Riflessioni sulla Simbologia
di Sebastiano B. Brocchi
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Il libro chiuso di Big Fish.
L’alchemico cantastorie
Gennaio 2009
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Essa ci viene mostrata da Burton simile ad una delle tre Moire. Le Moire, o Parche, erano figure della mitologia grecoromana, «figlie di Zeus e di Temi o secondo altri di Ananke. Ad esse era connessa l'esecuzione del destino assegnato a ciascuna persona e quindi erano la personificazione del destino ineluttabile. Erano tre: Cloto, che filava lo stame della vita; Lachesi, che lo svolgeva sul fuso e Atropo che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile. La lunghezza dei fili prodotti può variare, esattamente come quella della vita degli uomini» (da Wikipedia). Una delle caratteristiche delle tre sorelle, era di condividere un solo occhio.
La strega di “Big Fish”, ha un occhio di vetro dal magico potere: chi lo guarda vi scorge il momento della propria morte. Tre ragazzini guarderanno l’occhio di vetro: uno di essi scopre che morirà giovane a causa di complicazioni cardiache, un altro che morirà da anziano, cadendo da una scala. L’ultimo è Edrward. Nel film non ci viene mostrato quel che vede nell’occhio, ma la sua reazione ci mostra grande serenità. Anzi, proprio la visione sembra dargli una serenità altrimenti impensabile.
In realtà, Edward è l’Iniziato che, osservando nell’occhio della strega, non si è soffermato sull’aspetto esteriore, mondano, della morte. In altre parole, non ha osservato ciò che nel grande mistero della morte poteva riguardare la sua persona profana (l’età o il modo di morire), ma al contrario sembra aver colto un significato più profondo, una Consapevolezza sulla natura della vita e della morte. Ricordiamoci che lo scopo dell’Alchimia non è di formare dei superuomini ma degli uomini Consapevoli.
Sarà questa Consapevolezza a guidare il giovane Edward nell’affrontare, in seguito, il gigante, i ragni, i serpenti e le sanguisughe, gli alberi semoventi, il lupo mannaro e la guerra… “non è così che avviene” (la mia morte), si ripete in questi casi il nostro protagonista, lasciando intendere ai più che egli conosca le circostanze del suo decesso, mentre invece egli conosce La Morte, il suo significato, la sua natura.
Ma andiamo per gradi: Edward, ancora ragazzino, si accorge di crescere con incredibile rapidità, tant’è che il suo corpo ottiene un aspetto maturo e “adulto” in soli tre anni. Sub specie interioritatis, è forse il suo “Corpo di Luce”, il suo “Osservatore”, il suo “Poimandres”, a formarsi e svilupparsi in modo così rapido dopo aver incontrato la strega. Poiché la Coscienza può dimorare in stato embrionale e dormiente in un individuo per lunghissimi anni, per poi sbocciare e dispiegarsi in modo rapidissimo quando viene accesa la scintilla della nascita interiore, chiamata anche, nei testi buddisti, “Bodhicitta”, “Pensiero del Risveglio”.
Cosciente che il suo villaggio, la sua cerchia, non è più in grado di soddisfare le necessità del suo destino, della sua “leggenda”, Edward decide di intraprendere un viaggio. Ma ancora una volta questo non andrebbe inteso come un viaggio nel senso esteriore, bensì del misterioso pellegrinaggio spirituale che conduce ai Misteri. Prima di partire, si offre di liberare il villaggio dalla minaccia di un gigante che fa strage di greggi e devasta i campi impaurendo la popolazione.
Il ragazzo si avvia quindi verso l’antro del gigante, e lo incontra. Ma ben presto si rende conto che Carl, questo il suo nome, non è certo un malvagio mangiauomini, bensì la prima vittima di sé stesso, o meglio della propria fame. Edward spiega a Carl che è normale che nella piccola realtà del villaggio non trovi adeguate risorse alimentari, e gli consiglia di migrare in una grande città. Non solo: si propone di partire insieme a lui (lasciare il paese, come abbiamo detto, era già nei suoi piani).Carl significa “Uomo”. L’Uomo è qui paragonato ad un gigante dalla fame smisurata, che devasta ogni cosa nella speranza di saziarsi, ma che solo elevando la propria fame verso più alti orizzonti potrà trovare la propria realizzazione. Dunque, prima di tutto il gigante deve “uscire dalla caverna” (con tutti i rimandi al mito platonico che ciò sottintende), in secondo luogo lasciare il villaggio per migrare in città. E qui entra in gioco la metafora del pesce rosso usata nel film da Edward per descrivere la propria situazione: le dimensioni di un pesce rosso dipendono dalla grandezza del suo acquario. Non si tratta, mi sembra evidente, di migrare dalla campagna alla città nel senso “geografico” del viaggio, bensì di trasporre il proprio habitat su un più evoluto livello di esistenza, che ci offra nuove mete, nuove risorse. È la trasmutazione del desiderio, dell’ambizione, dell’aspirazione. Trasmutazione dovuta proprio alla Bodhicitta, che altrove ho definito “morte di Uroboro” (il desiderio centrifugo, rivolto all’esterno) e “nascita di Ureo” (il desiderio centripeto, rivolto all’interno). Quel “punto interno” è la “città” cui tende Edward, e perciò il luogo in cui vuole condurre il gigante (Carl, l’Uomo interiore). Solo allora si potrà comprendere che l’uomo è realmente un gigante, se intendiamo con ciò la sua statura nel contesto dell’intera creazione. Nel Corano, Dio invita tutti gli angeli ad inchinarsi all’ultima delle sue creazioni, Adamo.
Alla sua partenza Edward riceve le chiavi del villaggio (una chiave d’oro che il sindaco gli sistema al collo come ciondolo), oltre alla promessa della più calorosa accoglienza quando fosse tornato. Ricordiamoci infatti che ogni “viaggio iniziatico”, si svolge in una dimensione interna, non prevede (necessariamente) un reale allontanamento dalla terra natia. In qualche modo, è come se l’iniziato scoprisse una chiave che gli permetta di “andare e tornare” dal proprio paese d’origine senza mai fisicamente spostarsi, né rimanere “assente” da quel luogo; poiché egli non perde la sua “maschera”, la sua “persona sociale”, né si estrania e smette di partecipare alla propria vita esteriore, tutt’altro. È forse proprio grazie alla sua nuova vita interiore che può realmente iniziare a partecipare “da desto” alla vita esteriore.
Ma, dicevamo, la chiave gli permette di aprire una nuova porta, che dà su un mondo totalmente sconosciuto e oscuro. Eppure, (come afferma Edward nel film), com’è difficile procedere nel buio! Scegliendo di percorrere la strada sterrata che passa dalle paludi, egli si rende ben presto conto di quanto sia profonda tale oscurità. Edward si ritrova nella selva oscura, ed incomincia la sua Nigredo, la sua “discesa” nelle profondità di sé stesso.
Alla fine, dopo aver affrontato l’oscurità e il disorientamento, Edward trova o meglio riesce a far luce sul suo “luogo” interiore, il villaggio chiamato infatti Specter. Specter, spettro, dal latino “spèctrum”, letteralmente “lo strumento per vedere”, che non è l’occhio, poiché noi non vedremmo nulla dai soli occhi se questi non fossero legati al “meccanismo interiore” che ci permette di trasformare le immagini in informazioni coscienziali.
Come chi entra in un tempio, o calpesta un luogo ritenuto sacro, e come Mosé di fronte al roveto ardente, chi si incammina per le vie di Specter deve “togliere i propri calzari”, a sottolineare la natura “intangibile”, “incorporea” del luogo.
Tuttavia, Specter (dove pure Edward avrà modo di fare alcuni interessanti incontri ed esperienze di valore simbolico) è appunto un “mezzo per vedere”, non una meta, non La meta del viandante in ogni caso. La “realtà interiore” percepita in stato meditativo-introspettivo non è il luogo ultimo del cammino di un Iniziato, anche se molti fra coloro che giungono a Specter vi si fermano. Edward inizia a “popolare” la sua realtà interiore, ma non è in questo “limbo” che dovrà dimorare. È necessario che Specter sia il gradino, la soglia, il preludio di un oltre.
Perciò, Edward riprende lesto il suo cammino, e ritrovando il gigante, Carl, sulla via, raggiunge con esso il tendone di un circo.
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