosiddetto “greco biblico” (comprensivo del greco della Septuaginta, dei libri veterotestamentari in greco e del Nuovo Testamento ), “was most obviously different from the literary Κοινή of the period. It could not be adequately paralleled from Plutarch or Arrian, and the Jewish writers Philo and Josephus were no more helpful than their ‘profane’ contemporaries(2).
La questione dei semitismi tuttavia è stata in passato calorosamente dibattuta. Dal XVII secolo ci fu una lotta accanita tra i “puristi”, secondo i quali gli autori scrivono sempre un greco buono o addirittura elegante, e gli “ebraisti”, che fiutavano ovunque influssi ebraici e parlavano di greco ebraico ‘ellenistico ‘ (secondo Atti 6,1), ovverosia di uno speciale dialetto, un gergo artificiale giudeo-greco – cristiano.
Fu soltanto lo studio dei papiri greci egiziani del periodo prettamente tolemaico ed oltre (molti dei quali furono rinvenuti a partire dall’inizi del XIX secolo ) in chiave comparativa con il greco del Nuovo Testamento(3), a mostrare con piena evidenza che il greco del Nuovo Testamento non è altro che la comune lingua ellenistica parlata nel mondo ellenizzato nel primo secolo della nostra epoca.
Perché si abbia una lingua distinta, si richiede un insieme di elementi caratteristici, morfologici anzitutto, che le dia una fisionomia a primo aspetto sua propria. Come potrebbe affermarsi questo del greco neo-testamentario? La morfologia, che è come l’ossatura di una lingua, è in tutto quella della koiné del I secolo, come provano ad esuberanza i documenti venuti alla luce;  il lessico, che si aggira sulla cinquemila parole per tutto il Nuovo Testamento, è per quattro quinti lo stesso del greco classico, mentre un quinto soltanto è peculiare alla koiné ellenistica, di cui 350 vocaboli sono postclassici in genere, 580 derivati dalla Septuaginta, 36 derivati dall’ebraico, 24 derivati dal latino, 6 derivati da altre lingue.
Tuttavia, appurato che il greco neotestamentario non è una lingua speciale, gli influssi semitici su lessico, morfologia e sintassi sembrano innegabili, secondo la maggior parte degli studiosi, costituendo anzi uno dei tratti più caratteristici rispetto a tutta la koiné ellenistica, che mostra quanto gli autori del corpus cristiano si collegassero alla koiné popolare.
L’unico motivo di discussione, oggi, appare quindi la questione della quantità dell’elemento semitico contenuto negli scritti del Nuovo Testamento, con tendenze a restringere il numero dei semitismi, anche di costruzione, fin quasi ad annullarli (come Deissmann, A. Thumb, Moulton, Milligan, Robertson) oppure a riconoscerne un congruo numero, tuttavia senza le esagerazioni di cui supra (come Blass, Wellhausen, Swete, Jean Psichari, Boatti).
Secondo Blass e Debrunner(4) i semitismi del greco del Nuovo Testamento (che provengono soprattutto dall’ebraico e dall’aramaico(5)), sono riconducibili a tre categorie: 1) quelli di traduzione, sia nelle citazioni della Bibbia ebraica per influsso della Septuaginta (che, per esempio, traduce quasi sempre l’infinito assoluto ebraico seguito dal verbo finito con un verbo finito insieme al participio dello stesso verbo: uso che si ritrova solo nelle citazioni neotestamentarie dalla Septuaginta, come in Matteo 13, 14 ), sia di fonti aramaiche (nei vangeli, dove alcune divergenze derivano proprio da traduzioni diverse della fonte aramaica(6)); 2) i septuagintismi(7) che hanno influenzato la parlata degli autori neotestamentari a causa della lunga frequentazione della traduzione greca (come il termine διεγόγγυζον – Vangelo di Luca 15,2; 19,7 – che deriva dal neologismo διεγογγύζετε, termine intensivo e onomatopeico creato dalla Septuaginta per rendere il verbo ebraico della mormorazione in Deuteronomio 1, 27; oppure come la sostituzione dell’aggettivo con il genitivo di qualità di un sostantivo per rendere la medesima costruzione ebraica – tuttavia presente anche in alcune frasi del greco classico), tanto che la lingua della Septuaginta fu ritenuta molto adatta al raggiungimento d’uno stile solenne e austero ( come si vede negli inni scritti in uno stile vicino a quello dell’Antico Testamento nel Vangelo di Luca 1, 46-55 e 1, 68-79);  3) idiomatismi, soprattutto in relazione al fatto che la lingua parlata quotidianamente al tempo degli autori neotestamentari era l’aramaico(8); non solo, ma un semita non poteva non esprimersi secondo schemi mentali semitici (9)anche quando parlava o scriveva altre lingue. Insomma, come scrivono spesso gli studiosi, gli autori neotestamentari scrivevano in greco ma pensavano in aramaico o ebraico. Non dimentichiamo, infine, che, come hanno potuto mostrare i papiri, la koiné dell’epoca, soprattutto quella delle terre bibliche, aveva incorporato già molti semitismi (in misura ovviamente minore rispetto alla frequenza con la quale appaiono nel greco biblico), che quindi compaiono in scrittori greci che “ignoravano sia l’ebraico sia qualunque altra lingua semitica. Recentemente è stato scoperto un frammento di papiro, che mostra parole e idiotismi semitici usati nel greco degli affari ordinari secolari”(10).
Sembra però opportuno proporre alcune riflessioni che Bonaccorsi (11) fa riguardo lo studio del problema semitico nella lingua neotestamentaria. Non bisogna correre il rischio di ricercare sempre e inevitabilmente quelle costruzioni o quel lessico che non si ritrova in greco: pur essendo indubbio che il nominativus pendens e la coordinazione con καί sono anche greci, l’influsso semitico doveva riguardare con maggiore intensità proprio il semplicismo sintattico – tipico non solo della koiné popolare (12), ma, in genere, di tutta la koiné quale prodotto linguistico della decadenza – “per il fatto che la sintassi ebraico-aramaica s’allontana dalla greca non tanto per costrutti specificatamente diversi, quanto per una infinitamente maggiore semplicità (13)“. Del resto, “il dire che in una data costruzione … appare l’influsso semitico, e l’asserir ch’essa non possa spiegarsi altrimenti in nessun caso, sono due cose ben diverse“.
Presentiamo i principali semitismi della sintassi (segnaleremo con un asterisco le costruzioni non estranee alla lingua greca, quantunque spesso molto rare; tra parentesi inseriremo uno dei tanti esempi delle strutture peculiari che si rinvengono nel Nuovo Testamento):

  • Casus pendens * (soprattutto nominativo, ma non solo; Mt 5, 39) = caso assoluto semitico;

  • εις + accusativo al posto del nominativo o accusativo predicativi (Mt 21, 42) = preposizione ebraica “le“;

  • nominativo con articolo al posto del vocativo * (Mt 7, 23) = in ebraico c’è una specie di articolo determinativo, il quale è usato davanti al nominativo con funzione di vocativo;

  • genitivo di qualità al posto dell’aggettivo * (Gv 6, 68) = genitivo ebraico;

  • υιός + genitivo * (14)(Mt 9, 15) = stessa costruzione semitica che denota una relazione intima tra le due parti in causa (“figli dell’ira” in Paolo significa “meritevoli di ira”);

  • εν con valore strumentale * (Mt 6, 29) = particella ebraica “ be “;

  • grado positivo dell’aggettivo al posto del comparativo o del superlativo * (Mc 9, 45) = “as Hebrew and Aramaic lack a comparative form, so too in Biblical usage the sense of the comparative or superlative is sometimes rendered by expressions using the positive(15);

  • largo uso di pronomi * = se è un tratto del greco parlato, il greco del Nuovo Testamento è stato influenzato sicuramente anche dalle lingue semitiche “where the ease with which siffix-pronouns may be added favours their abundant use(16);

  • ripetizione di un pronome dopo il relativo (Mc 7, 25) = rende il fenomeno per cui in ebraico e in aramaico (ma anche in siriaco e in arabo) il pronome è indeclinabile, quindi deve essere determinato da un pronome personale che segue;

  • uso prolettico dei pronomi, per “introdurre“ un sostantivo che segue(17) = è un aramaismo;

  • ψυχή al posto del pronome riflessivo (Mt 11, 29) = il sostantivo “nefes“, “anima, gola“, sostituisce in ebraico il pronome riflessivo;

  • costruzione perifrastica con verbo essere + participio * (Gv 1, 9) = aramaismo;

  • participio “grafico“ o pleonastico o descrittivo, in quanto descrive un’azione precedente o concomitante al verbo principale ma che è facilmente comprensibile * (Mt 8, 7) = riflette un ordinario modo di esprimersi semitico, da rapportarsi probabilmente alla mentalità espressiva semitica;

  • αποκριθείς ειπεν, “disse rispondendo“ è un esempio particolare di participio ”grafico“ perché costituisce una formula quasi invariabile, usata anche senza una domanda precedente (Mt 11, 25) = ebraico “wejjahan wajjo’mer“, aramaico “‘anah we’amar “;

  • i participi  λέγων, λέγοντες, λέγουσαι dopo verbi del dire, scrivere, pensare, anche in modo pleonastico ma non sempre – per introdurre il discorso diretto (Mt 1, 20) * = infinito ebraico costrutto “ le’mor “ che introduce il discorso diretto;

  • participio per l’infinito assoluto ebraico usato per dare particolare enfasi al verbo (che si trova tradotto dalla Septuaginta anche come “dativo interno“ o “ebraico“: ad es., Luca 22, 15) : è un septuaginismo, che si trova nelle citazioni (Atti 7, 34: ιδων ειδον da Esodo, 3,7);

  • uso temporale di εν τω + infinito * (18)( Mt 13, 4 ) = infinito costrutto ebraico preceduto da “be“;

  • ει usata come negazione in una sorta di giuramento (Mc 8, 12) = particella ebraica “’im”;

  • ει usata come particella interrogativa diretta (19) ( Atti 1,6 ) = particella ebraica “ha“;

  • come in Osea 6,6, la mentalità semitica si esprime nei termini “io voglio amore, non sacrifici“ intendendo “non voglio solo amore, ma soprattutto sacrifici“: per questa ragione si trovano nel Nuovo Testamento modi di esprimersi simili (come in 1 Cor 1, 17 e in Mc 9, 37);

  • grande frequenza della paratassi, di contro all’ipotassi, come succede nelle lingue semitiche, di modo che la particella paratattica καί andrà ad assumere significati vari, in sostituzione delle particelle ipotattiche: quindi funzioni come avversativa (Luca 4, 26), concessiva (Luca 11, 7), relativa (Mt 1, 21), temporale (Luca 8, 23) e consecutiva (Luca 18, 26).

Per completezza inseriamo fra i semitismi più frequenti anche και εγένετο (in conformità all’uso ebraico di servirsi di espressioni del tipo “e” + “accadde questo” o “fu così” + verbo principale), indicativo futuro per esprimere comando (in conformità all’uso ebraico, come in Mc 10, 43), verbi e nomi dalla stessa radice per esprimere enfasi (in ebraico la forma del verbo conosciuta come infinito assoluto si può trovare associata con un altro elemento dello stesso verbo per esprimere enfasi. Nel Nuovo Testamento ci sono tre varianti principali, del tipo επιθυμία επεθύμησα, Lc 22, 15, βλέποντες βλέπωσιν, Mc 4, 12, εφοβήθησαν φόβον, Mc 4, 41), distributivo espresso mediante ripetizione (ebraismo, come in Mc 6, 7).

 

Marco Calzoli


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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 51 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.


Note

1) F. BLASS – A. DEBRUNNER, Grammatica del Greco del Nuovo Testamento, Brescia 1997, pp. 53-54.

2) J. H. MOULTON – R. HOWARD - N. TOURNER, A Grammar of New Testament Greek, 4 voll., Edinburgh 1928-1976, vol. 1, p. 2.

3) Iniziato da E. L. HICKS, A manual of Greek historical inscriptions, Oxford 1882. In seguito: E. MAYSER, Grammatik der griechischen Papyri aus der Ptolemaerzeit, 2 voll., Berlin-Leipzig 1906-1934. I grandi ritrovamenti papiracei di testi greci e latini possono costituire tre categorie: i papiri egiziani (XIX-XX secolo, soprattutto a Ossirinco, a El-Faijum e nella valle del Nilo), quelli di Dura Europos e della Palestina, come a Qumran  (dalla metà del XX secolo), quelli di Ercolano. La conservazione nel tempo è stata possibile soprattutto grazie alla aridità assoluta di certe zone, cui ha influito anche l’insabbiamento: la maggioranza dei papiri, infatti, è stata rinvenuta in rovine risucchiate dalla sabbia (dove, ad es., Lefebvre ha trovato alcune commedie di Menandro), nei kiman (cioè gli antichi mondezzai –dove venivano gettati quindi anche i papiri da eliminare – poi trasformatisi con il passare del tempo in collinette di sabbia, dove furono trovati frammenti di Eschilo, Sofrone, Eupoli, Cratino, …), nelle tombe ( in una delle quali è stata ritrovata una copia dell’Iliade sotto la testa di una defunta; gli Egizi ellenizzati continuavano l’imbalsamazione tradizionale –ridotta spesso a semplici evocazioni del complesso rituale classico della imbalsamazione – usando come materiale per gli involucri delle mummie nientemeno che frammenti di papiro, che, ricomposti e studiati, hanno mostrato di contenere, tra l’altro, anche  brani del Fedone di Platone). Un caso a sé sono i papiri di Ercolano, rinvenuti forse nella biblioteca di Filodemo nella villa di Calpurnio Pisone, conservatisi proprio grazie all’eruzione del 79 d. C. poiché il papiro, non bruciando, sembra che “si incolli “ e quindi si conserva: è stato possibile decifrarli solo con l’ausilio di tecniche moderne sofisticate. Cfr. I. GALLO, Avviamento alla Papirologia greco-latina, Napoli 1983.

4) F. BLASS- A. DEBRUNNER, op. cit., pp. 55-58.

5) Che sono due lingue non indoeuropee, infatti esse fanno parte del gruppo semitico (detto anche hamito-semitico con l’aggiunta di lingue del nord Africa, come l’egiziano e il cushitico). Pur essendo lingue indoeuropee e lingue semitiche entrambe flessive, costituiscono sistemi profondamente differenti. Il principio del trilitterismo determina che sono soltanto le radici triconsonantiche a dare il significato fondamentale della parola (perché, ma solo per i verbi,  significati derivati sono ottenuti attraverso sistemi vocalici e suffissali: ad es. il verbo ebraico ha forma base + altre sei forme; l’arabo forma base + otto forme derivate), mentre le vocali (che non sono espresse dalla scrittura) servono ad esprimere le varie relazioni grammaticali. Il cosiddetto “proto-semitico “ aveva tre casi (nominativo, accusativo e genitivo), ora conservati solo nell’arabo coranico e letterario in genere (erano espressi anche dall’accadico e dall’ugaritico), mentre ebraico e aramaico ne hanno soltanto delle tracce (si pensa che l’ebraico prebiblico avesse i tre casi più una desinenza avverbiale, indicati tutti da vocali brevi posposte). Il verbo semitico ha due forme principali, l’una che esprime l’idea dell’azione compiuta, l’altra quella dell’azione non compiuta. Caratteristica tipica delle lingue semitiche, inoltre, è quella della grande fluidità fra i vari tempi verbali, che  possono tradursi sempre come presente oppure futuro oppure, con particelle preposta al presente, anche passato ( è significativo che in arabo la particella “ lam “ + verbo in stato energetico-iussivo, cioè presente, conferisce valore di passato). Una volta si pensava che l’arabo fosse il ceppo fondamentale del gruppo, da cui si originarono l’accadico e il semitico nord occidentale; oggi invece si parla comunemente di “proto-semitico “ (da cui anche l’arabo discenderebbe) per l’impossibilità di conciliare fenomeni semitici ma che non si trovano in arabo (come la coniugazione a due prefissi). Le lingue semitiche si suddividono in: 1) accadico (antico accadico, babilonese, assiro); 2) semitico nordoccidentale, attestato dalle iscrizioni pseudogeroglifiche di Biblo del 3000-2000 a. C., dalle iscrizioni protosinaitiche del 2000 a. C., dalle iscrizioni di Lachish del 2000 a. C., e poi da a. amoreo; b. ugaritico; c. cananeo –che comprende il cananeo del II millennio testimoniato da glosse alle lettere in accadico di Tell Amarna e da vari testi accadici di Ugarit, il moabitico, testimoniato solo dalla stele di Mesha del 900 a. C., l’ebraico - che è biblico (1200-200 a. C.), postbiblico (200-100 a. C.), dei testi rabbinici (primi secoli dell’era cristiana), dei testi letterari e filosofici (Medioevo), ebraico moderno -, fenicio (1000-200 a. C.), punico (300. a. C.-200 d. C.); d. aramaico – antico (1000-800 a. C.), imperiale (700-100 a. C.), del quale la varietà usata nella Bibbia si situa tra 500 e 200 a. C, mentre in seguito si divide in occidentale (nabateo, palmireno, giudaico palestinese, samaritano, cristiano palestinese, damasceno) e in occidentale (siriaco,  aramaico babilonese, manicheo, mandeo, aramaico di Musul e della Georgia) – ; 3) semitico sudoccidentale, costituito da etiopico (antico, letterario e moderno, il quale è diviso in dialetti come l’amarico) e da arabo, che si divide in meridionale (epigrafico: dei secoli 800 a, C.-600 d. C. , costituito da dialetti come sabeo, mineo, qatabaneo, hadrami, awasaneo; moderno: dialetti come mehri, shawri, soqotri ) e in settentrionale (preclassico, 500 a. C. – 400 d.C. con dialetti come tamudico, lihyanito, safaitico; classico o arabo letterario, 400 – 2000 d. C., usato nel Corano e rifinito dai grammatici per opere letterarie fino all’uso che oggi si fa per la letteratura d’arte, ma anche per i giornali e per la comunicazione orale formale; moderno, dialetti oggi parlati informalmente, come iracheno, siro-palestinese, egiziano, nord africano). Cfr. S. MOSCATI, An Introduction to the Comparative Grammar of the Semitic Languages. Phonology and Morphology, Wiesbaden 1980; G. GARBINI, Le lingue semitiche. Studi di storia linguistica, Napoli 1972; N. NEBES, Tempus und Aspekt in den semitischen Sprachen, Wiesbaden 1999.

6) Ad es., in M. BLACK, An Aramaic Approach to the Gospels and Acts, Oxford 1967, p. 70 ss. appare che uno dei casi più frequenti è la resa della particella aramaica “de”, la quale, potendo assumere una vasta gamma di significati, è intesa ora in un modo ora in un altro. 

7) Esula dagli intenti del presente studio una analisi del greco della Septuaginta (per un orientamento bibliografico: R. HELBING, Grammatik der Septuaginta. Laut- und Wortlehre, Gottingen 1907 e J. PSICHARI, Essai sur le grec de la Septante in “Revue des Etudes juives” 55 (1908) pp. 161-208)  e dei libri veterotestamentari che abbiamo in greco (Giuditta, Tobia, Primo e Secondo Libro dei Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc; insieme a alcuni brani di Ester, e i capitoli 3, 24-90; 13; 14 di Daniele). Tuttavia notiamo a margine che la Septuaginta, composta fra IV e II secolo (la tradizione ricorda che è opera di 72 scribi ebrei –inviati alla Biblioteca d’Alessandria su richiesta di Tolomeo Filadelfo – che pur lavorando separatamente diedero la medesima traduzione: in realtà, dalla traduzione risulta macroscopica la presenza di mani differenti ), è scritta sempre in una koiné popolare (addirittura H. S. GEHMAN, The Hebraic Character of Septuagint Greek, “Vetus Testamentum” 1 ( 1951 ) 81-90, sostiene che è il riflesso di un “Jewish-Greek jargon“ degli Ebrei d’Alessandria), i cui molti semitismi si spiegano però anche perché è “greco di traduzione”, anche se bisogna distinguere traduzioni come quelle del Pentateuco e di Isaia, con un greco migliore, da quelle di testi come Giudici, Salmi, Profeti e soprattutto il Secondo Libro dei Re, con un greco inferiore, veramente intarsiato di ebraismi. Nel complesso è una traduzione non così fedele, in quanto presenta molte aggiunte, perifrasi e rese non letterali (solo per fare pochissimi esempi, la resa dell’impronunciabile tetragramma divino con κύριος, che umanizza; in Genesi 3, 15 l’ebraico “essa (la stirpe) ti schiaccerà la testa“ è reso da αυτός; in Esodo 7, 9, “fate per voi“ è reso “…per noi“; in 16, 14 è omessa la frase ebraica “lo strato di rugiada svanì“, mentre l’hapax legomenon mehusepas “, forse “qualcosa di fine“, è reso “qualcosa di sottile come coriandolo bianco“; in Deuteronomio 1, 28 l’ebraico “figli dei colli lunghi“ è reso “figli dei giganti“; in 13, 10 il testo ebraico “lo lapiderai“ è tradotto “ denunciando denuncerai lui“; in Numeri 4, 14 c’è un lungo prolungamento rispetto al testo ebraico; in 8, 19 l’ebraico “e non sarà tra figli d’Israele flagello nell’avvicinarsi dei figli d’Israele“ è cambiato di senso in “e non ci sarà fra i figli d’Israele accostatesi“; in Levitico 7, 16 l’ebraico “e da domani anche il rimasto da esso sarà mangiato“ è reso con cambiamento di senso solo con “l’indomani“; in 17, 4 c’è una lunga interpolazione; nel Salmo 33, 7 il sostantivo “ned “, “diga“ o “mucchio“, è reso “ otre “; in Abdia 1, 21 “salvatori“ è reso con “salvati“; in Abacuc 2, 4 l’ebraico “il giusto sopravvive per la sua fedeltà“, cioè di lui, è resa “il giusto vivrà per la mia fedeltà“, cioè di Dio ). Per questo nel II secolo si fecero altre traduzioni greche: di Aquila (questa volta è una versione tanto fedele all’ebraico da essere molte volte oscura), Simmaco (elegante ma spesso troppo distante dall’ebraico), Teodozione (partita dalla Septuaginta con ritocchi fatti in base al testo ebraico). Anche il greco dei libri biblici (alcuni di questi testi greci provengono dalla Septuaginta) è in linea di massima la koiné popolare, con molti semitismi. La maggior parte dei libri giunti in greco costituisce traduzioni di originali ebraici o aramaici quindi i semitismi si giustificano anche per traduzione. Per esempio, in Giuditta 8, 13 “mettere alla prova il Signore“ è da spiegarsi con tutto il contesto ebraico, per il quale questo atteggiamento consiste nel non si riconoscere che Dio è il Signore della storia e della vita. In Tobia 1,1 si parla del “libro delle parole“, cioè  λόγοι , secondo il senso “libro dei fatti“, poiché in ebraico “dabar“ indica sia la parola sia il fatto. In Primo Maccabei 14, 27 compare il termine “asaramel“, che forse è la trascrizione dell’ebraico “hasar ‘ am el“, “atrio del popolo di Dio“, espressione che indicava il cortile esterno del tempio. La Sapienza, scritta in un greco spesso elegante, presenta alcuni semitismi tali però da non far supporre un’originale semitico. In Siracide 1, 10 “ogni carne“ è semitismo per “ciascuna persona“; in 4, 22 “non fare preferenze di persone“ è semitismo equivalente all’espressione odierna “non guardare in faccia nessuno“. In Baruc 1,1 la congiunzione “e“ posta ad inizio di frase (nel caso di specie, proprio all’esordio del libro) è un classico semitismo, anziché indizio per inferire che l’opera è connessa con quella che precede, cioè Geremia; in 1, 22 “ciò che è male agli occhi“ è semitismo per indicare qualcosa che dispiace. Il testo greco di Daniele - che è un libro giuntoci in tre lingue, ebraico, aramaico e greco - mostra moltissimi semitismi: la struttura “e“ + verbo + soggetto; una ricchezza semantica del verbo “dire“, che è anche “rispondere,chiedere,aggiungere“, tipica dell’equivalente verbo ebraico.

8) Ai tempi di Gesù in Palestina esistevano tre situazioni linguistiche (come è testimoniato anche da testi giuridico-amministrativi e da iscrizioni sepolcrali: si pensi all’iscrizione della croce; anche se nel mondo giudaico “la lingua fu di preferenza il greco, seguito dal latino; solo nella Palestina prevale l’ebraico. Parecchi esempi mostrano l’uso della doppia lingua“, P. TESTINI, Archeologia cristiana, Bari 1980, p. 535; per un approfondimento vd. J. B. FREY, Corpus Inscriptionum Iudaicarum, 2 voll., Roma 1936-1952). Vi era la lingua latina  (quella ufficiale dell’impero romano, dell’amministrazione e della giustizia centrale, quindi degli ambienti del potere centrale), quella greca (lingua anch’essa dell’amministrazione, dei commerci internazionali, della cultura internazionale, parlata in particolar modo dalle classi ellenizzate) e quella locale. Localmente le lingue erano essenzialmente due: l’ebraico (che era la lingua della liturgia ebraica, degli elevati ambienti religiosi – compresa solo da sacerdoti e scribi – e della letteratura e cultura locale) e l’aramaico ( che, parlato originariamente nella Siria settentrionale dagli Aramei, divenne lingua diplomatica internazionale dall’Eufrate al Nilo a partire dall’VIII sec. c. C. con gli Assiri e poi con l’Impero achemenide – che la adottò come lingua ufficiale –; continuando ad esserla fino all’imporsi della koiné ellenistica, divenne, a partire dalla dominazione persiana fino alla sottomissione araba del VII sec. d. C., la lingua parlata più diffusamente dal popolo d’Israele, in vari dialetti, nelle occasioni quotidiane, e “provided the chief literary medium of the Palestinian Jew of the first century; Josephus wrote his Jewish War in Aramaic  and later translated it into Greek “, in M BLACK, op. cit., pp. 15-16; in aramaico fu redatto anche il  Targum, cioè la traduzione della Bibbia ebraica fatta per renderla accessibile a tutti). Gesù parlava quindi l’aramaico (come ci testimoniano anche alcune parole ricordate dagli evangelisti, come “Effathà“ nel Vangelo di Marco 7,34), l’ebraico (per leggere le Scritture: Gesù era stato presentato al tempio) e forse anche il greco. Stando, infatti, a  J. N. SEVENSTER (Do You Know Greek? How Much Greek Could the First Jewish Christians Have Known, Leiden 1968, p. 189 ), “it has now been clearly demonstrated that a knowledge of Greek was in no way restricted to the upper circles, which were permeated with Hellenistic culture, but was to be found in all circles of Jewish society, and certainly in places bordering on regions where much Greek was spoken, e. g. Galilee“.  Quindi gli ipsissima verba Jesu non devono essere rintracciati solo in aramaismi, ma anche in parole greche.

9) La lingua, infatti, non è mai qualcosa di semplicemente formale. K. W. von Humboldt, elaborando la teoria della “forma linguistica interna“, sostiene che la lingua, essendo “l’organe de l’etre intérieur“, “est non pas un ouvrage fait (Ergon), mais une activité en train de se faire ( Energia)“, ovverosia un’entità che vive costantemente nell’attività dello spirito di un popolo: pertanto ogni lingua elabora in modo peculiare il rapporto con il mondo, in relazione al particolare spirito di un determinato popolo (tr. fr. La différence de construction du langage dans l’humanité et l’influence qu’elle exerce sur le développement spirituel de l’espèce humaine ou Introduction à l’oeuvre sur le kavi, in Introduction à l’oeuvre sur le kavi et autres essais, Paris 1974, pp. 144 e 183). Degna di rilevanza anche  la cosiddetta “ ipotesi della relatività linguistica“ o “teoria di Sapir-Whorf“, per la quale  non è possibile determinare leggi universalmente costanti nella evoluzione e nella variazione delle lingue proprio perché sussiste una relazione necessaria e vincolante fra lingua naturale e pensiero/cultura espresso da essa. (Del resto, proprio in base a queste considerazioni trova valore il metodo che consiste nell’imparare le lingue straniere in base ad un’operazione di full immersion nelle strutture logico-sintattiche, negli idiomatismi delle stesse, allontanandosi mentalmente il più possibile dalle strutture della lingua madre). Nel caso di specie, il pensiero semitico risulta essere estremamente concreto (l’ebraico biblico manca altresì di una appropriata terminologia per rendere il pensiero astratto; pensiamo anche al fenomeno per il quale il semita che si esprime in greco vede sempre il caso particolare e quindi mette spesso l’articolo), non distingue piani logici differenti, pone tutto sotto una stesso fascio di luce per capire una data realtà  (ad es.,  Isaia fa dire a Dio: “Sono io che formo la luce e creo le tenebre, che faccio il bene e provoco il male“, 45, 7; in base a ciò si potrebbero spiegare molte pagine violente dell’Antico Testamento: è Dio che fa compiere il male, secondo queste, tuttavia di mezzo c’è anche la complessità della libertà umana; per il Nuovo Testamento consideriamo la petizione del Pater nosterμη εισενέγκης ημας εις πειρασμόν, “non indurci in tentazione”, “non abbandonarci alla tentazione”, di Matteo 6,13 e Luca 11,4 –spiegabile anche in base alla distinzione biblica fra tentazione-prova e tentazione-male), è un pensiero analogico, che si esprime più per simboli e accostamenti che per le regole della logica formale occidentale (basterebbe considerare, per l’ambito semitico,  tutta la divinazione assiro-babilonese; oppure l’esegesi biblica rabbinica e poi cabalistica regolata anche da principi come la temurah o anagramma, la gematria basata sul valore numerico delle lettere ebraiche,  il notariqon o acrostico – ad es., è famoso il procedimento per cui, dato che la domanda di Mosé “Chi sarà colui che andrà nei cieli per noi ?“ ha in ebraico parole le cui iniziali danno “mylh“, “circoncisione“, mentre le finali “yhvh”, cioè il nome impronunciabile di Dio, ci conclude che solo il circonciso raggiungerà Dio –; nel capitolo 13 di Daniele si dice che, poiché la falsa testimonianza verteva su un fatto che sarebbe avvenuto sotto un’acacia, σχίνος, o sotto un leccio, πρίνος , la punizione consisterà nello squartamento, σχίζειν e πρίζειν), è un pensiero spesso paradossale e iperbolico, che ama le immagini forti e i contrasti schiaccianti (proprio in base a questa caratteristica del pensiero semitico alcuni esegeti accettano la lezione tradizionale κάμηλον –tra l’altro, l’animale più grande, secondo la cultura ebraica – nella forte immagine “ E’ più facile per un cammello passare per la cruna di un ago ... “ di Luca 18,25, anziché la emendazione in κάμιλον, “corda, gomena “ –proposta già da Cirillo di Alessandria).

10) E. G. JAY, Grammatica greca del Nuovo Testamento, Casale Monferrato 1993, pp. 318-319.

11) G. BONACCORSI, Primi saggi di filologia neotestamentaria, vol. 1, Torino 1933, pp. LXXXI-XCI.

12) M. ZERWICK, Biblical Greek, Roma 2001., p. 161 : “ One may therefore put under two headings the tendencies which govern the evolution of popular speech: on the one hand there is a tendency to more explicit expression, and on the other hand a tendency to greater simplicity and uniformity“.

13) L’ebraico biblico è una delle lingue più primitive, con un lessico povero (il vocabolario si aggira sulle cinquemila e cinquecento  parole, ottenute su circa cinquemila radici (le parole ebraiche e aramaiche dell’Antico Testamento sono circa 305.400, particelle escluse): che in mano al grande poeta subiscono un processo connotativo tale da risultare molto spesso incomprensibili, come succede nel Libro di Giobbe) e una sintassi rudimentale (tanto che manca addirittura di un vero e proprio sistema ipotetico), anche se caratteristica, perché trascinante, avvolgente, a volte anche “ad ondate”, cioè aggiuntiva di elementi sempre maggiori. La rudimentalità della lingua è però compensata dal lessico, talmente polisemico che un temine ebraico per “senso“ è “ sekel“, che indica etimologicamente il fiorire, lo sbocciare variegato di una realtà. Anche i dialetti aramaici costituiscono nel complesso una lingua primitiva, ma sempre con un lessico molto vario, influenzato altresì da innumerevoli tratti stranieri: “Aramaic has been influenced to an extraordinary degree by the fact that it had to live together with –and was dominated by – a variety of other languages. Its vocabulary shows manifold layers of foreign influence which shed light upon the historical development of the language“, in F. ROSENTHAL, A Grammar of Biblical Aramaic, Wiesbaden 1995, p. 61. Sulla semantica delle lingue  semitiche sono illuminanti le parole di B. LEWIS ( nell’introduzione dell’antologia Music of a Distant Drum, tr. it. Ti amo di due amori, Milano 2003, p. XXXV ): “La poesia del Medio Oriente proviene da un mondo nutrito da scritture diverse e classici diversi, foggiato e ispirato da storie e memorie diverse, nel quale le parole non hanno solo significati diversi, che è cosa normale, ma serie diverse di significati“.

14) A volte il Nuovo Testamento usa una costruzione del genere ma così moderata da far pensare a forme presenti anche nella cultura greco-romana, come in Mt 13, 38 ( “figli del regno“).

15) M. ZERWICK, op. cit., p. 48.

16) M. ZERWICK, op. cit., p. 63.

17) È un tratto eliminato dal testo correntemente usato del Nuovo Testamento, ma è molto presente in D: ad es., in Mt 12, 45 si trova αυτου του ανθρώπου εκείνου. M. ZERWICK, op. cit., p. 65.

18) Uso grafico attestato anche nel greco classico ed ellenistico in genere, tuttavia l’influsso semitico si fa sentire per il valore temporale (l’attico impiegherebbe una proposizione secondaria o un costrutto con il participio) e, particolarmente, per la grande frequenza e soprattutto in unione con la locuzione και εγένετο (septuagintismo: vd. Gn 11, 2).

19) Il greco non neotestamentario riconosce l’uso soltanto nella interrogazione indiretta.


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