Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La gestione del punto di vista. Spunti per un'ermeneutica del cambiamento in Epitteto.
di Lucio Scognamiglio
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Consigli riferiti all'oggetto percepito
Manuale, 30
Le cose che è conveniente fare si misurano per lo più in base alle relazioni. Egli è tuo padre? Ti è prescritto di prendertene cura, cedere in tutto, sopportarlo se ti insulta o ti colpisce. “Ma è un cattivo padre!” Forse che per caso la natura ti ha imparentato solo con un buon padre? No, semplicemente con un padre! Tuo fratello ti fa un torto? Ebbene, mantieni la posizione che ti spetta nei suoi confronti e non considerare ciò che fa lui, ma ciò che devi fare tu affinché la tua scelta di vita si trovi in una disposizione conforme alla natura. Infatti a te gli altri non possono arrecare nessun danno, se tu non lo vuoi. Perché tu subirai un danno quando giudicherai di subirlo. In questo modo scoprirai dunque il tuo dovere a partire dalla tua relazione con il concittadino, il vicino, il generale, cioè se ti abitui a considerare le tue relazioni con gli altri.
A volte gran parte delle ansie che ci affliggono sono indotte dal comportamento di qualcuno che, a vario titolo, riveste importanza per noi. Quando il suo agire non corrisponde alle nostre aspettative ci sentiamo ovviamente frustrati. Cosicché laddove i risultati non corrispondono alle attese, ecco che scatta la delusione per il mancato riconoscimento. Spesso la “non leggibilità” del presente nasce proprio da qui, dal mancato riconoscimento da parte di colleghi, superiori, amici o parenti. La realtà “non ci riconosce”, ma perché mai dovrebbe farlo? Evidentemente perché alcuni profili del reale sono indipendenti dal nostro volere, così come le scelte e le convinzioni degli esseri umani con i quali siamo in relazione.
Come vedremo più avanti la “cura di sé” è la matrice del pensiero di Epitteto. La cura di sé presuppone un'ampia sfera di libertà e di responsabilità personale. Il senso del suo messaggio è essenzialmente questo: prima di illudersi di governare il mondo, è opportuno imparare a governare se stessi. In questa prospettiva gli uomini potrebbero essere paragonati a bastimenti, ognuno dei quali col suo comandante impegnato a seguire la propria rotta. I vascelli non sempre viaggiano in coppia, ma si allontanano, si perdono di vista, tornano ad avvicinarsi oppure entrano in collisione. Ognuno trasportando il proprio carico e seguendo la propria rotta, con logiche e scelte differenti. Anche l'allontanamento o la collisione rientra nella “natura delle cose”. Quando ciò accade “mantieni la posizione che ti spetta nei suoi confronti e non considerare ciò che fa lui, ma ciò che devi fare tu”, coscienti che non scegliamo il ruolo nella vita, il compito di ciascuno è però di recitarlo nel migliore dei modi. (Manuale, 17: Ricordati che sei un attore che interpreta una parte in un dramma che è come lo vuole il drammaturgo. Una parte breve, se vuole che sia breve, lunga se vuole che sia lunga. Se vuole che tu interpreti la parte di un mendicante, bada di interpretare con bravura questo ruolo: oppure quella di uno zoppo, o di un magistrato, o di un privato cittadino. Infatti il tuo compito è questo: interpretare bene il ruolo che ti è stato assegnato. Ma scegliere questo ruolo spetta a qualcun altro.)
Qui è evidente il ruolo che Epitteto assegna al Destino, tuttavia senza scomodarlo troppo, spesso ci si trova in situazioni inaspettate o non volute che però dobbiamo necessariamente vivere, nelle quali la nostra percentuale di autonomia è scarsa se non addirittura nulla. Prima di interiorizzare un giudizio di disvalore per una situazione che ci viene dall'esterno possiamo, appunto analizzare la nostra sfera personale sia in relazione ai doveri che la condizione ci impone (per i legami di parentela, subordinazione, responsabilità ...), sia in relazione alle eventuali possibilità o alternative che potremmo avere a prescindere dall'altro.
Come al solito occorre scindere il nostro agire dal soggetto (o dalla situazione) che ci turba, per identificare i nostri doveri in quel contesto. Possiamo considerare l'analisi della nostra condizione come un processo di “neutralizzazione del reale” diretta a identificare i nostri doveri, “a prescindere” dal risultato che è stato disatteso (viceversa rispondere negativamente ci metterebbe inevitabilmente sullo stesso piano di colui o della realtà che stiamo giudicando sfavorevole nei nostri confronti). Per l'identificazione dei propri doveri occorrerebbe aver presente non tanto il quadro degli obblighi giuridici (altrimenti sarebbe inutile fare questa analisi), quanto i doveri che si sentono di dover assolvere in base alla propria coscienza, alla propria dignità e soprattutto in base al concetto astratto che abbiamo della nostra condizione del nostro ruolo in quel dato contesto. Normalmente da questi parametri discende una sfera di doveri ben superiore a quella a cui saremmo tenuti ma non è questo il punto. La questione è identificare il proprio ruolo slegandolo dal riconoscimento altrui. Si adempiono dei doveri a prescindere dalla circostanza che la persona a cui sono diretti o il contesto a cui sono rivolti, rispondano effettivamente e positivamente ai nostri sforzi; in questo senso il principale beneficiario dell'assolvimento dei propri doveri non è l'altro, ma siamo noi stessi, con la nostra coscienza di aver adempiuto degnamente il ruolo che ci è stato assegnato (o che abbiamo scelto).
Una volta identificata, questa sfera di doverosità è autolegittimante. Spersonalizzando il rapporto, non più legato al riconoscimento altrui, ci si pone al di sopra di possibili turbative. Assolvendo nel miglior modo possibile al nostro ruolo, nonostante le condizioni non favorevoli, ci “auto-riconosciamo” a prescindere dall'altro. Fornendo una risposta positiva ad una situazione negativa, neutralizziamo il rapporto e ciò, nel lungo periodo, potrebbe influenzare anche il ruolo altrui, rimettendo in moto una situazione altrimenti bloccata.
Manuale, 39
Per ciascuno, la misura di ciò che deve avere è il suo corpo, come il piede è la misura della calzatura. Se ti attieni a ciò, manterrai la giusta misura. Se vai oltre, è inevitabile che alla fine tu sia trascinato come in un precipizio. Come anche nel caso della calzatura, se tu vai oltre a ciò di cui il tuo piede ha bisogno, ci sarà una calzatura dorata, poi di porpora, poi ricamata. Quando si va al di là della misura non c'è più limite.
L'uomo trova in sé e nella realtà che lo circonda il proprio limite che deve conoscere e rispettare. Questo limite è il termine con il quale tenere un confronto costante, attraverso il quale definire il proprio agire, i propri desideri, le proprie attese, oltre questo limite non c'è più misura. La valenza della massima di Epitteto è evidentemente ultracorporea, è un preciso principio di vita diretto a sottolineare la valenza dei parametri qualitativi rispetto a quelli quantitativi. Egli consiglia anche di non confondere, nemmeno nei discorsi, l'avere con l'essere in quanto la maggior stima di sé non solo non è legata al maggior possesso di cose, ma neanche al maggior possesso di sapere (Manuale, 44: Questi ragionamenti non sono concludenti: “Sono più ricco di te, quindi sono migliore di te”, “Sono più eloquente di te, quindi sono migliore di te”. Questi sono più concludenti: “Sono più ricco di te, quindi i miei possedimenti sono superiori ai tuoi”, “Sono più eloquente di te, quindi il mio eloquio è migliore del tuo”. Ma tu non sei né un possedimento, né un eloquio.)
Potremmo considerare questo principio antesignano delle problematiche ampiamente trattate nel secolo scorso e che trovano in Avere o essere, il celebre saggio di E. Fromm, uno dei principali momenti di analisi. Il seguire stili di vita improntati a meri criteri quantitativi implica l'inevitabile frustrazione conseguente dal misurare il proprio appagamento in relazione ai propri averi e quindi, per questa via imboccare la spirale dell'insoddisfazione, essendoci inevitabilmente qualcuno più ricco con il quale misurarsi. Einstein direbbe che: “Non tutto ciò che può essere contato, conta, non tutto ciò che conta, può essere contato” ed Epitteto chioserebbe: “Quando si va al di là della misura non c'è più limite.”
Secondo Protagora: "L'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono". L'uomo non è solo la misura dell'ingordigia, dei possedimenti, dei beni materiali, ma anche di quelli immateriali, delle passioni, della spiritualità, dei sentimenti. Epitteto ritiene il ruolo della volontà assolutamente egemone, per lui è il vaglio ultimo dell'investigazione razionale. Oggi sappiamo invece che l'investigazione razionale non ha le chiavi per aprire tutte le porte del nostro io, quindi per proseguire sulla strada della conoscenza si devono utilizzare anche altri strumenti. Come il buio scompare sotto la luce dei riflettori, anche l'emotività, pur continuando a esistere e a farsi valere, scompare se illuminata dalla luce della ragione. Nelle situazioni complesse, dove è difficile individuare sia il proprio che l'altrui limite e misura, razionalità ed emozione continuano a giocare al tiro alla fune. Se vogliamo trovare un equilibrio, non possiamo lavorare solo su un piano senza tener conto dell'altro. I livelli più profondi e sottili del nostro essere devono venir fuori con altri strumenti che non sono quelli della razionalità, di questo siamo largamente consapevoli. Siamo invece meno consapevoli di cosa fare dell'elemento emozionale, una volta che è venuto fuori, di come coniugarlo con quello razionale, di come sintetizzare elementi inconciliabili.
Qui torna di nuovo utile la sapienza stoica di Epitteto che con i suoi strumenti rende più dinamica e flessibile la nostra ragione, affinando i mezzi cognitivi a nostra disposizione e rendendo possibile una trasformazione molecolare dell'esistenza in qualcosa di nuovo, rendendo, in altri termini, conciliabile l'inconciliabile attraverso nuovi legami. Gli assi cartesiani dove far scorrere il nostro punto di vista, assieme alla funzione tempo, rende possibile nuovi equilibri di vita, che in ultima analisi, sono tenuti insieme dal logos e dalla consapevolezza del limite.
Se l'uomo deve trovare in sé misura e limite, deve fare i conti con la propria condizione e può conoscere la propria misura solo attraverso l'osservazione e l'esperienza. Misura e limite (del palese e dell'occulto), vanno in qualche modo sperimentati, come la prova delle calzature da indossare. In questi tentativi, che si trasformano in acquisizioni di parti di conoscenza di sé e del mondo, occorre tener conto della “propria personale sostenibilità”, quindi anche delle parti di sé non evidenti che si manifestano attraverso pulsioni o re-pulsioni. Una strada per sperimentarsi sono le “prove di gusto” di quello che la vita ci offre, secondo un approccio pragmatico, distaccato e disincantato che ci faccia godere della vita secondo le proprie inclinazioni, ma stando attenti a non inseguire quel che non c'è perdendosi quel che invece c'è: “Quando siamo invitati ad un banchetto, prendiamo quel che c'è e se uno domandasse al padrone di casa che, invece di quello che c'è, gli venga servito del pesce o dei dolci, parrebbe uno stravagante. Tuttavia, nella vita, vogliamo dagli dei quello che non ci danno, anche se le cose che ci hanno dato sono molte.” (da Frammenti, XVII).
Rincorrere ciò che al banchetto non viene servito e non assaggiare quello che viene offerto è il senso e il limite di ogni umano. Visto a quasi venti secoli di distanza, il criterio del limite intrinseco all'agire umano non è un approccio rinunciatario all'esistenza, non è accidia nel senso di a (alfa privativo = senza) + kédion (= cura), elevata a sistema. Viceversa proprio la cura, a partire da se stessi, è la matrice del pensiero di Epitteto, evidentemente costruito intorno al concetto del governo di sé che comprende e ci faccia conoscere ogni nostra parte.
Ognuno è padrone e fattore di se stesso, tenuto quindi a curare i propri possedimenti, a conoscerne pregi e i difetti, a scegliere le culture più adatte in relazione alle loro diverse caratteristiche, ad assumere solo la terra che può mettere a frutto, ad assicurarsi della qualità dei raccolti, a controllare i confini dei propri poderi affinché altri non se ne impossessino. La misura risiede nella consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si ha intorno, è conoscenza pragmatica, è controllo continuo della propria esistenza, anche in relazione ai propri obiettivi di vita è, in sintesi, equilibrio in potenza e potenza in equilibrio.
La grande attualità di Epitteto è la metodologia del dubbio come approccio costante alla conoscenza, è la scintilla attraverso la quale accendere il fuoco dell'interesse, del dialogo con se stessi, con gli altri e con la realtà di vita. Attraverso la tecnica del ribaltamento di prospettiva Epitteto introduce l'enzima del dubbio che è il presupposto per aprire le nuove visioni e per esperire strade che altrimenti ci sfuggirebbero, strade per mettersi alla prova anche, per individuare le calzature adatte, non conoscendo la taglia e a volte neanche il piede.
Manuale, 43
Ogni cosa ha due prese, una da cui la si può portare, l'altra da cui non la si può portare. Se tuo fratello commette un'ingiustizia contro di te, non prendere la cosa dal lato: “Mi ha fatto un oltraggio” (infatti è la presa da cui non la si può reggere), ma piuttosto dal lato: “E' mio fratello, allevato con me” , e tu prenderai la cosa dalla presa da cui la si può portare.
Attraverso il costante rovesciamento di prospettiva, il ribaltamento sistematico dell'oggetto delle nostre angustie si rende evidente che per ogni problematica esistono due agganci, uno ci rende la nostra condizione sopportabile, l'altro insopportabile.
La metodica del ribaltamento dell'angolo visuale lungo l'asse delle ascisse rappresenta un approccio utile da seguire non solo per diminuire le sofferenze, ma anche come prassi per scorgere spazi di conoscenza altrimenti occulti. È un approccio che porta in sé il seme della conoscenza. Quando i moderni (?) trattati di management affermano che non esistono problemi ma solo opportunità, non si allontanano dall'approccio ermeneutico del Manuale. Ribaltando la prospettiva si aprono inevitabilmente spazi inesplorati: se ci rappresentiamo il nostro orizzonte come una circonferenza e la realtà problematica che ci angustia come un suo angolo, abbiamo comunque sempre a disposizione tutto il resto da esplorare.
Epitteto ci avverte anche che nulla è gratis, che qualcosa si deve pur pagare per la tranquillità d'animo (Manuale, 12 ... Comincia dunque dalle piccole cose. Un po' d'olio cola via, ti rubano un po' di vino. Aggiungi a te stesso: “Questo è il prezzo della tranquillità d'animo. Non si ha nulla gratis” ...). Allargare le maglie della rete di attenzione attraverso la quale filtriamo la vita di ogni giorno, essere maggiormente tolleranti rispetto agli avvenimenti, ai comportamenti altrui, ai contrattempi, alle piccole perdite materiali, ci pre - dispone favorevolmente verso se stessi e gli altri. Oggi, rispetto a venti secoli addietro, viviamo certamente più stipati e con molte più esigenze. Le occasioni di frizione col prossimo sono continue e tanto più è fitta la rete delle attenzioni a protezione della nostra sfera individuale, tante più angustie filtreremo e avremo da scontare. Allargare le maglie significa perciò far correre via molte seccature; se perdiamo qualcosa lungo la strada, ne guadagniamo in serenità. Ciò induce anche maggiore apertura e maggiore pacatezza verso il prossimo. Abbassando le difese rendiamo meno ostili gli interlocutori e probabilmente troveremo anche qualcuno che ripagherà la nostra gentilezza con altrettanta attenzione e cortesia.
Lucio Scognamiglio
scognamiglio@infoeuropa.it
lucio_scognamiglio@hotmail.com
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